A cura del dott. Stefano Del Priore
Culto e Templi tra Roma e Tibur
Il culto romano e tiburtino di Ercole ricalcò in maggior parte quello ellenico, seppur con delle varianti squisitamente locali: non ci occuperemo in questa sede di appronfondire la sua origine greca e le sue più celebri imprese, le mitologiche Δωδέκαϑλος – Dodekathlos1, le quali richiederebbero probabilmente un paio di volumi per esser trattate esaustivamente, ma ci limiteremo ad analizzare la valenza e la nascita del culto a lui dedicato in terra italica, soprattutto tra Roma e Tibur. Per quanto concerne la prima, in essa vi era due luoghi in particolar modo legati alla leggenda e al culto del Semidio dalla Pelle Leonina: ambedue là dove la valle del Circo Massimo sbocca verso il Tevere, uno godente della massima centralità e ubicato dinnanzi al colle Palatino2, mentre l'altro adagiato ai piedi dell'Aventino. Stiamo parlando ovviamente della zona della Porta Trigemina e di quella dell'Ara Maxima, in assoluto la più importante nel corso di tutta la lunga e gloriosa storia dell'Urbe Capitolina e tanto nell'una quanto nell'altra il monumento più importante, ivi presente, era attribuito all'Eroe: il Templum Herculis Victoris in propinquità dell'Ara di Iuppiter Inventor innalzata da Ercole stesso, dai suoi compagni rimasti in Italia3 o dall'Arcade Evandro, per celebrare la vittoria sul mostruoso gigante Caco4; chiunque fosse stato, il sito era stato però reso sacro ben prima che Roma sorgesse agli occhi del mondo. Tito Livio (Ab Urbe Condita I, VII) così riportò l'episodio:
"Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. In primo luogo fortifica il Palatino, sul quale lui stesso era stato allevato. Offre sacrifici in onore degli altri dèi secondo il rito albano, e secondo quello greco in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro. Stando alla leggenda, proprio in questi luoghi Ercole uccise Gerione e gli portò via gli splendidi buoi. Perché questi riprendessero fiato e pascolassero nella quiete del verde e per riposarsi anche lui stremato dal cammino, si coricò in un prato vicino al Tevere, nel punto in cui aveva attraversato a nuoto il fiume spingendo il bestiame davanti a sé. Lì, appesantito dal vino e dal cibo, si addormentò profondamente. Un pastore della zona, un certo Caco, contando sulle proprie forze e colpito dalla bellezza dei buoi, pensò di portarsi via quella preda. Ma, dato che spingendo l'armento nella sua grotta le orme vi avrebbero condotto il padrone quando si fosse messo a cercarle, prese i buoi più belli per la coda e li trascinò all'indietro nella sua grotta. Al sorgere del sole, Ercole, emerso dal sonno, dopo aver esaminato attentamente il gregge ed essersi accorto che ne mancava una parte, si incamminò verso la grotta più vicina, caso mai le orme portassero in quella direzione. Quando vide che erano tutte rivolte verso l'esterno ed escludevano ogni altra direzione, cominciò a spingere l'armento lontano da quel luogo ostile. Ma poiché alcune tra quelle messe in movimento si misero a muggire, come succede, per rimpianto di quelle rimaste indietro, il verso proveniente dalle altre rimaste chiuse dentro la grotta fece girare Ercole. Caco cercò di impedirgli con la forza l'ingresso nella grotta. Ma mentre tentava invano di far intervenire gli altri pastori, stramazzò al suolo schiantato da un colpo di clava. In quel tempo governava la zona, più per prestigio personale che per un potere conferitogli, Evandro, esule dal Peloponneso, uomo degno di venerazione perché sapeva scrivere, cosa nuova e prodigiosa in mezzo a bifolchi del genere, e ancor più degno di venerazione per la supposta natura divina della madre Carmenta, che prima dell'arrivo in Italia della Sibilla aveva sbalordito quelle genti con le sue doti di profetessa. Evandro dunque, attirato dalla folla di pastori accorsi sbigottiti intorno allo straniero colto in flagrante omicidio, dopo aver ascoltato il racconto del delitto e delle sue cause, osservando attentamente le fattezze e la corporatura dell'individuo, più maestose e imponenti del normale, gli domandò chi fosse. Quando venne a sapere il nome, chi era suo padre e da dove veniva, disse: «Salute a te, Ercole, figlio di Giove. Mia madre, interprete veritiera degli dèi, mi ha vaticinato che tu andrai ad accrescere il numero degli immortali e qui ti verrà dedicato un altare che un giorno il popolo più potente della terra chiamerà Altare Massimo e venererà secondo il tuo rito.» Ercole, dopo aver teso la mano destra, disse che accettava l'augurio e che avrebbe portato a compimento la volontà del destino costruendo e consacrando l'altare. Lì, prendendo dal gregge un capo di straordinaria bellezza, fu per la prima volta compiuto un sacrificio in onore di Ercole. A occuparsi della cerimonia e del banchetto sacrificale furono chiamati Potitii e Pinarii, in quel tempo le famiglie più illustri della zona. Per caso successe che i Potitii giungessero all'ora stabilita e le viscere degli animali vennero poste di fronte a loro, mentre i Pinarii, quando ormai le viscere erano stae mangiate, arrivarono a banchetto cominciato. Così, finché durò in vita la stirpe dei Pinarii, rimase in vigore la regola che essi non potessero cibarsi delle interiora dei sacrifici. I Potitii, istruiti da Evandro, furono per molte generazioni sacerdoti di questo rito sacro, fino al tempo in cui, affidato ai servi di Stato il solenne officio della famiglia, l'intera stirpe dei Potitii si estinse. Questi furono gli unici, fra tutti i riti di importazione, a essere allora accolti da Romolo, già in quel periodo conscio dell'immortalità che avrebbe ottenuto col valore e verso la quale lo conduceva il suo destino. Sistemata la sfera del divino in modo conforme alle usanze religiose e convocata in assemblea la massa che nulla, salvo il vincolo giuridico, avrebbe potuto unire nel complesso di un solo popolo, diede loro un sistema di leggi e ritenendo che sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici solo a patto di render se stesso degno di venerazione per autorità emanata, divenne più maestoso tanto nella persona quanto per via dei XII Lictores dei quali si circondò da quel momento. Alcuni sono dell'opinione che egli scelse questo numero in base a quello degli uccelli che, con il presagio di cui si erano resi protagonisti, gli avevano predetto il regno. A me non dispiace la tesi di coloro i quali sostengono di come siano stati importati dall'Etruria (da dove furono introdotte la Sedia Curule e la Toga Praetexta) sia questo tipo di subalterni che il loro numero; essi ritengono che così fosse presso gli Etruschi dato che, una volta eletto il Re dall'insieme dei XII Popoli, ciascuno di essi forniva un Lictores a testa"
A onor del vero, però, l'antichità di questo mito non è qualcosa su cui prestar giuramento, tanto che quando Virgilio ne arricchì la narrazione con la sua Ars Poetica, esso non doveva, tantomeno poteva, esser considerato come vetusto; trattasi, probabilmente, di una delle molteplici forme assunte dalle gesta eroiche importate dagli Elleni della Magnagrecia, ognuna in possesso della propria variante incarnata, soprattutto, nella figura dell'incauto ladro: fermatosi di ritorno dalla fatica che lo aveva visto sottrarre in un'imprecisata terra occidentali i sacri buoi di Gerione, il mandriano del Sole, Ercole aveva a sua volta subito un furto di parte delle bestie. Nella città di Crotone l'identità del ladro rispondeva al nome di Lakinios, il quale fu ovviamente ucciso assieme al malcapitato Kroton, genero del lestofante e amico dell'Eroe, che aveva tentato di impedire il furto: Ercole, come parziale risarcimento, promise allo sfortunato che sarebbe divenuto ecista "nominale" di una città potente e temuta (Kroton, per l'appunto, l'odierna Crotone); anche a Locri il brigante rispondeva al nome di Lakin(i)os, mentre l'innocente era Lokros eponimo della città. Uno di questi racconti, nelle sue innumerevoli versioni, venne ambientato a Roma lungo le rive del Tevere e il ruolo del ladro fu assegnato a Caco, figura della quale conosciamo poco o nulla se non fosse per le parche informazioni forniteci da Virgilio, ancestrale cretura locale che dovette ricoprire in un remoto passato un ruolo molto importante nella cultualità di quelle terre, tanto da esser "eletto" ad antagonista in un episodio eracleo: per quanto concerne i nome che ricevette in Roma, invece, ovveorosia Hercles, Hercoles ed infine Hercules, essi rientrano tra le molteplici deformazioni ampiamente attestate in Italia poichè in lingua etrusca fu conosciuto come Her(a)cle, Hercla o Erkle, Hereklos in osco, Herkle in Italia centrale ed Herc(o)lo in sabellico, ma nulla che ci fornisca indizi probanti circa la sua provenienza. A riguardo dell'origine dei suoi santuari capitolini, non possediamo alcun informazione che possa risultare probante dato che il quartiere in cui sorsero, il Forum Boarium, è sempre stato un attivo crocevia commerciale, delimitato da una triade di scoscesi colli – il Palatino nel versante sud – orientale, l'Aventino in quello meridionale e il Campidoglio a settentrione, ubicato presso la convergenza dei due principali assi viari che garantirono potere e ricchezza a Roma: la via fluviale, il Tevere, percorsa risalendone il corso dalle imbarcazioni che avevano attraccato a Ostia, e la via di terra che, passando per il ponte Sublicio e attraversando Velabrum e Suburbia, connetteva il centro Italia e la Sabina con le zone costiere e marittime dell'Etruria. Possiamo agilmente supporre che questo porto urbano, la cui area fu parzialmente bonificata e sottratto alle paludi acquitrinose che infestavano il luogo, divenne ben presto un fulcro attrattivo per una poliantea di genti attirate dalla prosperità dei commerci, genti che assai probabilmente vi recarono, più volte e da diverse località, il culto di Ercole. Perlomeno fino agli ultimi anni del IV secolo il culto di Ercole lo si può definire come strettamente privato, al cui ufficio era preposta la Gens dei Potitii e, in posizione di subordinazione rispetto a quest'ultimo, quella dei Pinarii, come riscontrabile nel brano di Tito Livio riportato poco sopra: a riguardo dell'origine delle due Gentes non vi sono elementi tali da farcele ritenere come straniere tantomeno che non si trattasse di veri e propri nuclei familiari come supposti da alcuni, nelle quali hanno voluto vedere collegi sacerdotali camuffati da famiglie o, addirittura, messaggi celati nascondendo nel nomen termini propri del linguaggio misterico come ποτìξων, "coppiere" per Potitii e πεινωντες, "affamati [del nutrimento vitale] per i Pinarii5; la leggenda, a ogni modo, riportava l'esclusiva del loro conferimento cerimoniale a opera dello stesso Ercole. Una prova discretamente interessante, dal punto di vista archeologico, a riguardo dell'antichità del culto è rappresentata dalla scultura d'argilla dell'Hercules Fictilis presiedente ai culti officiati presso l'Ara Maxima, la cui mano plasmatrice sembra esser stato il celebre etrusco Volca autore, tra l'altro, anche della statua di Iovis Capitolini6: dobbiamo però evidenziare, per onestà intellettuale, la possibilità che tale statua erculea non fosse stata creata a Roma tantomeno per Roma poichè numerose città etrusche, a partire da Veio che capitolò nel 396 a.C., furono brutalmente saccheggiate e depauperate dei loro beni, tesori e ricchezze. Nell'anno 312, comunque, questa antica tradizione cultuale venne meno, per quali ragioni e sotto quali condizioni non è dato saperlo: l'annalistica narra che essendo Censore il leggendario Appio Claudio Cieco7, quest'ultimo avesse persuaso i Potitii a cedere in favore della Res Publica il loro familiare sacerdotium e, al contempo, iniziare ai riti degli schiavi di pubblica proprietà. Festo ci fa sapere che il Censore riuscì nel suo intento, tra l'altro al vantaggioso prezzo di 50mila assi8, ma Ercole non dovette gradire molto questa transazione nella quale non fu minimamente interpellato tantomeno recitò un ruolo agente, o forse si infuriò poichè i suoi segreti secolari furono così rivelati: fatto sta che Appio Claudio venne privato della vista e, durante il corso dell'anno, tutti i Potitii vennero sterminati, morendo uno a uno.9 Il Dio, a ogni modo, fu magnanimo nella sua collera dato che la punizione inflitta si limitò a questi due ammonimenti e, dal quel momento, una volta all'anno il Praetor Urbanus si occupò di offrire in sacrificio un bue, o una giovenca, all'Ara Maxima: non possiamo certamente giurare che gli accadimenti si svolsero esattamente in questo modo e non è escludibile che il racconto sia stato modellato secondo una volontà prettamente moralistica al fine di incutere timore e rispetto dell'ancestrale Mos Maiorum romano, forse in un periodo storico nel quale i gusti e le mode per le mollezze di Grecia e Oriente ne stavano minacciando l'integrità granitica. E' altamente probabile che lo Stato si fosse incaricato di perpetrare il culto10 a seguito dell'estinzione della Gens, i Potitii, che ne officiava le sacralità sin dal passato remoto ed era costumanza diffusa che il potere centrale si occupasse di vigilare affinchè i Sacra Privata più importanti e antichi non scomparissero assieme ai celebranti esercitando, de facto, una usucapio pro herede: anche a fronte di ciò, comunque, non risulta di agile compresione il perchè un evento tutto sommato abbastanza banale come l'estinzione di un nucleo familiare sia divenuto soggetto portante di una narrazione altamente drammaticizzata contenente, quali tópoi, la mercificazione del Sacro e la conseguente vendetta divina; forse l'unica risposta plausibile è quella suggerita in precedenza, ovverosia una ratio squisitamente moraleggiante in un periodo in cui gli Antichi Costumi erano minacciati da contaminazioni esterofile. Alcuni ritengo tuttavia che ci sia stata una vendita effettiva dalla Gens allo Stato sia tramite una communicatio Sacroum sia attraverso una in iure cessio, con il Censore Appio Claudio quale proponente attivo e i Potitii nel ruolo di passivi accondiscendenti: la ragione di tutto ciò sarebbe stata meramente, e concedetecelo banalmente, economica. Per quanto rientrante nei Sacra Privata, il culto eracleo presso l'Ara Maxima possedeva all'epoca già i germi di un'apertura verso il pubblico a causa della decima e, mano a mano che si sviluppò crescendo in fatturato e importanza, lo Stato volle regolarizzarlo e controllarne i flussi, con i proprietari del familiare sacerdotium gravati da un compito divenuto sin troppo impegnativo e poco remunerativo11 assai lieti d'accettare la proposta di statalizzazione del culto. Le festa annuale del Dio presso l'Ara Maxima12, fondamentalmente un altare in un lucus con un sacellum contenente la reliquia statuaria, si svolgeva il 12 di agosto e la sua ricostruzione, e interpretazione, ci è resa possibile in base alla minuziosa descrizione del sacrificio compiuto dall'Arcade Evandro nell'ottavo canto dell'Eneide (CCLXVIII – CCCV), di cui riportiamo il testo:
"Di
villoso leon disteso un tergo,
Seco al suo desco ed al suo seggio
accolse.
Per man de’ sacerdoti
e de’ ministri
Del sacrificio, d’arrostite carni
De’
tori, di vin puro, di focacce,
Gran piatti, gran canestri e gran
tazzoni
N’andaro a torno; e co’ suoi Teucri tutti
Enea fu
de le viscere pasciuto
Del saginato a Dio devoto bue.
Tolte le
mense, e ’l desiderio estinto
De le vivande, a ragionar
rivolti,
Evandro incominciò: Troiano amico,
Questo convito e
questo sacrificio
Così solenne, e questo a tanto nume
Sacrato
altare, instituiti e posti
Non sono a caso; chè del vero culto
E
de gli antichi Dei notizia avemo.
Per memoria, per merito e per
voto
D’un gran periglio sua mercè scampato,
Son questi onori
a questo dio dovuti.
Mira colà quella scoscesa rupe,
E que’
rotti macigni, e di quel colle
Quell’alpestra ruina, e quel
deserto.
Ivi era già remota e dentro al monte
Cavata una
spelonca, ov’unqua il sole
Non penetrava. Abitatore un
ladro
N’era, Caco chiamato, un mostro orrendo
Mezzo fera e mezz’uomo, e d’uman sangue
Avido sì, che ’l
suol n’avea mai sempre
Tiepido. Ne grommavan le pareti,
Ne
pendevano i teschi intorno affissi,
Di pallor, di squallor luridi
e marci.
Volcano era suo padre; e de’ suoi fochi
Per la bocca
spirando atri vapori,
Gía d’un colosso e d’una torre in
guisa.
Contra sì diro mostro, dopo molti
Dannaggi e molte
morti, il tempo al fine
Ne diede e questo dio soccorso e scampo."
Il rituale viene esplicitamente dichiarato come ellenico (Servio Mario Onorato, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros II, VIII, CCLXXXVII e VIII, CCLXXVI) e il sacrificante officia il rito a capo scoperto (Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia III, VI, XVII) indossando una corona d'alloro (Στέφανος – Stephanos) colto sul colle Aventino (ancora Servio, VIII, CCLXXVI) e le donne ne erano escluse, così come nella quasi totalità dei culti eraclei: se ne ignora l'esatta ragione, seppur è probabile che fosse un riflesso dei Ἐλευσίνια Μυστήρια – Misteri Eleusini (Macrobio, I, XII, XXVIII); la celebrazione dei riti avveniva alla mattina e alla sera, con l'immolazione della vittima che avveniva prima di mezzogiorno mentre gli exta13 venivano consacrati al termine della giornata, tra canti e innni sacri, il tutto accompagnato da una processione notturna illuminata dalla luce di fiaccole: nella Religio romana questo lungo intervallo di tempo tra una parte della cerimonia e l'altra non era contemplato, essendo di norma definito come inter exta caesa et porrecta, la quale sappiamo esser stata applicata solamente durante gli estivi Vinalia14. Contrariamente a quanto prevedeva l'uso romano canonico, con la praefatio a Ianus o a Ianus e Iuppiter, i sacrifici a Ercole non contemplevano invocazioni ad altre Divinità se non a lui e dove per gli altri Dei sussistevano una serie di limitazioni, non stringenti per la verità data la complessità e la vastità dell'elenco che ne regolava la natura, circa le sostanze che potessero essere offerte, a Ercole era concesso di mangiare e bere qualunque cosa15a conferma della leggendaria voracità dell'Eroe; tale crapuloneria era parimenti estesa a tutti gli astanti i quali divoravano in situ tutto l'animale immolato, compresa la pelle (il cuoio, d'altronde, diveniva alimento prezioso durante i periodi di carestia). Un altra caratteristica degna di nota è l'associazione dei luoghi di culto del Dio con la vicinanza di fonti d'acqua, naturali o fontane. Ancor più caratterizzante della cerimonia era il servizio della decima presso l'Ara Maxima, per la quale sembra che le devozione fosse perenne senza esser inquadrata in un periodo particolare dell'anno: anche lei, ovviamente, fu connotata da narrazioni leggendarie tra le più varie come quella che vide, durante l'avventura di Caco, il suo avversario Recanaro consacrare un decimo del proprio bestiame al luogo di culto erculeo, dal quale si ebbe un ut Herculi decimam profonari mos esset, mentre prestando fede a un'altra versione (già accennata in precedenza) fu lo stesso Eroe a insegnare a Potitio e Pinario le regole da seguire per la corretta officiazione del culto consacrando la decima parte dei buoi sottratti a Gerione e diretti in Ellade. Al di là di questi racconti leggendari possiamo affermare con un certo qual grado di certezza che l'istituzione della decima possedeva radici ben salde e che contribuì notevolmente alla crescita del culto, in fama, importanza e potere: a riguardo della fondazione del tempio la testimonianza di Macrobio (III, VI, XI), derivata dal secondo libro dei Memorabilia di Masurio Sabino, narrava che M. Octavius Herennius, o Hersennus dopo esser stato Tibicine (suonatore di flauto) in gioventù, si stancò a tal punto della propria professione da risultarne disgustato, decidendo di entrare nel commercio e, nello specifico, divenendo un ricchissimo commerciante d'olio appartenente alla corporazione degli Olearii, guadagnando cifre spropositate; egli consacò la decima parte dei propri guadagni al Dio. Sulla patria di Herennius, così come la “priorità” cultuale di Ercole tra Roma e Tibur, si è lungamente (ancor oggi, a onor del vero) dibattuto, divisi tra chi lo vuole originario della prima, chi della seconda; indizi probanti non ve ne sono, solo labili indicazioni circa attestazioni territoriali concernenti la sua Gens e le professioni da lui praticate: al Santuario Tiburtino di Hercules Victor era collegata la corporazione di flautisti Tibicines16 a cui Herennius appartenne in gioventù e il la fonte della sua successiva ricchezza, la vendita di olio pregiato, era certamente una delle attività commerciali di maggior spicco nella città tiburtina (l'olio prodotto a Tivoli è di notevole qualità). Sommando tutto ciò alla grande devozione che Tibur ebbe nei riguardi di Ercole, nonché la considerazione circa le sue (leggendarie, al momento, ma ben attestate nelle fonti storiche prese in esame) origini greche, non ci sentiamo di escludere una preponderanza per le origini tiburtine di Herennius. In seguito, durante una navigazione, egli fu aggredito da un manipolo di pirati ma eroicamente resistette, riuscendo a debellare la minaccia degli assalitori: Ercole gli apparve in sogno, rivelandogli di aver provveduto egli stesso a garantire la salvezza del commerciante; fu così che Herennius decise di chiedere ai Magistrati di Roma un terreno nel Forum Boarium17 ove poter erigere un tempio, donando ampi proventi, e una statua in onore del Dio, alla cui base di quest'ultima fece incidere il titolo di Victor o di Olivarius. Dal tempio romano proviene un blocco marmoreo, dalla verosimile funzione di base per la statua presente all'interno, il quale riporta l'iscrizione dedicatoria per l'appunto a Hercules Olivarius, oltre che il nome dell'autore del manufatto: si tratta dello scultore greco Skopas Minor, vissuto nel II secolo a.C. e creatore di altre opere nel Circus Flaminius. Il tempio tondo di Hercules Victor, o di Hercules Olivarius, che dovette essere ricostruito attorno al 213 a seguito del terrificante incendio che aveva gravemente danneggiato tutta la zona, esemplificava la sua funzione nel trionfo, nel carattere d'eccezionalità della cerimonia volta a esaltare in una sorta di apoteosi (prodroma, seppur in forma minore, a ciò che in seguito sarà il rito della Deificatio) le virtù di coraggio, fortuna e valore militare del Generale vittorioso: il percorso del corteo si snodava attraverso un lungo tragitto il cui tragitto aveva principio dal Campus Martius sino al Circo Massimo, per poi raggiungere la Via Sacra e il Campidoglio, attraversando il Forum Boarium e transitando dinnanzi al tempio; la scultura bronzea di Ercole, detta Ercole del Foro Boario o Ercole delle Esperidi18, forse calco del II secolo di un'opera del IV il cui originale sarebbe da attribuirsi al celebre Mirone di Eleutere19 autore del Discobolo, veniva per l'occasione adornata di magnifiche vesti e posta sulla soglia del luogo sacro. La parte sicuramente più interessante della precedente narrazione concerne le parole utilizzate per descrivere la condizione del giovane flautista e la sua scelta d'abbandonare la professione di musico: scrivendo mercatarum instituit, si fece chiaramente intendere che il ragazzo divenne cliente e debitore del Dio entrando nel mondo del commercio, di cui Ercole era patrono e protettore. La figura di Ercole probabilmente penetrò nelle zone laziali attraverso le grandi vie di commercio con la Magna Grecia, e i greci che ne favorirono la diffusione non erano certo filosofi tantomeno poeti ma commercianti, con Tibur o Roma che funsero da "intermediarie" nella veicolazione di questa divinità-eroe nel territorio italico: Dio protettore dei commerci, della pastorizia, della transumanza che in Tibur s'inoltrava verso il Sannio, dagli attributi guerrieri e vittoriosi e dunque la sua venerazione sembrerebbe ricalcare alla perfezione le necessità e le attività delle antiche civiltà laziali dell'epoca. Le sue virtù, i suoi simbolismi, le sue imprese terrene erano naturalmente traslate verso le condizioni di vita dei suoi devoti fedeli: al pari del Dio, essi percorrevano il mondo e ne sfidavano i pericoli, scampati dai quali si offrivano ricchi sacrifici al loro nume tutelare. Ognuno di essi ebbe probabilmente le proprie avventure, segnate da vittorie, difficoltà e peripezie, e tale fu alla base dell'epiteto Victor, nel quale è possibile rintracciare un lontano eco del greco χαλλινιχοσ, riferibile tanto alle asperità quanto alla capacità di respingere vittoriosamente gli assalitori (su questa valenza specifica torneremo in seguito quando analizzeremo la figura del Dio in Tibur) e ciò lo rese anche Invictus, ovveorsia l'Indomabile. Con il trascorrere dei secoli, l'usanza di offrire al Dio al decima sarà mutuata anche dai Generali vittoriosi in guerra, i quali consacrarono la parte stabilita del bottino, mutuando in cambio le prerogative spiccatamente marziali come la forza, il coraggio e l'arguzia militare del Divino Frantumamontagne: a tal proposito, molti Santuari minori dedicati al Dio dovettero la loro esistenza a Generali eruditi e dotati di una generosa dose di buona sorte: di ritorno dalla campagna in Etolia20, Marcus Fulvius Nobilior (II secolo a.C, politico e militare romano) edificò tra il Circo Flaminio e il Tevere il tempio di Ercole e delle Muse, nel quale era possibile ammirare la statua di Ercole Citaredo e delle 9 Muse, plasmate in terracotta da Zeusi; successivamente, circa due secoli dopo, questo luogo di culto divenne un vero e proprio museo della cultura ellenica a seguito della sua ricostruzione e ristrutturazione, con l'aggiunta di un portico, da parte di Lucius Marcius Filippus suocero di Ottaviano Augusto. Restando in ambito di restauri, a Pompeo Magno21, invece, è da attribuirsi il rifacimento del Templum Herculis Pompeiani in propinquità del Circo Massimo22, la cui titolatura sembra suggerire una protezione divina ad personam.
Statuetta in Marmor Parium, il pregiato marmo pario, priva di braccia e parte delle gambe, raffigurante il Semidio Ercole quale un giovane imberbe, nudo e seduto su di uno sperone roccioso adornato dalla Leontè. I secolo a.C., Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore di Tivoli.23 |
Nel corso del IV secolo, certamente periodo nel quale la società romana conobbe un buon numero di innovazioni che ne mutarono gradualmente l'essenza, la figura di Ercole mostrò la sua duplice natura in almeno un paio di circostanze: Divinità straniera eppure integrata nel tessuto religioso così profondamente da divenire romano per “adozione” seppur, paradossalmente, la sua “estraneità” crebbe di pari passo con la conoscenza di quel mondo greco che alimentava quotidianamente ogni aspetto quotidiano del porto urbano, divenuto vero e proprio centro cosmopolita; quando Roma, durante il primo quarto del terzo secolo, iniziò a batter moneta propria, il Dio figurò sul quadrans24 a dispetto del suo nome (ancora) greco e a inizio secolo, durante il primo lectisternius da considerarsi come un atto fondamentale per l'istituzione e lo sviluppo del graecus ritus, lo si unì a Diana oramai assimilata all'ellenica Ἄρτεμις – Ártemis25 in una delle tre coppie divine “rabbonite”, tramite sontuose offerte, su di una triade di gloriosi giacigli. Per le genti elleniche impegnate nelle mercantili attività, a ogni modo, Ἡρακλῆς - Heraklês non fu mai il Dio patrono del commercio, nonostante fossero loro ad averne recato figura e culto sulle banchine del porto urbano sul Tevere, quanto piuttosto la personificazione del potere, o dell'energia, necessario affinchè tale esercizio divenne fruttuoso, lasciando la potestà in tale ambito allo scaltro Ἑρμῆς – Hermês, lo Psicopompo Messaggero degli Dei protettore degli oratori, della letteratura, delle invenzioni, dell'atletica e dotato di furbizia, favella e intelligenza tali da recare seco le decisamente poco nobili peculiarità del ladrocinio e dell'inganno. Per quanto concerne la valenza del Dio nella vicina Tibur invece, come già analizzato in precedenza in un'altra pubblicazione26, Tibur fu così profondamente connessa al culto di Ercole al punto tale da esservi inscindibilmente associata: Herculea Tiburis Arces, Herculi Sacra, Herculeum Tibur, Herculeos Colles e il Dio vi fu massimamente venerato, ricordato nell'epigrafia come Hercules Victor, Hercules Tiburtinus Victor, Hercules Invictus, Hercules Victor Certenciinus, Hercules Domesticus e Hercules Saxanus. Numerose decorazioni, quale l'Ercole Tunicato nella Mensa Ponderaria27ed epigrafi, come sopra riportato, attestano lo strettissimo rapporto che vi fu tra Ercole e gli abitanti di Tibur, rendendo senz'ombra di dubbio il figlio di Zeus la divinità maggiormente onorata a livello locale: il grandioso santuario di Hercules Victor nei pressi dell'Acquoria ne è palese testimonianza.
E' indubbiamente interessante analizzare il percorso di tale venerazione, di come si sia originata, la sua provenienza, le sue caratteristiche intrinseche e particolari, la predominanza dell'Ercole Tiburtino su quello romano o viceversa. Ambedue le ipotesi presentano la loro validità, per cui in assenza di ulteriori prove fornite dall'archeologia risulta piuttosto ardimentoso potersi esprimere definitivamente. Non è semplice ipotizzare quando ciò avvenne, sicuramente molto prima dell'edificazione del Santuario tiburtino, il quale monumentalizzò un'area sacra dedicata ad Ercole già da molti secoli: forse in origine un τέμενος - Tèmenos, un bosco sacro recintato, sede di uno stanziamento temporaneo di pastori e viandanti veneranti il Dio in particolari momenti dell'anno legati all'attività pastorale e del commercio, situazione ricalcante in modo abbastanza similare a quella discussa poc'anzi circa il romano Forum Boarium. Degno di nota è già analizzato passo di Virgilio nell'Eneide, dove viene descritto l'instaurazione del culto del Dio: la suddivisione tra mattina e sera del rituale stette forse a simboleggiare la duplice natura mortale e divina del Dio. I sacerdoti marciavano sorreggendo fiaccole, vestendo pelli ferine e con corone d'alloro, colmando gli altari con piatti traboccanti di offerte; successivamente sopraggiungevano i Salii, collegio sacerdotale romano istituito per tradizione dal Rex Numa Pompilio, con il capo coperto da una ghirlanda di pioppo, albero sacro ad Ercole, danzanti ed elevanti cori dinnanzi agli altari, divisi tra giovani e anziani. I Sacerdoti Salii, che in Roma curavano il culto del bellicoso Dio Marte28, celebravano riti sacri in giorni stabiliti, i cosiddetti giorni Fausti, e dopo aver divinato degli auspici. Interessante quindi notare che nella descrizione virgiliana il poeta si riferì molto probabilmente alla ritualità dell'Ercole tiburtino, in quanto sembra che tale particolare attestazione dei Sacerdoti Salii, officianti il culto del figlio di Zeus, fosse tipicamente locale. Le feste sacre del Dio erano previste, come in Roma, per le Idi di Agosto (nei giorni 12 - 13), e nel teatro grande Santuario Tiburtino venivano inscenate le Dodèkathlos, ossia le Dodici Fatiche che l'Eroe Solare sopportò a causa della matrigna Hera. Numerose epigrafi rinvenute testimoniano l'importante presenza del collegio dei Salii nella nostra città, collegio che sembrava accogliere esclusivamente patrizi, non di rado forestieri. Il termine più antico designante il sacerdote preposto al culto di Ercole sarebbe Cupencus, secondo Servio: il termine sarebbe comunque stato comune a tutta l'area sabina e non solo a Tivoli. Sappiamo,dalla testimonianza di Aulo Gellio, che visitò Tivoli nel 160 d.C. circa, dell'esistenza di una vasta e ben fornita biblioteca curata dai Sacerdoti Salii, di cui purtroppo si è perduta ogni traccia: vi dovette esser conservato anche un prezioso manoscritto a opera del già noto Herennius, autore di un testo, purtroppo andato perduto, nel quale erano minuziosamente riportati i rituali perpetrati dai Salii nell'officiazione dell'Ercole Tiburtino: la Gens degli Hersenii dovette essere ben nota in Tibur, nozione in nostro possesso grazie alle numerose testimonianze epigrafiche rinvenute. La nascita dell'epiteto "Vittorioso" in Tibur, dunque dalla forte connotazione bellica , sembra invece da mettere in relazione ad una battaglia che i Tiburtini sostennero contro i Volsci, o gli Equi, attorno al VI / V secolo antecedente l'era cristiana e dalla quale uscirono trionfanti: dopo tale episodio, il collegio dei Salii e l'epiteto "Victor" del nume furono istituiti in Tibur. In età imperiale il culto di Ercole venne associato e quasi si fuse con quello imperiale, per cui abbiamo gli Herculanei Augustales, gli Iuvenes Antoniniani Herculanei e i Magistri Herculaneorum Augustalium. In conclusione, il titolo "Hercules Saxanus" è attestato in epigrafia assai raramente, una sola volta , e presente in Italia esclusivamente a Tivoli e Trento, dove la maggior parte delle dediche proviene invece dalla Gallia Belgica e dalla Valle del Reno presso Andernach: tutte le epigrafi ad esso riferite sono state rinvenute presso antiche cave per l'estrazione della pietra. Possibile dunque ipotizzare che tale versione dell'Ercole fosse un protettore delle cave e delle persone che vi lavoravano, quindi da relazionarsi alle pietre lavorate e non alle rocce naturali. Traslando tutto ciò nel nostro territorio, dovrebbe esser piuttosto palese l'associazione di questo Ercole con i cavatori e i commercianti di Lapis Tiburtinus, il pregiato travertino locale. Il rinvenimento di un'epigrafe dedicata a Hercules Saxanus presso l'area forense di Tibur lascia intuire che nei pressi vi sorgesse un tempio a lui consacrato. A conclusione della disamina puramente cultuale concernente il figlio di Alcmena, riportiamo una curiosità riguardante la sua stazza, trasmessaci da Plutarco in un'opera non pervenutaci: si narra che il grande filosofo, taumaturgo, astronomo, matematico, politico e scienziato Πυθαγόρας – Phytagoras di Samo (Samo, tra il 580 a.C. e il 570 a.C. – Metaponto, 495 a.C. circa), fondatore a Κρότων/ Kroton – Crotone della celeberrima scuola filosofica Pitagorica, ebbe modo di calcolare l'altezza del Dio: poiché quest'ultimo aveva misurato con i propri piedi la lunghezza dello stadio olimpico di Pisa29, lungo 600 piedi, Pitagora ne stimò che Ercole dovette essere di statura superiore alla media dato che gli altri stadi greci erano più piccoli di quello pisano ma calcolati comunque in 600 piedi e dunque la medesima proporzione doveva essere applicata per quantificare l'altezza dell'Eroe, la quale sarebbe stata di circa quattro cubiti e un piede, ovverosia di 2,33 metri circa.
Ara dedicata a Hercule Saxanus30, l'Ercole delle rocce e delle pietre, Norroy - lès-Pont-à - Mousson, circa 70 dell'era Cristiana, museo di Bruxelles, Koninklijke musea voor kunst en geschiedenis. |
Inno Orfico ad Ἡρακλῆς
"O
tu che hai l'eccelsa forza per sempre indistruttibile di Zeus,
Eracle
d'animo vigoroso, di grande forza, prode Titano,
dalle mani
potenti, indomito, ricco di fatiche gagliarde,
dalle forme
cangianti, padre del tempo, eterno e benevolo,
indicibile, d'animo
selvaggio, molto pregato, onnipotente,
che hai un cuore che tutto
vince, forza grande, arciere, indovino,
che tutto divori, di tutto
generatore, fra tutti supremo, di tutti soccorritore,
che per i
mortali hai dato la caccia e posto fine alle specie
feroci,
desiderando la pace che nutre i giovani splendidamente
onorata,
che da te stesso nasci, infaticabile, il migliore
germoglio della Terra,
lampeggiante di scaglie primigenie, Paion
di gran nome,
che intorno al capo porti l'aurora e la nera
notte,
passando attraverso dodici lotte da oriente ad
occidente,
immortale, esperto, infinito, incrollabile;
Vieni,
beato, recando tutti i sollievi alle malattie,
scaccia le malvagie
sciagure agitando il ramo nella mano,
e manda via le Chere penose
con velenose frecce alate"
(Tratto da "Inni Orfici", edizione Lorenzo Valla e traduzione a cura di Gabriella Ricciardelli)
I luoghi di culto tra Roma e Tibur
Ara Maxima
Parliamo certamente di uno dei luoghi di culto più vetusti e celebri di tutta Roma, sito nel Forum Boarium ed eretto, come abbiamo avuto modo di analizzare, per commemorare la sconfitta di Caco per mano di Ercole la cui natura divina venne fatta manifesta da Evandro, il quale vaticinò a riguardo del glorioso futuro di Roma e della devozione che i suoi cittadini avrebbero tributato al figlio di Giove. L'Aedes Herculis Invicti è al di fuori d'ogni ragionevole dubbio il primo luogo di culto innalzato a Ercole e certamente antecedente al tempio stesso: esso era ubicato lungo l'attuale Via dell'Ara Massima, davanti al Circo Massimo31e in propinquità del suo carcere, al confine del Pomerium Palatino nella parte orientale del Forum Boarium e verosimilmente molto vicino al Tempio , attualmente a N /E di Piazza della Bocca della Verità e a N di Santa Maria in Cosmedin. La data canonica circa la sua prima costituzione, convenzionalmente fissata al 495 a.C., potrebbe essere persino anticipato a un'epoca ancora più arcaica, per quanto nella forma dovette probabilmente trattarsi di una struttura in pietra non rifinita sormonatata da una semplice copertura in legno: tale opinione è supportata da eminenti archeologi quali Mario Attilio Levi, Andrea Giardina e Filippo Coarelli: nonostante il primo abbia sempre ostracizzato una originaria influenza ellenica nella diffusione del culto erculeo, definendolo come "Ercole Romano", oggi possiamo affermare che la propensione generale sembra indirizzare (senza volersi pronunciare definitivamente circa l'italicità o grecità della genesi cultuale) su di un movimento religioso che provenne dalle aree sabine e, soprattutto, tiburtine, in virtù delle prerogative del dominio divino del Dio che si estendeva, oltre al commercio in generale, alla tratta del bestiame e della pastorizia, strettamente collegata con la transumanza che si snodava tra Umbria, Lazio e Abruzzo fino alla Murgia in Puglia. A riguardo del nome, tanto lo storico Publio Cornelio Tacito (Gallia Narbonense?, 55 – 58 circa – 117 – 120 circa) quanto il poeta e retore Decimo Giunio Giovenale (Aquino, tra il 50 e il 60 – Roma, post 127) concordano nello scrivere la titolatura "Maxima" ("Massima") anzichè "Magna" ("Grande"): la data dell'edificazione sembrerebbe risalire al 495 a.C., quando per arginare le disastrose piene del Tevere che flagellavano Roma sin dall'alba dei tempi, vennero abbattute tutte le costruzioni ubicate nel Forum Boarium e vennero eretti dei solidi muraglioni dalla funzione di frangiflutti. Come riportatoci ancora da Tacito, l'Ara arse durante il grande incendio di Roma32 sotto il principato di Nerone Claudio Augusto Cesare Germanico (Roma, 15 dicembre del 37 – Roma, 9 giugno del 68) ma venne successivamente restaurata, tanto che ancora nel IV secolo si ergeva nel sito originario. Diverse iscrizioni epigrafiche dedicate all'Invictus furono ritrovate nell'area, datate al II, III e IV secolo (Corpus Iscriptionum Latinarum VI, 312 – 315, 317 - 318), all'Alcide (316) e a Hercules Victor (319) e offerte perlopiù da Pretori, quando il Tempio tondo dell' Emiliano venne demolito per volere di Sisto IV nel XV secolo: non è ancora stato appurato se esse riguardassero il Tempio, l'Ara o ambedue. Per quanto concerne la seconda è opinione di alcuni che, a oggi, non siano state rinvenute tracce archeologiche, per quanto negli ipogei di Santa Maria in Cosmedin affiorino elementi strutturali di una certa antichità: i pavimenti del luogo di culto cristiano sono chiaramente marmi di origine romana e potrebbero esser stati prelevati sia dall'Ara Maxima che da uno dei portici della Statio Annonae, all'interno ancora svettano le superbe colonne dell'Aedes le quali dividono la navata principale della laterale ed è assodato che la Chiesa sia stata effettivamente edificata a seguito dello smantellamento e demolizione dell'Altare Erculeo, inizialmente coprendolo con una piccola cappella sufficiente a occultarne i resti. Nella cripta sono visibile dei blocchi tufacei di una certa consistenza ritenuti il podio dell'Ara oppure provenienti dal già menzionato Templum Herculis Pompeiani eretto al Dio da Pompeo Magno e sorgente comunque nelle prossimità, essendo stato localizzato nei pressi del Circo Massimo.
Statua di Ercole in bronzo dorato, II secolo forse su calco di una scultura bronzea del IV probabilmente ispirata allo stile di Lisippo, Roma, Musei Capitolini – Ph credit Christian Doddi |
Templum Herculis Magni Custodis ad Circum Flaminium
La festività era celebrata il 4 di giugno in onore di Hercules Magnos Custos, l'Ercole nella sua versione di Grande Protettore e si commemorava la Dedicatio della struttura presso il Circus Flaminius: il luogo era detto anche, come già accennato, di "Ercole e delle Muse", a cagione del gruppo scultoreo rappresentante le IX Muse ed Ercole Citaredo, costruito sul modello di quello dell' Ercole Musageto in Grecia. Di proporzioni imponenti, circondato un portico, risulta attualmente privo di alcuna attestazione archeologica.
Templum Herculis Invicti
La Dedicatio dellla struttura cultuale veniva commemorata il 12 di agosto presso il tempio di Ostia Antica, ove la devozione verso il Dio fu estremamente sentita e latrice di grande importanza; il tempio fu edificato in età sillana e subì molteplici restauri dall'età traianea in poi. Rivestì un ruolo estremamente importante sia per le spedizioni militari, osservabile da alcuni rilievi e statue posti all'interno del luogo di culto e donati dai vittoriosi miliatari che nel corso del tempo mostrarono così la loro gratitudine, sia per l'aspetto puramente commerciale. Il culto perdurò durante tutto il periodo repubblicano e imperiale, sopravvivendo anche durante i primi anni del cristianesimo, come si è avuto modo di appurare grazie ad alcune epigrafi e l'attestazione di un restauro, a opera di autorità pubbliche, datato al IV secolo. La devozione al Dio sembra fosse connotata anche da caratteristiche oracolari e una sua statua venne fortuitamente rinvenuta in mare.
Templum Herculis Victoris
Celebrata il 13 di agosto, ricorreva la Dedicatio del Tempio nel Forum Boarium a opera di M. Octavius Herennius. Alcuni saggi archeologici praticati nella zona antistante la chiesa di Santa Maria in Cosmedin sono stati probanti al fine di delineare con maggior chiarezza l'andamento sino a quel momento abbastanza incerto dell'antica linea muraria repubblicana, nel tratto compreso tra l'Aventino e il Campidoglio: le mura seguivano il corso del Tevere, snodandosi parallelamente al fiume e fungendo da vero e proprio muraglione per chiunque si appropinquasse alla città risalendo il corso d'acqua. Tutto ciò ha avuto il grande merito di permettere una migliore comprensione dell'area e soprattutto l'esatta collocazione delle Porte Urbane ivi stanziate: la Trigemina presso Santa Maria in Cosmedin e la Flumentana di fianco il tempio di Portumnus, così da lasciarci identificare con un elevato grado di certezza l'Aedes Herculis Victoris ad Portam Trigeminam nella struttura marmorea circolare erroneamente creduta per lungo periodo di tempo il l'Aedes Vestae e datata al II secolo a.C., probabilmente opera di un architetto greco suffragato da maestranze locali: la sua concezione, forse opera di quell' Ερμόδωρος – Ermodoro di Salamina33 autore di altre opere a Roma e spesso coadiuvato nei suoi lavori proprio dal già incontrato Skopas Minor, fu probabilmente modulata a imitazione di quella del perduto tempio di Hercules Invictus o Aedes Aemiliana Herculis eretto nell'anno 142 a.C. da Publio Cornelio Scipione Emiliano34 (185 a.C. – Roma, 129 a.C.), presumibilmente per commemorare la definitiva vittoria dell'Urbe contro Cartagine al termine della III Guerra Punica, presso l'Ara Maxima e, come già accennato, demolito dal Pontefice Sisto IV. Della copertura originaria restano solamente alcune lastre marmoree, mentre un blocco consistente probabilmente nella base della statua ospitata nella struttura ha consentito di identificare in Hercules Olivarius la Divinità venerata in loco oltre che l'autore della scultura: il greco Skopas Minor, vissuto nel II secolo d.C., spesso coadiuvante l'architetto Ερμόδωρος – Ermodoro di Salamina e autore di altre opere nel Circus Flaminius: le fonti antiche ci trasmettono la nozione dell'edificazione di un tempio dedicato a Hercules Victor nel 120 d.C., ubicato in propinquità della Porta Trigeminam: la sua costruzione è palese testimonianza del livello di potere economico e prestigio raggiunto dai mercanti romani in questo periodo, facoltosi al punto tale da potersi permettere il finanziamento di opere architettoniche progettate da maestranze elleniche e realizzate con preziosi marmi greci. La struttura presenta forti analogie con la coeva Agora degli Italiani di Delos, ove aveva luogo un celebre mercato degli schiavi istituito per volontà capitolina e finanziato da fondi romani, con quest'ultimi e gli Italici impegnati in redditizi traffici commerciali lungo le rotte del Mar Egeo. Un primo restauro del Templum Herculis Victoris è da annoverarsi durante il principato dell'Imperatore Tiberio (Tiberius Iulius Caesar Augustus, Roma, 16 novembre 42 a.C. – Miseno, 16 marzo 37 d.C., secondo Imperatore di Roma dal 14 al 37 e appartenente alla Dinastia Giulio – Claudia), plausibilmente a seguito della rovinosa inondazione del 15 d.C. e la sua conservazione in eccellente stato è dovuta al fatto d'essere stato trasformato, così come moltissimi altri edifici pagani in Roma e Tivoli, nella chiesa di Santa Maria del Sole, nel XII secolo (così denonimata perchè, stando alla leggenda, nei pressi del terreno dove sorgeva il luogo di culto cristiano fu rinvenuta un'icona della Beata Vergine dalla quale scaturiva un raggio solare). La srtuttura generale del tempio rivela immediatamente una chiara influneza ispirata da modelli ellenici Neoattici del II secolo basati sui canoni del IV, con i gradini anziché il podio, la struttura marmorea e gli imponenti ϑόλος – tholos dei Santuari greci, rivisitati però secondo i gusti stilistici del periodo Tardoellenico: esempi di tale corrente in Roma si osservano nell'Ara di Domizio Enobarbo e nell'Arcrolito Capitolino di Iuno Regina. Architettonicamente il tempio si presenta come un monoptero circolare avente diametro di 14,8 metri in marmo pentelico, ergentesi su di una fondazione in blocchi di cappellaccio a loro volta posizionati su altri blocchi in tufo, inglobanti lo sbocco della Cloaca Maxima, mentre la base è un crepidoma gradinato e non il classico podio italico; la cella, cilindrica, è orientata a est e dunque verso il sorgere del sole (importante simbologia nel culto erculeo) e nel suo pavimento si apre una profonda favissa, un deposito sacrale, modellato in forma di ϑόλος – tholos. La porzione centrale è circondata da venti colonne alte 10,6 metri aventi basi attiche e capitello corinzio e tra questi 11 e 9 risalgono al restauro tiberiano, chiaramente distinguibili poiché costituiti in marmo Apuano di Luni, dove altri hanno perduto nel corso del tempo la parte superiore. Trabeazione e soffitto della peristasi risultano mancanti, quest'ultimo modulata a cassettoni, mentre la foggia della copertura del tetto sovrastante la cella è oggetto di dibattito, credendo alcuni che potesse essere conica ribassata secondo il modello delle tholoi elleniche. Al suo interno, attualmente, sono ammirabili affreschi risalenti al 1475 e ritraenti cicli aventi come soggetti portanti la Beata Vergine e i Santi: nel medesimo anno vennero effettuate delle operazioni di riparazione alla struttura e installata sul pavimento una targa commemorativa in onore del Pontefice Sisto IV.
Il Tempio di Ercole Vincitore, o Ercole Oleario, nel Foro Boario, con alle sue spalle il tempio di Portumnus – Ph credit Christian Doddi |
(Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura de "L'Acropoli Tiburtina – Parallelismi con il Foro Boario", Christian Doddi, Annales di ArcheoTibur Volume 0, pagg. 109 – 113, Tivoli, Quickebook edizioni 2019.)
Templum Herculis Cubans
Anomala struttura ipogea menzionata dai Cataloghi Regionari che lo localizzano Trans Tiberim, in Trastevere, sembra utilizzata all'uso di θησαυρός – Thesauros ove venivano stipati oro,altri oggetti di valore e una statua del Dio scolpito in postura chinata così descritta: “Herculem Subterram Medium Cubantem Sub Quem Plurimum Aurum Positum Est”35.
Herculis Victor in Tivoli
“Il sito sorge in un punto strategico, al di fuori delle mura urbane, su delle imponenti sostruzioni erette per portare a livello la ripida costa scoscesa della collina su cui nasce la città di Tibur. Questo immenso complesso architettonico modificò sensibilmente l’andamento orografico naturale del luogo di ubicazione del Santuario e ciò risulta chiaramente visibile in una simulazione informatizzata nel libro “Tivoli, il Santuario di Ercole Vincitore” di C. F. Giuliani alle pagine 28 –29; inoltre fu edificato al di sopra di un tratto della via Tiburtina, antistante l’ingresso all’interno delle mura della città. Prima di parlare della costruzione in sé, è d’uopo descrivere l’attività culturale precedente alla monumentalizzazione della zona: nell’area subito al di sotto dell’attuale sito archeologico, nei pressi del ponte detto dell’Acquoria, da diversi secoli il semidio figlio di Giove era oggetto della venerazione da parte dei pastori locali e da quelli di transito. Probabilmente, come si può approfondire nell’articolo del dott. Stefano del Priore negli “Annales volume 0 – Culti & Dei nell'Antica Tibur Pars Secunda” (pagine 13 - 16), doveva ivi sorgere un Tèmenos ove si effettuavano rituali propiziatori e attività pastorali sacralizzate. Ovviamente la zona era un punto di incontro non indifferente poiché a valle, nei pressi del fiume Aniene, passava la via Tiburtina che risaliva il pendio della collina fino ad entrare nella città di Tibur; antecedentemente alla costruzione della via consolare vi era comunque un percorso secolare di collegamento tra la parte alta e la parte bassa della zona: non è affatto inverosimile l’idea che la via Tiburtina fosse soltanto l’evoluzione ingegneristica di quel percorso. Il segno della sacralità dell’area, quindi, era già impresso da diversi secoli (come già spiegato precedentemente) e perciò negli anni della Repubblica ci si limitò a monumentalizzare il luogo di culto per dare ai fedeli degli edifici, ove condividere la loro fede, più rigorosi di un semplice Tèmenos. La realizzazione del complesso del Santuario di Ercole Vincitore si data nel II secolo antecedente l'era cristiana: la pianta generale è a P con un tempio e un teatro posti nell’asse di simmetria centrale (anche se in realtà il Tempio non è perfettamente centrato per via della leggera differenza di dimensioni delle arcate dei portici, che essendo dello stesso numero sia nell’ala destra che nell’ala di sinistra, comportano un leggero spostamento dall’asse di simmetria). Tale soluzione può dirsi quasi canonica e difatti la ritroviamo nel Santuario di Giunone a Gabii, in quello Sannitico di Pietrabbondante, nel meraviglioso Santuario della Fortuna Primigenia a Praeneste (l’attuale Palestrina) anche se con degli accorgimenti orografici particolari, quello di Esculapio a Fregellae e quello di Munigua in Spagna (che prese come modelli proprio quelli di Tibur e Praeneste). L’Aedes Herculis poggiava su un doppio podio imponente: il primo probabilmente serviva per portare a livello dei portici superiori la base del secondo podio, mentre quest'ultimo serviva ad innalzare il tempio su un piano più alto rispetto a quello “mortale”. La maestosa struttura si presenta come un tempio ottastilo periptero sine postico e dall’inusuale composizione della pianta della cella derivante dai templi di stampo etrusco-italico. Tale soluzione è riscontrabile negli edifici sacri di Iuno Regina e Iuppiter Stator, presso il grande Porticus Metelli, fatto erigere da Quinto Macedonio Metello tra il 146 e il 143 a.C. Varie interpretazioni stilistiche sono state attribuite al Tempio di Ercole, c’è chi lo immagina come del tipo Dorico e chi lo raffigura del tipo Corinzio, ma personalemente ritengo che tale struttura con proporzioni così snelle apparisse a caratteri Ionici. Il rapporto tra diametro di base e altezza della colonna nel tempio tiburtino è circa di 8,5, ovverosia troppo snello per l’ordine Dorico di quel periodo, considerando che tale proporzione si raggiunge in età sillana nel tempio di Ercole a Cori (rapporto di 8,75). Operando un’attenta analisi dei rapporti altezza/diametro di base (ci vengono d’aiuto la Tavola XIV pag. 63 “guida agli ordini architettonici – il dorico” e la Tavola X pag. 49 “Guida agli ordini architettonici – lo Ionico”, di Giorgio Rocco) si riscontra che in media tale rapporto di circa 8,5 può ricadere nel periodo tra il II e il I sec. a.C. in ordini come lo Ionico e il Corinzio. Utilizzare, però, quest’ultimo ordine significherebbe realizzare dei capitelli sensibilmente più alti rispetto a quelli ionici e ciò ingannerebbe l’occhio umano riguardo la snellezza complessiva della colonna: per questi motivi, dunque, reputo plausibile ipotizzare che l’aspetto stilistico fosse d’ordine Ionico; purtroppo, però, senza riscontri archeologici non si può essere certi dell’appartenenza a tale maniera e di conseguenza senza tali prove non è sbagliato immaginare il tempio nei tre ordini. Inoltre nel complesso vi erano altri importanti strutture come il teatro, la biblioteca definita "Bibliotheca Tiburtis", il Thesauros ove erano custodite le ricchezze del tempio e di una basilica denominata Liapta, nelle cui aule l'Imperatore Ottaviano Augusto amava amministrare la giustizia (Svetonio, vite dei Dodici Cesari, Augusto), quando si trovava nella città Superba. Il possente Santuario dell'Ercole Tiburtino, fonte di ricchezza e potere per la città, rimase in funzione perlomeno fino al IV secolo dell'era cristiana, nonostante fossero già ravvisabili elementi di decadenza; la sua definitiva defunzionalizzazione, e caduta, avvenne probabilmente durante la guerra greco-gotica tra Totila e il generale bizantino Narsete: i Goti, dopo aver conquistato la città nel biennio 544-545, nell'anno 547 utilizzarono la struttura come base di acquartieramento e sede del tesoro imperiale, dopo averne fortificato le difese."
(Tratto da "Il Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli e i Grandi Santuari Repubblicani", Christian Doddi, in Annales di ArcheoTibur volume I, Quickebook edizioni, Tivoli 2020, disponibile al seguente link: https://www.archeotibur.org/p/il-santuario-di-ercole-vincitore-tivoli.html)
Appendix: le Dodèkathlos e il loro valore simbolico
Come anticipato in precedenza, tratteremo il Mito delle Dodèkathlos alle quali il Dio si sottopose al fine d'espiare un'orripilante peccato e ne analizzeremo la valenza mitica, religiosa e cultuale: appartenendo questo ciclo narrativo all'ambiente ellenico, ci riferiremo ad Ercole utilizzando il suo nome greco, Ἡρακλῆς – Heraklês. Un'ipotesi vuole che il ciclo delle Dodici Fatiche, episodi appartenenti alla mitologia riuniti successivamente in un unico racconto, sia stato composto per la prima volta attorno al VI secolo a.C. in un'opera perduta, l'Eracleia, composta da Πείσανδρος - Pisandro di Rodi (Camiro, prima metà del VI secolo a.C. – seconda metà del VI secolo a.C.): attualmente non presenti in una sola narrazione ma rintraccabili attraverso fonti differenti, non solo letterarie. Nelle metope presenti nel Tempio di Zeus a Olimpia, risalenti alla prima metà del IV secolo a.C., è presente una celebre raffigurazione scultorea delle Fatiche: fu forse proprio il loro numero di 12 a far si che il computo delle Imprese Eraclee venisse tradizionalmente così stimato, seppur non possono assolutamente essere escluse altre ragioni quali il numero dei mesi e la profonda valenza solare che le Dodekathlos ebbero.
Antefatto
A seguito di un periodo d'assenza dell'Eroe, Λύκος - Lico ne approfittò per uccidere l'anziano Re Κρέων / Kréōn – Creonte, reggente pro – tempore di suo figlio Λᾱοδάμᾱς - Laodamante e genero dell'Eroe, e usurpare il trono di Tebe; non pago di ciò, tormentò i mebri della casata reale privandoli di vestiti, cibo, cacciandoli dalle proprie dimore e usando violenza carnale su Μεγάρα - Megàra, figlia del Re e moglie di Ἡρακλῆς - Heraklês. Quando quest'ultimo venne a conoscenza dell'accaduto fu pervaso da una furia incontrollabile e uccise Lico ma Ἥρα – Hera, avvalendosi dell'aiuto di Λύσσα – Lyssa, Dea del Furore cieco e della Rabbia incontrollabile, provocò in lui un attacco di follia omicida che lo portò ad assassinare anche la moglie e gli otto figli avuti da lei. Tornato in sè, e resosi conto di quale orribile gesto si fosse macchiato, si ritirò a vivere in esilio volontario nelle desolate montagne: rintracciato finalmente dal cugino Θησεύς / Theseus – Teseo, Re della città di Ἀθῆναι – Athene, fu convinto a recarsi presso l'Oracolo di Ἀπόλλων - Apollo a Delfi ed ascoltare ciò che la Sacerdotessa del Dio, la Pitia, avrebbe detto lui. Il responso fu impietoso: al fine d'espiare la pena, Ἡρακλῆς - Heraklês si sarebbe dovuto recare a Tirinto e servire Εὐρυσϑεύς - Euristeo, Sovrano della città, per dodici lunghi anni, cimentandosi in una serie d'imprese decise da costui e considerate al limite delle umane possibilità. Ironia della sorte (o del castigo divino, che dir si voglia), Euristeo era proprio colui il quale aveva rubato all'Eroe i diritti alla sovranità grazie all'inganno di Ἥρα – Hera36e dunque l'uomo che Ἡρακλῆς - Heraklês odiava più di chiunque altro: se avesse portato a compimento le imprese, però, sarebbe assurto al rango divino guadagnando l'Immortalità e l'accesso all'Olimpo, sede degli Dei e Reame del suo Celeste Padre. Accompagnato dal nipote Ίόλαος – Iolaos (o da un ἐρώμενος – Eromenos di nome Licinio) e via via da altri compagni, fu costretto a compiere ulteriori due fatiche delle dieci previste in origine, in quanto Euristeo non riconobbe valida l'uccisione dell'Hydra di Lerna, poichè l'Eroe fu aiutato proprio da Iolao, tantomeno la pulizia delle stalle di Augia in quanto vi fu alla base dell'accordo la promessa di un compenso (per quanto poi non rispettato dal Sovrano dell'Elide). Di seguito l'elenco completo così come viene riportato dallo Pseudo – Apollodoro nell'opera Βιβλιοθήκη37 o Biblioteca di Apollodoro:
L'uccisione del Leone Nemeo
Il Leone di Nemea (Νεμέος λέων) era un leone dalle dimensioni spaventose, figlio del Gigante Τυφῶν – Tifone ed Έχιδνα – Echidna o di quest'ultima e del cane bicefalo Ortro, che terrorizzava le genti dell'omonima città, sita a nord – ovest di Argo, divorando uomini e armenti e la cui pelle risultava essere invulnerabile e impenetrabile, impossibile da perforare persino utilizzando ferro, bronzo o pietra; dopo aver individuato la grotta dove viveva Heracle iniziò a colpirla con le frecce del proprio arco, inutilmente. Allorchè sradicò un gigantesco albero d'ulivo deciso a utilizzarlo come clava ma anche questo tentativo fallì miseramente poichè l'unica possibilità di abbattere la feroce creatura era sfruttando la bruta forza umana e così fu: Heracle cinse la belva in una stretta fatale e la strozzò, portando il corpo esanime del Leone presso la città di Κλεωναί – Cleone e successivamente da Euristeo, il quale ne fu talmente scosso da decidere di rendere la seconda impresa ben più impegnativa della prima. L'Eroe riuscì a incidere la pelle tale della fiera, sembra usandone gli artigli per scuoiarla, ricavando per sè quella che sarebbe divenuta la sua invicibile corazza - mantello, la Leontè, mentre la tesa del leone divenne il suo elmo. Il Padre degli Dei, Zeus, trasmigrò la feroce creatura nel Cielo, attraverso una Catasteria, trasformandola nella Costellazione del Leone.
L'Uccisione dell'Idra di Lerna
L'Hydra di Lerna (Ύδρα) era un mostro serpentiforme, anch'essa figlia di Tifone ed Echidna proprio come il Leone Nemeo, la quale infestava la palude di Lerna situata nell'Argolide38, dotato di sette o nove teste, che riscescevano immediatamente non appena recise mentre una sola era dotata d'immortalità. Avida divoratrice di qualunque forma di vita avesse la sventura d'avventurarsi nel suo dominio, emanava mefitici miasmi dalla bocca che impestevano l'aria e rendevano sterile la terra. Heracle giunse presso la sua tana a bordo di un carro trainato dal nipote Iolao e inizò a tempestarla di frecce, al fine d'adescarla fuori dal suo covo: iniziata la lotta l'Eroe decapitò immediatamente molteplici delle teste ofidiche utilizzando una spada, ma esse rispuntavano radddoppiando il proprio numero poco dopo rendendo vano ogni attacco. Heracle decise dunque d'utilizzare il fuoco per cauterizzare i tronconi recisi, aiutato da Iolao, impedendo così la rigenerazione, mentre la testa immortale venne schiacciata sotto il peso d'un poderoso quanto immane macigno. Hera, adirata, inviò un gigantesco granchio per uccidere l'Eroe, il quale però sconfisse anche questo nemico frantumandone il carapace: la Regina degli Dei pose in Cielo i le due creature, che divennero tramite Catasteria le costellazioni dell'Hydra e del Cancro. A seguito della vittoria Heracle intinse la punta delle proprie frecce nella venefica linfa vitale dell'Hydra, rendendo i dardi in grado di causare ferite mortali dalle quali non era possibile guarire: a causa loro morirono il centauro Χείρων – Chirone39, Precettore d'Eroi e amico dello stesso Heracle, e Πάρις – Paride figlio del Sovrano d'Ilio, Πρίαμος – Priamo. Questa Fatica, a ogni modo, non venne ritenuta valida dall'infido Euristeo, a causa dell'aiuto ricevuto da Heracle dal nipote Iolao.
La Cattura della Cerva di Cerinea
Euristeo fu ancor più stupito dalla felice riuscita di questa impresa e decise dunque d'affidare a Heracle la cattura della Cerva che viveva nella zona della Cerinea40, splendida e leggendaria bestia sacra alla Dea Ἄρτεμις – Artemide, dotata di corna d'oro e zoccoli di bronzo (o d'argento): essa incantava fatalmente chiunque la scorgesse e lo costringeva a seguirla, senza mai arrestare la sua corsa, facendo si che i viandanti smarrissero la via e giungessero in un ignoto Paese dal quale non facevano più ritorno. L'Eroe la inseguì instancabilmente per un anno intero, limitandosi a ciò poichè non poteva assolutamente toglierle la vita in quanto animale sacro a una Dea, ma ogni suo tentativo di raggiungerlo venne frustrato dalla velocità e agilità della cerva: Heracle dunque la ferì lievemente con uno dei suoi dardi e riuscì così a catturarla, caricandosela in spalla. Sulla via del ritorno s'imbattè in Artemide, letteralmente furiosa per ciò che era stato fatto alla sua bestia sacra: Heracle rischiò moltissimo ma riuscì infine a rabbonire la Dea, ottenendo il permesso di portare l'animale da Euristeo come prova del superamento dell'impresa e, successivamente, alla splendida creatura fu resa nuovamente la libertà, permettendole di tornare a correre libera per gli amati boschi.
La Cattura del Cinghiale d'Erimanto
La quarta fatica affidata a Heracle fu la cattura del terribile ὁ Ἐρυμάνθιος κάπρος - Cinghiale d'Erimanto, feroce verro selvatico che imperversava tra le alture montane dell'Erimanto, odiernamente chiamato Olonos, tra l'Attica e l'Elide. L'Eroe si mise alle sue calcagna fino a quando riuscì a stanarlo dai profondi recessi boschivi, sfiancandolo con interminabili inseguimenti attraverso cumuli innevati e attirandolo sulla spoglia cima del monte, ove riuscì a legarlo saldamente con corde: la trascinò vivo e così immobilizzato da Euristeo il quale, terrorizzato alla vista della gigantesca bestia, si rinchiuse in una botte.
La Cacciata degli Uccelli del Lago di Stinfalo
La Quinta impresa fu la cacciata dei mostruosi uccelli che infestavano il paludoso lago di Stinfalo, nell'Arcadia, i quali erano in possesso di ali, penne, becco e artigli in crudele bronzo, erano in grado di scagliare il proprio piumaggio a mò di dardi ed erano ghiotti di carne umana: bestie sacre ad Ἄρης -Ares, il sanguinario Dio della Guerra e da lui stesso allevate, erano in numero così elevato che librandosi in volo potevano oscurare il il cielo e il limaccioso lago dove dimoravano emanava un fetido lezzo di putredine, a causa dei corpi in decomposizione di coloro i quali avevano tentato di eliminarli. Prima dello scontro, la Dea Ἀθηνᾶ – Athena, Dea della Sapienza, della Guerra e delle Arti nonchè sorellastra ma al contempo aspra nemica di Ares, consegnò a Heracle delle nacchere in bronzo, forgiate da Ἥφαιστος / Ephaistos – Efesto, consigliandogli di suonarle prima dello scontro: fatto ciò, gli uccelli si spaventarono e iniziarono a volare qua e lò confusamente, divenendo il perfetto bersaglio per i dardi avvelenati di Heracle. Molti caddero ma alcuni riuscirono a fuggire, migrando nell'isola di Aretias situata in propinquità della Κολχίς – Colchide.
La Pulizia delle stalle di Re Augia
Le titaniche stalle reali di Αὐγείας – Augia, Sovrano dell'Elide nel Peloponneso, non erano mai state pulite dal letame accumulatosi in trenta lunghi anni: Euristeo ordinò a Heracle di mondarle in un solo giorno. Recatosi dal Re, ricevette da questi la solenne promessa che, se fosse riuscito nella disperata impresa, gli avrebbe donato metà delle sue ingenti ricchezze. Heracle non si perse d'animo e deviando il corso dei fiumi Alfeo e Peneo, sfruttò i loro flutti riversandoli all'interno delle stalle, pulendole immediatamente. Tornato dal Sovrano, fu da questi accusato d'aver agito d'astuzia e quindi di non aver compiuto alcuna "fatica": non pago della sua slealtà, intentò un processo contro l'Eroe chiamando a testimoni i principi d'Elide suoi figli. Quest'ultimi testimoniarono ovviamente tutti in favore del proprio padre tranne uno, Φυλεύς – Fileo, che per aver osato difendere Heracle fu bandito dal regno assieme a lui: il figlio di Zeus, prima di prendere commiato da Augia, giurò che si sarebbe vendicato di lui e della sua stirpe.41 Tornato da Euristeo, testò con mano per la seconda volta la profonda iniquità d'animo del consanguineo usurpatore: poichè alla base dell'accordo tra Augia ed Heracle vi era stata la promessa di una ricompensa, quantunque il Re dell'Elide avesse poi disatteso l'accordo, la Fatica non poteva dunque esser considerata tale e venne così annullata.
Il Furto delle Cavalle di Diomede
Euristeo ordinò dunque a Heracle di portare a Μυκῆναι – Micene le leggendarie giumente di Diomede figlio di Ares e Sovrano dei Bistoni, popolo guerriero della Tracia: costui le aveva allevate con il massimo della cura, inizialmente nutrendole con la carne dei soldati periti in battaglia e successivamente con quella degli ospiti che periodicamente invitava presso la propria reggia: Euristeo nulla comunicò all'Eroe circa questa ripugnante usanza alimentare, confidando che ignorandola avrebbe potuto divenire cibo per le terribili cavalle antropofaghe. Coadiuvato nell'impresa da un gruppo di giovani sodali, tra i quali spiccava Ἄβδηρος – Abdero figlio di Ἑρμῆς – Hermês, Heracle ordinò loro di catturare le giumente mentre lui si sarebbe occupato di tenere a bada Diomede: Abdero tentò l'impresa per primo, finendo divorato dalle mostruose equine. L'Eroe sconfisse Diomede destinandolo al medesimo fato delle sue innumerevoli vittime, dandolo in pasto alle sanguinarie cavalle le quali, ammansite, lo seguirono docilmente: sulla via del ritorno egli fondò la città di Abdero, in Tracia, in memoria del defunto amico. Euristeo, una volta che le giumente furono al suo cospetto, ne fu talmente spaventato che ordinò di portarle via immediatamente dalla sua reggia.
La Cattura del Toro di Creta
L'ottava impresa che Euristeo impose a Heracle fu la cattura del terrificante Toro di Κρήτη – Creta, il quale stava letteralmente devastando i domini di Re Μίνως – Minosse, Sovrano dell'Isola. Narravano le cronache che l'irascibile Ποσειδῶν – Poseidon, Signore dei Mari, avesse inviato presso Creta un superbo toro bianco affinchè Minosse lo sacrificasse a lui: il Sovrano di Creta si rifiutò di farlo e il Dio degli Abissi lo rese dunque furioso e fuori controllo, con la bestia che prese a devastare l'isola; sembra inoltre che fu proprio di questo toro che s'invaghì (per volere della maledizione scagliata dal vendicativo Poseidon) la moglie di Minosse, Πασιφάη – Pasifae, la quale chiese a Δαίδαλος – Dedalo di costruirle una mucca di legno che la Regina usò per unirsi carnalmente alla bestia: da tale abominio nacque il Μινώταυρος – Minotauro, successivamente rinchiuso nel labirinto cosruito dallo stesso Dedalo per ordine di Minosse. Heracle riuscì a catturare la belva cornuta chiudendola tra le fitte maglie di una rete, portandola da Euristeo che ordinò di liberarla: il toro fu restituito alla libertà presso la piana di Μαραθών – Maratona42, dove in seguito verrà ucciso dal cugino di Heracle, Teseo.
La Cintura di Ippolita
La nona Fatica fu l'unica a scaturire non dall'iniqua malvagità di Euristeo ma dalla cupidigia della di lui figlia, Admeta, la quale chiese che le fosse recata la sfavillante cintura d'oro di Ἱππολύτη – Ippolita Regina delle temibili Amazzoni, le fortissime donne – guerriero la cui patria sembrerebbe da collocarsi nella Σκυθική – Scizia43, donatale dal suo Divino genitore Ares: fu così che Heracle dovette recarsi nella lontana patria delle feroci combattenti diretto verso la capitale del Regno, la città di Temiscira, accompagnato però da un folto gruppo di compagni tra i quali spiccava Teseo.Il viaggio fu aspro e ricolmo di avversità, infatti durante una sosta presso l'isola di Πάρος – Paros, uno degli avvventurieri perse la vita per ordine di alcuni dei figli di Re Minosse che ivi dimoravano: Heracle, indignato, si scontrò con loro ed ebbe la meglio, coadiuvato dai suoi compagni; successivamente fu ospite presso Re Lico di Μυσία – Misia44e ne difese il regno sconfiggendo i feroci Bembrici guidati dal loro comandante Migdone, il quale perse la vita nello scontro con l'Eroe. Giunti finalmente a Temiscira il gruppo fu calorosamente accolto da Ippolita, la quale dichiarò che sarebbe stata ben lieta di cedere il suo dorato cinto in modo pacifico e amichevole (e probabilmente avrebbe concesso anche qualcosa in più, essendosi invaghita dell'Alcide): purtroppo, però, Hera decise d'intervenire nuovamente suscitando nelle Amazzoni il dubbio che Heracle volesse rapire la loro Regina, così le sue fedeli guerriere s'armarono di tutto punto intenzionate a ucciderlo assieme ai suoi compagni. Ne seguì una feroce battaglia, nella quale tristemente perse la vita la stessa Ippolita (o, secondo un'altra versione, essa riuscì invece a fuggire assieme a Teseo divendo madre del già incontrato, nella disamina circa le origini del Ferragosto, Ἱππόλυτος / Ippolito – Virbio): il viaggio di ritorno, con la cintura ben salda nelle mani degli Eroi, fu altrettanto ricco di peripezie, pericoli, avventure e incontri; le Amazzoni furono inoltre costrette a cedere come ostaggi i loro comandanti, Melanippe e Antiope45. Presso il lido di Ἴλιον – Ilio essi sconfissero un terrificante mostro marino antropofago, in procinto di cibarsi della Principessa Ἡσιόνη – Esione figlia del Sovrano Λαομέδων – Laomedonte e Στρυμώ – Strimo: il Re, così come Augia in precedenza, non rispettò i patti disattendendo la promessa fatta a Heracle circa una cospicua ricompensa se fosse riuscito nell'impresa, scatenando la furia dell'Eroe che promise di tornare a porgerli visita, in modo affatto amichevole. Altro avversario fu Sarpedonte figlio di Poseidon e fratello del Re di Eno, Poltide, in Tracia: infastidì e provocò Heracle, ospite di suo fratello, e fu ucciso dall'Eroe sulla spiaggia della città tramite un venefico dardo; presso Torone, invece, fu ospite del Mutaforma Dio Marino Πρωτεύς – Proteo, e venne sfidato in una serie di competizioni atletiche dai figli di quest'ultimo, Poligono e Telegono. L'Eroe, come spesso accadde durante la sua controversa esistenza, non riuscì a controllare la propria forza e in una gara di lotta perse il controllo, finendo inconsapevolmente per uccidere i giovani: finalmente, di ritorno a Micene, Euristeo fu ben lieto di donare la cintura d'oro appartenuta a Ippolita a sua figlia Admeta46.
Il Furto dei Buoi di Gerione
La decima Fatica fu sicuramente una delle più difficoltose e impegnative, avendo Euristeo comandato che gli fossero recati i leggendari buoi scarlatti del Gigante Γηρυών – Gerione, figlio di Χρυσάωρ – Crisaore e dell'Oceanina Καλλιρρόη – Calliroe e fratello di Echidna, mostruosa creatura che dalla cinta in su appariva come dotato di tre tronchi, tre teste e tre paia di braccia: a guardia dei suoi superbi armenti, dei quali era terribilmente geloso, aveva posto il mostruoso cane da guardia Ορθρος – Ortros47, feroce ed enorme cane bicefalo con coda di serpente, e il sanguinario vaccaro Eurizione figlio di Ares. I possedimenti di Gerione erano stati posti nel lontanissimo ovest, ai confini delle terre allora note e non è possibili dunque localizzarli odiernamente con precisione, così l'Eroe separò con la forza i monti Abilia e Calipe svettanti in Europa e Libia piantandovi le cosiddette Colonne d'Heracle (odierno stretto di Gibiliterra) e, attraversadole, osò persino scagliare i propri dardi contro il rovente Ἥλιος – Helios48, il Sole, che ammirandone il coraggio gli concesse di utilizzare il suo battello aureo modellato in forma di coppa, così da poter solcare l'oceano e raggiungere il luogo della sua cerca. Giunto presso l'isola di Erythia, Heracle sconfisse tutti e tre i suoi avversari grazie ai suoi spaventosi colpi e, non pago di ciò, non esitò nell'aggreddire persino Hera, giunta in soccorso di Gerione conto il tanto detestato figliastro. Durante il viaggio di ritorno verso l'Ellade, Heracle fece sosta nelle terre italiche, ritenute come infestate di furfanti: in Liguria subì l'attacco dei briganti Alchione e Dercino, nel Lazio, come già ampiamente analizzato in precedenza, si scontrò con il terribile Caco; in Calabria fu ospite del suo fido amico Κρότων – Crotone, figlio di Αἰακός – Aiakos, il quale lo ospitò con gioia ma anche in questa occasione le mandrie furono sottratte da Lakinios che venne però venne subito rintracciato e ucciso nella colluttazione che seguì, nella quale perse la vita anche lo sfortunato e fedele Crotone. Heracle pianse amaramente la morte del caro amico e costruì per lui un sontuoso monumento funebre, implorando al contempo gli Dei che su tale tomba potesse sorgere una delle città più potenti e prospere dell'intera Magna Grecia: Ἀπόλλων - Apollo, mosso a pietà dell'accorata preghiera, parlò per bocca dell'Oracolo di Delfi e fece si che un contingente di Achei partisse alla volta delle terre italiche, fondando la città di Crotone. Una volta in Sicilia venne sfidato da Ἔρυξ – Erice, figlio di Ἀφροδίτη – Aphrodite, in una gara di pugilato e, more solito, lo sfortunato sfidante finì con il perdere la vita, con il suo luogo di sepoltura che divenne il sito dell'omonima cittadina; successivamente Hera, la quale non si dava assolutamente per vinta, inviò un tafano affinchè molestasse i Buoi del Sole, i quali fuggirono e si dispersero, con Heracle che li inseguì forsennatamente sino alle piane della Scizia: nonostante queste incredibili peripezie, l'Eroe riuscì a condurre la mandria sana e salva in Grecia dove Euristeo aveva intenzione di usare le bestie per un sacrificio mai visto in precedenza ma gli fu impedito da Hera, la quale non voleva assolutamente che così facendo venisse riconosciuta la gloria di Heracle. L'Eroe, dunque, tenne i fulvi animali per sè.
Il Furto dei Pomi delle Esperidi
L'undicesima Fatica fu forse una delle più complesse e travagliate, in quanto a Heracle fu ordinato di prendere tre pomi d'oro dal leggendario Giardino delle Esperidi dono da Γῆ – Gea, la Grande Dea Madre Terra, a Zeus ed Hera come regalo di nozze: tale luogo incantato era così chiamato dalle quattro ninfe che vi risiedevano, figlie dell'ancestrale Nύξ – Nyx49, assieme al drago Λάδων – Ladone, dotato di 100 teste e figlio di Φόρκος – Phorcos e Κητώ – Ceto o di Tifone ed Echidna: nessuno, però, aveva la benchè minima idea di dove si trovasse questo luogo beato. Dapprima lo cercò ovunque in Ellade, tra le zone più remote e sperdute, scontrandosi con il terribile Cicno figlio di Ares e Pyrene – Pirene, un sanguinario brigante che infestava le zone in prossimità dell'Oracolo di Delfi, saltando fuori da una foresta in Θεσσαλία – Tessaglia sacra al Dio Apollo, uccidendo i pellegrini ivi diretti e utilizzandone le ossa per edificare un macabro tempio in onore del suo crudele padre: Heracle lo affrontò e lo uccise, sconfiggendo successivamente anche Ares giunto in soccorso del suo spietato figlio. Giunto presso il sacro fiume Ἠριδανός – Eridano50, le splendide ninfe che lo abitavano esortarono l'Eroe a cercar consiglio presso il Dio Marino Νηρεύς – Nereo, il Vecchio del Mare, dotato del potere dell'Onniscienza: Heracle così fece, sorprendendo Nereo mentre mentre dormiva e stringendola saldamente tra le proprie braccia in una morsa d'acciaio. A nulla valsero i poteri metaforfici dell'anziana Divinità dei Flutti, la quale tentò più volte di divincolarsi mutando il proprio corpo, la quale fu costretta infine ad arrendersi e rivelare all'Eroe l'esatta localizzazione dell'isola dove sorgeva l'inaccessibile Giardino delle Esperidi. Durante l'estenuante viaggio ebbe modo d'incontrare anche il Titano Προμηθεύς – Prometeo51, incatenato su di una rupe del Caucaso da tempi immemori e sottoposte alle angherie quotidiane di un'aquila, inviata da Zeus, che ne divorava il fegato ogni giorno: a tale supplizio era stato condannato poichè colpevole d'aver rivelato al genere umano i segreti del fuoco, la cui conoscenza era esclusivo appannaggio degli Dei. Heracle si disfece facilmente del rapace utilizzando le proprie frecce e liberò Prometeo, il quale ricolmo di gratitudine gli rivelò che avrebbe dovuto mettersi sulle tracce del suo fratello Titano Ἄτλας – Atlante, padre delle Esperidi e colui che sorreggeva la volta celeste sulle proprie spalle come punizione inflittagli da Zeus a causa dell'aver scelto di allearsi durante la Τιτανομαχία – Titanomachia con il genitore di quest'ultimo, il Divino Κρόνος – Kronos, e convincerlo a fargli cogliere i dorati Pomi delle Esperidi. Messosi sulle tracce di Atlante giunse in Africa, precisamente in Egitto, ove dovette fare i conti con la spiccata xenofobia di Re Busiride, figlio di Poseidon e Lisianassa, il quale anni prima aveva sperimentato nelle proprie terre una terribile carestia scongiurabile, a detto di un indovino dell'isola di Cipro, solo attraverso numerosi sacrifici umani di genti provenienti da terre straniere: la prima vittima di questa violenta istituzione fu proprio lo sfortunato indovino e dal quel giorno, ogni anno, l'immolazione era divenuta costumanza; Heracle venne catturato per divenire la vittima prescelta ma, frantumate facilmente le catene che lo avvincevano, immolò sull'altare sacrificale lo stesso Sovrano Busiride, per poi allontanarsi dal nefasto luogo sotto gli occhi sconvolti delle popolazione egiziana. In Etiopia uccise il tiranno Emazione affidando il trono al giovane fratello di costui, il nobile Μέμνων – Memnone, figlio della Dea dell'Aurora Ἠώς – Eos e del principe troiano Τιθωνός – Titone, già Regnante in Persia, mentre il Libia fu costretto a fronteggiare il fortissimo Ἀνταῖος – Anteo52, Gigante figlio di Gea e Poseidon, il quale era solito sfidare ogni viandante in una lotta all'ultimo sangue: la discendenza materna gli donava il potere di riacquisire completamente le forze fino a quando fosse rimasto in contatto con il suolo e così Heracle, mettendo in campo la sua proverbiale arguzia, lo tenne sollevato a mezzaria cingendolo in un abbraccio fatale, uccidendolo per soffocamento. Trovato finalmente Atlante, come coronamento dell'interminabile cerca, gli propose uno scambio al fine di convincerlo ad aiutarlo nell'oggetto della sua impresa: se il Titano avesse raccolto per lui alcuni Pomi Dorati, l'Eroe lo avrebbe temporaneamente sostituito nel sorreggere il gravoso fardello della Volta Celeste e Atlante acconsentì, tornando poco dopo con tre Frutti Divini; a quel punto, però, il Titano trasgredì il patto, affatto desideroso di tornare alla sua statica ed estenuante prigionia e intenzionato a lasciare perennemente a Heracle la responsabilità del compito. L'Eroe, però, ricorse nuovamente all'astuzia per ovviare all'ardua situazione in cui era venuto a trovarsi: fingendosi onorato della proposta chiese ad Atlante di riprendere l'arduo incarico per breve tempo, solo il necessario affinchè potesse intrecciare una stuoia di corde utili all'alleggerire l'immane carico che gravava sulla schiena e non appena il Titano cadde nel tranello Heracle fuggì via immediatamente con il prezioso tesoro, avendo ingannato Atlante con i medesimi, furbi, sotterfugi; successivamente i Pomi furono restituiti al Giardino per mano della Dea Athena, poichè a nessun mortale era permesso poterne disporre a piacimento, essendo i dorati frutti latori di conoscenze ben oltre lo scibile umano.
La Cattura di Cerbero
Euristeo, oramai vinto dallo sconforto in quanto nulla sembrava arrestare Heracle nel compimento delle (apparentemente) impossibili imprese, scelse come ultima Fatica una missione ritenuta assolutamente proibitiva per qualunque mortale, persino per qualcuno come l'Alcide: gli ordinò di catturare e portare al suo cospetto l'Infero Mastino dell'Ade, il terrificante segugio tricefalo Κέρβερος – Cerbero. L'Eroe iniziò così il suo pellegrinaggio iniziatico presso Ἐλευσίς – Eleusi, dove fu iniziato ai Ἐλευσίνια Μυστήρια – Misteri Eleusini53 e si mondò della colpa d'aver sterminato i Centauri durante il tragitto che lo avrebbe portato a compiere la cattura del Cinghiale d'Erimanto; raggiunse successivamente Tenaro nella Λακωνία - Laconia, nei pressi della città di Σπάρτα – Sparta dove era collocata una delle entrate per il Mondo dei Morti, un'agghiacciante cavità ipogea nella quale si addentrò sotto la saggia guida del fratellastro Hermes. Tra tutti gli spiriti che incontrò sul suo cammino solo la terrificante Γοργών Μέδουσα – Gorgone Medusa osò affrontarlo, percependo in lui il sangue della casata reale di Περσεύς - Perseo, l'Eroe che tempo prima l'aveva condannata a un sì terribile destino, ma quando l'Eroe fu in procinto di colpirla Hermes ne fermò la mano, rammentandogli che in Ade le ombre dei viventi erano prive d'essenza e dunque inoffensive; incontrò anche l'eroico Argonauta Μελέαγρος – Meleagro, uno dei partecipanti alla caccia del Cinghiale Calidonio, il quale pregò Heracle di prendersi cura di sua sorella Δηϊάνειρα – Deianira una volta che sarebbe tornato nel mondo dei vivi. Una volta giunta presso le funeste porte di Ade vi trovò incatenati due uomini, dei quali riconobbe immediatamente l'identità: erano suo cugino Teseo e Πειρίθοος - Piritoo, Sovrano dei Lapiti presso la città Λάρισα – Larissa in Tessaglia: i malcapitati si erano addentrati nelle fosche distese con lo scopo di rapire la Regina dell'Oltretomba, Περσεφόνη - Persefone figlia di Δημήτηρ – Demetra e moglie di ᾍδης – Ade ma, scoperti da quest'ultimo, erano stati condannati a questo eterno supplizio; Heracle riuscì a trarre in salvo Teseo ma quando tentò il medesimo gesto per Piritoo, uno spaventoso terremoto costrinse i due Eroi alla fuga. Il Sovrano dell'Aldilà era ben conscio del potere di suo nipote e parimenti della sua arditezza, per cui si convinse ad ascoltare le ragioni che lo avevano spinto a una così disperata missione e, udito ciò che Heracle disse lui, acconsentì a dargli Cerbero a patto però che l'Eroe ne sottomesse la ferocia con il solo aiuto della sua forza: a seguito di una spaventosa lotta il mostruoso segugio infernale si arrese quando il figlio di Zeus cinse la base dei suoi tre colli tra la possanza delle sue braccia. Heracle riemerse dunque dall'Ade, recando sulle proprie spalle il terrificante guardiano: Euristeo si sentì morire dalla paura quando vide una tale apparizione, restandone così scosso che si convinse a liberare il suo eroico cugino dall'onere delle Fatiche dichiarandole concluse con questa impresa.
Significato delle XII Fatiche
La valenza intrinseca delle XII Fatiche di Heracle appare piuttosto chiaramente come strettamente legata a un'evoluzione metafisica della figura umana, carica di significati filosofici, allegorici e morali: una costante sfida nei confronti delle personificazioni ipostatiche della morte, della notte, dei mostri ancestrali che minacciavano il genere umano e la sua esistenza nel Reame dei Mortali: la sua natura rappresenterebbe una sorta di materializzazione della mistica interiore dell'umanità nella sua interezza, soggetta a rovinose cadute, orribili misfatti e gloriose imprese. Le ultime tre fatiche, in special modo, possono essere viste come una metafora della morte e dei viaggi verso il "Lontanissimo Ovest" e l'Oltretomba: Gerione i suoi buoi solari erano localizzati in une terra sconosciuta posta oltre i confini del Mondo, nelle dimore del Dio Sole Ἥλιος - Helios, il Giardino delle Esperidi carico di Frutti Divini giaceva su di un isola sconosciuta e sperduta tra i flutti oceanici, mentre per la cattura di Cerbero si rese necessaria un'autentica κατάβασις – catabasi, una discesa nelle tetre e gelide distese di Ade. In ognuna di queste tre Fatiche si può agilmente leggere un significato metafisco molto profondo, legato ai precetti di morte e rinascita e denso di simbolismi cari alle forme religiose che sin dalla preistoria hanno caretterizzato le nostre terre d'Europa; Heracle è l'Eroe Mortale che muore umano e rinasce Dio, che vive un'esistenza controversa e a tratti dipinta con i più foschi tra i colori, costellata di tragedie e imprese epiche ma che, grazie al suo coraggio, astuzia, caparbietà e forza, guadagna il suo riscatto e ottiene la ricompensa più agognata, Immortalità e Gloria Eterna: non a caso, la sua figura decora e impreziosice un gran numero di sarcofagi romani, essendo beneaugurante per una gloriosa rinascita nell'Aldilà poiché l'Eroe è l'unico mortale ad esser assurto al rango di Dio; da contraltare, Heracle è l'unico eroe della mitologia greca a non possedere alcun luogo di sepoltura, poiché il suo corpo venne arso su di una pira funebre e successivamente rinacque nell'Olimpo. Al tempo stesso nelle sue imprese può esser percipito l'eco di un lontanissimo passato, testimone di un passaggio da un sistema religiosa matriarcale a patriarcale: Heracle fu inizialmente figlio carnale di Hera, e il suo nome "Ἥρα - κλέος" ovverosia "Gloria di Hera" ne è palese testimonianza dato che le imprese da lui compiute non recano alcuna gloria alla Regina degli Dei quanto l'opposto, prima che l'arrivo del Dio del Cielo Luminoso, Zeus il Tonante, ne usurpasse la paternità assieme al dominio della sfera religiosa europea. Le lotte di Heracle contro le creature che oggi percepiamo come terrificanti o mostruose possono essere in realtà interpretate come la mitizzazione dell'avvicendarsi sociale ed etnico di genti di ceppo Acheo, dai primi insediamenti presso la piana di Argo ai successivi contatti con le altre civiltà mediteranee, che soppiantarono integrandole nel proprio tessuto collettivo popolazioni Eteoeuropee autoctone dell'Antica Europa,veneranti Grandi Dee Madri. In quest'ottica, tra alcuni tra gli esseri mitologici affrontati dall'Eroe durante le XII Fatiche possono essere individuati simbolismi sacri propri di un ancestrale matriarcato dominato da potenti Divinità Femminili: l'Hydra di Lerna, serpente lacustre dalle molteplici teste, racchiude in sè la natura ofidica e la dimensione acquatica da sempre inscindibilmente connessi con il culto della Grande Dea, al pari dei Pitoni inviati contro Heracle infante con lo scopo di soffocarlo, il Gigante Anteo altro non fu che un protettore della Terra, così come sacra fu la Cerva Cerinea di Artemide che guidava i suoi inseguitori verso luoghi remoti dai quali non era possibile fare ritorno e dunque, metaforicamente, verso la morte (questa valenza del cervo quale animale ctonio legato all'Aldilà può essere ancora rintracciata nella mitologia celtica, di cui alcuni esempi sono analizzabili nei Mabinogion), laddove nel Toro Cretese è altresì facilmente riconoscibile il simbolismo appartenuto all'evoluta e raffinata civiltà Minoica, ultima "sacca" di resistenza matriarcale Eteoeuropea in un'epoca in cui, oramai, il patriarcato Indoeuropeo era già dilagato a macchia d'olio su tutto il Vecchio Continente, così come il Cinto d'Oro di Ippolita, la strage delle Amazzoni, la schiavitù di alcune tra esse e la loro definitiva capitolazione esemplificano lampantemente la violenta sottomissione dell'antico sistema sociale e il suo declassamento ad un ruolo legato prevalentemente alla riproduzione della specie, in condizioni di assoggettamento al nuovo ordine patriarcale.
Fonti Bibliografiche:
- Annales di ArcheoTibur Volume 0, Quickebook edizioni, Tivoli 2018 – 2019;
- Annales di ArcheoTibur Volume I, Quickebook edizioni, Tivoli 2020;
- Publio Ovidio Nasone, Fasti;
- Aulo Gellio, Noctes Atticae;
- Plutarco, Βίοι Παράλληλοι – Vite Parallele;
- Tito Livio, Ab Urbe Condita;
-George Dumézil
"La Religione Romana Arcaica", BUR Biblioteca Universale Rizzoli
"Feste Romane", edizioni Il Melangolo, Genova, 1989:
- Publio Cornelio Tacito, Annales;
- Publio Virgilio Marone, Eneide;
- Sesto Aurelio Properzio, Elegie;
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia:
- Marco Tullio Cicerone, De Legibus;
- Servio Mario Onorato, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros
- Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia;
- Inni Orfici", edizione Lorenzo Valla e traduzione a cura di Gabriella Ricciardelli;
- Marco Terenzio Varrone, Antiquitates;
- Filippo Coarelli,
“Guida Archeologica di Roma”, Laterza edizioni;
“I Santuari del Lazio in Età Repubblicana”, Studi NIS Archeologia edizioni;
- Robert Graves, I Miti Greci;
- Cairoli Fulvio Giuliani, Il Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, Tiburis Artistica edizioni;
- Franco Sciarretta, Guida a Tivoli, Tiburis Artistica Edizioni;
- Pietro Tacchi Venturi, Storia delle Religioni, UTET, 1954;
- Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Universale Scientifica Boringhieri, 1976;
- Henri - Charles Puech “Storia delle Religioni – Il Mondo Classsico”, Universale Laterza, 1978;
- Luigi Piccardi, Lucia Alberti e Claudia Paterna, Eracle e le sue fatiche: L’età del Bronzo greca raccontata da uno dei suoi protagonisti, Roma (Italia), CNR Edizioni, 2017;
- Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton & Compton, 1996;
- Paolo Taviani, Furor Bellicus, Milano, FrancoAngeli, 2012;
- Mario Attilio Levi, Ercole e Roma, L'Erma di Bretschneider, 1997;
- Corpus Iscriptionum Latinarum;
- Rodolfo Lanciani, Rovine e scavi di Roma antica (titolo originale: The Ruins and Excavations of Ancient Rome: a Companion Book for Students and Travelers, London, Macmillan, 1897), Roma, Quasar, 1985;
- Luigi Canina, Indicazione topografica di Roma Antica: distribuita nelle XIV Regioni, Roma, Italia, 1831;
- Pseudo – Apollodoro, Βιβλιοθήκη o Biblioteca di Apollodoro;
- Paolo Caracciolo, La Chiave dei Miti;
- Walter Burkert,
“Greek Religion”, Harvard University Press, 1985;
“Ancient Mystery Cults”, Harvard University Press, 1987;
- Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo;
- Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica - Etruria-Roma, Utet, Torino 1976;
- Jerome Carcopino, "Aspects mystique de la Roma paienne", 1941;
Note:
1 Al termine del capitolo ne riportaremo l'elenco completo, l'ordine in cui si svolsero e il loro significato intrinseco.
2"[...] Per ima montis Palatini", Publio Cornelio Tacito, Annales, XII, XXIV
3Come analizzato nel precedente saggio, "Gli Argei"
4Caco, figlio di Vulcano, è un mostruoso essere proprio della mitologia romana: fu probabilmente in origine un Dio indigeno del fuoco e per tale ragione viene descritto come in grado di eruttare fiamme dalle fauci; successivamente il suo aspetto subì una teriomorfia scimmiesca, dato che venne rappresentato come tricefalo e coperto di una fitta peluria disposta lungo tutto il gargantuesco corpo, come tramandatoci da Sesto Aurelio Properzio (Urvinum Hortense, 47 a.C. - Roma, post 15 a.C) nella sue Elegie. Caco è il protagonista della decima tra le Dodekathlos, seppur circa la sua natura dovette sussistere una certa qual confusione: Virgilio nell'Eneide (VIII, 193 – 306) lo descrisse come un essere mostruoso in grado di vomitare fiamme, mentre Tito Livio (Ab Urbe Condita, I) e Quinto Orazio Flacco (Satire) lo credettero un pastore. Il mito narra che il gigante vivesse in una grotta situata sul colle Aventino, seminando terrore negli abitanti della zona con i suoi comportamenti violenti e tirannici: tra essi vi fu il furto, durante il ritorno in Grecia del Semidio, della parte migliore dei buoi che Ercole aveva sottratto a sua volta al mostruoso Gerione. Il gigante, orribile ma affatto sciocco, aveva previsto che il figlio di Giove si sarebbe messo alla loro ricerca e, previdentemente, li aveva trascinati nel suo antro tirandoli per la coda tale che le impronte lasciate al suolo indicassero la direzione opposta a quello reale: una delle bestie, però, rispose al richiamo di Ercole che scoprì così il rifugio di Caco, il quale ne aveva però sbarrato l'accesso ponendo dinnanzi all'ingresso un enorme macigno. Il Semidio riuscì ad aprirsi un varco utilizzando una roccia acuminata, allorchè Caco tentò disperatamente di difendersi vomitando fiamme e caliggine sull'eroe, il quale senza batter ciglio afferò il mostro stritolandolo in una morsa fatale, con talmente tanta vigorìa da fargli schizzar via gli occhi dalle orbite.
5Carcopino, "Aspects mystique de la Roma paienne", 1941;
6Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, CLVII)
7 Appius Claudius Caecus, 350 a.C. – 271 a.C., politico, letterato e appartenete alla nobile Gens Claudia. Personaggio rivoluzionario e altamente anticonformista per l'epoca, dedito allo studio della letteratura e della filosofia, nonché amante della cultura e religione greca, convinto fautore della teoria che una fusione socio – culturale tra Roma e il retaggio ellenico avrebbe arricchito e migliorato notevolmente l'Urbe e a cagion di ciò, ritenuto portatore di idee indegne di un civis romanus. Autore di una raccolta di apoftegmi dal carattere moraleggiante, le Sententiae, e di un altra trattato, De Usurpationibus, la cui attribuzione suscita però più di qualche incertezza; dimostrò altresì spiccate doti di organizzazione e progettazione dato che il primo acquedotto in assoluto a rifornire Roma, l'Aqua Appia datato al 312 a.C., lo si deve a lui.
8Al cambio attuale, circa 75mila €.
9Come riportato da Tito Livio (Ab Urbe Condita, IX, XXIX, VI) e Dionigi d'Alicarnasso (Antichità Romane, I, XL, V)
10Marco Tullio Cicerone, De Legibus, II, XLVII
11La decima spettava al Dio e, dunque, non rappresentava una forma di arricchimento.
12Torneremo nel dettaglio sull'Ara Maxima al termine di questo capitolo.
13I visceri delle vittime sacrificali dai quali si divinava traendone presagi per l'avvenire.
14Festività romane celebrate in onore di Giove e Venere, suddivisa in Vinalia urbana o Priora cadente il 23 di aprile e consacrante il raccolto dell'uva appartenente all'anno passato: in questa occasione si beveva il nuovo vino e libagioni erano offerte a Giove. I Vinalia Rustica o Altera, invece, erano celebrati il 19 di agosto dagli abitanti del Lazio e Varrone (De Antiquitates) ci raconta che sulle porte d'accesso alla città di Tusculum era riportato il divieto di recare nelle mura il vino della nuova vendemmia fino a quando non fossero iniziati i Vinalia: in tale occasione il Flamen Dialis sacrificava un agnello al Padre degli Dei al fine di propiziare l'abbondanza della vendemmia; la figura di Venere subentrò a Giove in ambedue i casi, affiancandolo, nel momento in cui la religione romana assorbì nel proprio tessuto cultuale questa Dea rendendola de facto romana per adozione e cancellandone lo status di Divinità straniera.
15"Herculi autem omnia esculenta, poculenta", Festo p. 358 L
16Per un ulteriore approfondimento si consiglia la lettura de "I Tibicini a Tibur", Giovanni Di Braccio, Annales di ArcheoTibur Volume I, pagg 181 - 187 , Quickebook Edizioni, Tivoli 2020.
17"L'Acropoli Tiburtina – Parallelismi con il Foro Boario", Christian Doddi, Annales di ArcheoTibur Volume 0, pagg. 109 – 113, Tivoli, Quickebook edizioni 2019;
18 L'Ercole del Foro Boario, noto anche come l'Ercole delle Esperidi o Ercole Capitolino, è una scultura di bronzo dorata scoperta nel Foro Boario al tempo di Papa Sisto IV (1471–84 ) al momento della demolizione, ordinata dal Pontefice, del tempio a lui dedicato: la scultura risulta inventariata già nel 1510 presso il Palazzo dei Conservatori al Campidoglio, presso cui risiede tutt'oggi. La statua si presenta avente la clava nella mano destra e i Pomi delle Esperidi nella sinistra, le quali lo identificano chiaramente come l'Ercole dell'Occaso, ove vinse il Gigante Tricefalo Gerione durante la decima delle Dodèkathlos. La scultura risulta leggermente più grande della proporzione reale, con testa probabilmente spuria a cagione della sua disproporzione se raffrontata al corpo alto circa 241 cm e, a riprova di ciò, la doratura è mancante proprio nella zona del collo mentre si presenta come ben conservata altrove, il che risulta anomalo dato che le zone rientranti dovrebbero a rigor di logica esser più protette e meglio poter conservare applicazioni quale la doratura. La statua è modulata sul canone stilistico delle proporzioni fissato da Λύσιππος - Lisippo (Sicione, 390 / 385 a.C. – post 306 a.C) avente una figura più longilinea rispetto all'ideale di Φειδίας – Fidia (Athene, 490 a.C. – Athene, 430 a.C.). L'Ercole del Foro Boario presenta il tipico chiasmo di Fidia, nel quale tutto il peso della scultura ricade su di un solo piede: rispetto all'iconografia del mastodontico e barbuto Ercole Farnese, questa figura di Ercole risulta forse meno familiare e più desueta. Trattasi di uno dei due bronzi dorati sopravvissuti dell'antichità classica, sembrerebbe con doratura originaria, assieme all'Ercole del Teatro di Pompeo custodito ai Musei Vaticani.
19 Nativo di Eleutere, in Beozia; scultore del V secolo, specializzato nell'arte bronzea e attivo tra il 480 e il 440 a.C., considerato uno dei massimi esponenti dello stile severo e allievo di Ἀγελάδας - Ageladas di Argo.
20Regione montuosa dell'Ellade situata sulla costa settentrionale del golfo di Corinto
21 Gnaeus Pompeius Maius, Firmum Picenum, 29 settembre 106 a.C. – Pelusio, 28 settembre 48 a.C. Politico e militare romano, inizialmente alleato e successivamente maggiore avversario di Gaio Giulio Cesare.
22Era opinione del grande architetto e scrittore Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. - 15 a.C.) che le colonne ivi presenti fossero troppo distanziate, creando un poco elegante effetto d'allargamento prospettico.
23 L'arto destro, posto più indietro rispetto all'asse del corpo, dovette impugnare la clava puntante a terra, mentre il braccio sinistro, probabilmente proteso in avanti, sorreggeva forse una coppa colma di vino. Ai piedi della statua sono presenti un elmo e una corazza a corsetto simboleggianti la natura marziale e bellicosa del culto di Ercole nella città di Tibur, ben esplicata dal suo più famoso epiteto, ovverosia Hercules Victor. L'aspetto fanciullesco e giovanile, la probabile coppa di vino nella mano sinistra e la clava puntante verso il basso nella destra potrebbero collegarsi, tramite parallelismo iconografico, al simbolismo dell'Ercole Tunicato presente nella Mensa Ponderaria di Tivoli.
24Moneta romana bronzea di basso valore, corrispondente a circa 1/4 di asse (corrispondente pressapoco a poco più di 0,37 € / cent. odierni, essendo 1 asse = 1,5€) caratterizzata da tre globuli, rappresentati da tre once, quale indicazione di valore.
25Come precedentemente discusso, in questo libro, nella prima sezione dedicata alle origini delle Festività, nel capitolo dedicato al Ferragosto.
26Annales di ArcheoTibur volume 0, Culti e Dei nell'Antica Tibur Pars Secunda, pagg 13 - 18, Tivoli, Quickebook edizioni 2019
27 Tale iconografia affonda le radici in un oscuro mito riguardante il divino figlio di Alcmena e Zeus: egli venne sedotto e imprigionato da Onfale, regina di Lidia e figlia del sacro fiume Iardano. Ella lo sedusse, gli sottrasse la Leontè, la pelle del leone nemeo, indossandola, e lo costrinse a tre anni di prigionia nei quali Ercole si vestì da donna, filò la lana e le diede numerosi figli: Ati, Illo, Agelao, Lamo e Tirseno, quest'ultimo considerato il capostipite mitico dei Tyrsenoi, gli Etruschi. Un simbolismo riferibile dunque ad uno scambio di sessualità nella coppia, un eco ancestrale di un'antichissima ιερογαμία - Ierogamia, lo sposalizio sacro, nel quale Ercole, l'eroe - Dio, si sottometteva alla maestà della Dea Madre, di cui Onfale sarebbe un'ipostasi, una manifestazione. Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare Annales di ArcheoTibur volume 0, Culti e Dei nell'Antica Tibur Pars Sexta, pagg. 51 - 59 , Tivoli, Quickebook edizioni 2019
28Come abbiamo avuto modo di affrontare nel saggio dedicato all'Armilustrium, in questo stesso libro.
29 Πῖσα, antica città greca dell'Elide, nel Peloponneso, bagnata dal fiume Alfeo e sorgente dunque in propinquità della città di Olimpia.
30L'iscrizione recita:
Herculi Saxsano et
Imp(eratori) Vispasiano
Aug(usto) et Tito Imp(eratori) et
Domitiano Caesari
M(arcus) Vibius Martialis
|(centurio) lig(ionis) X Gem(inae) et commili-
tones vexilli leg(ionis) eiusd(em)
qui sunt sub cura eius
v(otum) s(olverunt) l(ibentes) m(erito)
31"Ianuas Circi Maximi"
32Nell'anno 64 d.C.
33Architetto greco antico, attivo a Roma nel II secolo a.C. e autore del primo edificio marmoreo dell'Urbe, il Tempio di Giove Statore commissionatogli da Quinto Cecilio Metello Macedonico a seguito del trionfo celebrato nel 146 a.C., come conseguenza dell'aver sconfitto il macedone Andrisco, Critolao e gli Arcadi a Cheronea. Ermodoro apparteneva alla corrente dei Neoattici che recarono a Roma e in Italia uno stile architettonico dal gusto ellenistico fondato su modelli d'ispirazione più antica, risalenti al IV secolo.
34 Militare e politico romano, figlio di Lucio Emilio Paolo Macedonico e successivamente adottato da Publio Cornelio Scipione. Fu console nel 147 e condusse vittoriosamente la III Guerra Punica contro l'odiata Qart-ḥadašt – Cartagine e rase al suolo la città Iberica di Numatia. Come trasmessoci dall'opera De re Publica di Cicerone, l'Emiliano era la figura politica preferita del grande oratore arpinate.
35Indicazione topografica di Roma Antica: distribuita nelle XIV Regioni, di Luigi Canina, Roma, Italia, 1831.
36Zeus stabilì che i troni della città - stato di Micene e Tirinto sarebbero stati uniti sotto il comando del primo nato dalla stirpe di Perseo, cercando in questo modo di favorire l'ascesa al duplice trono di suo figlio Eracle: saputo ciò, Era intervenne anticipando la nascita di Euristeo di due mesi, figlio di Stenelo e Nicippe e cugino di Alcmena, ritardando al contempo quella di Eracle di tre; in questo modo, dunque, fu proprio Euristeo a salire al trono.
37 Antico manuale di mitografia suddiviso in tre (o quattro) tomi, di cui parte del terzo e tutto l'ultimo sono andati perduti, contenente una vasta raccolta di miti e leggende appartenenti alla mitologia greca e all'epica eroica. Fu erroneamente attribuita per lungo tempo ad Apollodoro di Atene, allievo di Aristarco di Samotracia (Ἀπολλόδωρος, Atene, 180 – 120/110 a.C.), mentre attualmente l'autore viene indicato come lo Pseudo – Apollodoro, forse Apollodoro Grammatico del II secolo d.C.
38Regione dell'antica Grecia, confinante con Filasia e Corintia a nord, la Laconia a sud e l'Arcadia a ovest: fu abitata dagli Ioni, scacciati in seguito dai Pelasgi i quali a loro volta furono soppiantati dai Pelopidi, la stirpe a cui appartenne la stirpe di Ἀγαμέμνων - Agamennone Re di Micene. Nel X secolo fu invasa dai Dori, i quali si mescolarono con il complesso sostrato sociale presente il loco da millenni.
39 Durante il tragitto che porò Heracle a Erimanto incontò Folo, Centauro suo amico, che decise d'imbastire per lui un sontuoso banchetto, memore del leggendario appetito dell'Eroe: il lauto pasto non poteva però essere irrorato dal vino, poichè l'unico disponibile era stato donato alla comunità dei Centauri da Διώνυσος – Dioniso e non poteva assolutamente esser bevuto senza un'approvazione comune. Heracle convinse Folo a venir meno al patto ma, una volta aperto l'otre, un'intensissima fragranza riempì immediatamente l'aria e subitaneamente, dalla fitta boscaglia, emerse un rabbioso gruppo di Centauri, furiosi per la trasgressione perpetrata ai loro danni, armati di sassi e rami d'abete. L'Eroe fu aggredito dalle feroci creature ibride e, per difendere la sua vita, iniziò a scagliare i venefici dardi contro di loro: questi, impauriti, fuggirono nella grotta abitata da Chirone, il quale fu fatalmente ferito da una freccia vagante, morendo di una lenta e inserobile agonia. Anche il buon Folo, il gentile Centauro, morì in difesa dell'amico nelle colluttazioni scatenatesi a causa del vino dionisiaco.
(Per ulteriori approfondimenti circa la valenza del vino nella mitologia e nell'antichità, si consiglia la lettura de "Il Vino, la Bevanda degli Dei", in Annales di ArcheoTibur Volume 0, pagg. 165 – 184, Quickebook Edizioni, Tivoli 2019)
40La cittadine d'Erinea sorgeva a nord – ovest della regione del Peloponneso.
41Successivamente Heracle mantenne fede alla promessa: mise a sacco l'Elide, uccise Augia e pose sul trono Fileo, ricompensandolo per la lealtà dimostratagli quel giorno.
42Il nome del luogo rimanda etimologicamente al nome del finocchio in greco antico, ovverosia μάραθον: il nome della città significherebbe letteralmente "Luogo ricolmo di finocchi".
43Le dimensioni dell'area mutarono molteplici volte nel corso della storia, ma possiamo tracciarne i confini tra le steppe del Ponto, il Caucaso settentrionale, Sarmazia, Ucraina, Polonia, Bielorussia sino al Mar Baltico (o Oceano Sarmatico) e il sud dell'Ucraina includendo il basso corso del Danubio e la Bulgaria.
44Ubicata in Asia Minore, nell'odierna Turchia nord - occidentale.
45Antiope fu costretta a seguire Teseo in Athene quale schiava e le Amazzoni, per lavare l'onta della cocente umiliazione, penetrarono in Ellade in armi, spingendosi fin sotto l'Acropoli di Athene dove, però, vennero sconfitte e Antiope stesse perse la vita; costrette a ritirarsi verso nord, migrarono nelle lande che da allora furono conosciute come "Terra delle Amazzoni".
46E' probabile che questa fosse, in una versione estremamente arcaica e non ancora canonicizzata, la Fatica conclusiva, con Admeta donata in sposa a Heracle quale coronamento della lunga serie d'imprese: alcune bestie sottomesse dall'Eroe, quali la Cerva di Cerinea o le Cavalle Antropofaghe di Diomede, potrebbero esser state ipostasi della stessa Admeta, il cui nome tra l'altro spesso figura come uno dei molteplici appellativi della Dea Guerriera Athena. Il dono della cintura, e gli episodi che videro Heracle entrare in contatto con Dee vergini quali Artemide e la stessa Athena, dovette possedere la valenza di un rito ierogamico e sacrale.
47 Figlio di Tifone ed Echidna, fratello di Cerbero, della Chimera e dell'Hydra di Lerna, padre della Sfinge e del Leone Nemeno, secondo Ἡσίοδος – Esiodo, che generò accoppiandosi incestuosamente con la propria madre Echidna.
48 Titano dell'astro solare, figlio dei Titani Ὑπερίων – Hyperione e Θεία – Theia.
49Divinità primordiale figlia di Χάος – Chaos, personificazione della Notte Terrestre contrapposta a Ἔρεβος – Erebos, la Tenebra, incarnazione della Notte Infernale.
50Fiume della mitologia greca, divenne la tomba di Φαέθων – Fetonte che vi precipitò con il carro solare ricvuto incautamente a suo padre Helios: identificato dalla maggior parte degli scrittori con il nostro Po, per Αἰσχύλος – Eschilo era da ricercarsi nel Rodano, mentre per altri era localizzato nel Nord dell'Europa.
51Figlio del Titano Ιαπετός – Giapeto e dell'Oceanina Κλυμένη – Climene.
52Egli era un gigante alto 60 braccia, quindi oltre 23 metri, che risiedeva in una spelonca nella valle del fiume Bagrada, presso Zama, cibandosi esclusivamente di carne leonina.
53Antichissimi riti religiosi di tipo misterico, a carattere annuale, celebrati nel Santuario di Demetra presso la città di Eleusi nell'Attica. Definiti come "il più famoso tra i riti religiosi segreti dell'Antica Grecia", erano connotati da ritualità di tipo agrario e probabilmente affondavano le radici sin nel periodo Miceneo. Erano divisi prevalentemente in tre fasi e rappresentanti il mito del rapimento di Persefone da parte di Ade: la Perdita, la Ricerca e l'Ascesa (άνοδος), con quest'ultima simboleggiante la riunione di Persefone con la madre Demetra. Nei Misteri Eleusini, così come nell'Orfismo e nei Misteri Dionisiaci, si scorge la traccia di ancestrali tradizioni religiose protostoriche, comuni ai popoli cretesi, traci, minoici e asiatici, modulati e integrati nei sistemi religiosi che soppiantarono i primevi ambienti sacrali dove originariamente si svilupparono. La rinascita di Persefone, con il suo ritorno al Mondo dei Viventi a seguito del soggiorno forzato in Ade, rappresentava la ciclicità della vita, la continuità del Mito dell'Eterno Ritorno e il corso della Spirale Vitale, promessa di reincarnazione e proseguimento dell'esistenza a seguito della Morte, così trasmessa di generazione in generazione, non interruzione bensì momento di passaggio prodromo a una successiva rinnovamento. Il nome di Eleusi non appartiene al ceppo linguistico greco e potrebbe rappresentare una forma paredra dell'Ηλύσιον - Elisio.