Hendrik Voogd (Amsterdam, 1768-Roma, 1839),
“Veduta della grandi e piccole cascatelle di Tivoli”, olio su tela.
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La storia dell'acerrima rivalità
tra la Superba Tibur e l'Eterna Roma è ancestrale come la memoria delle due
città in questione: antenati eroici e divini, battaglie mitologiche e guerre in
età storica, i due centri abitati a lungo furono ostili l'un l'altro, con
alterne sorti e altrettanti screzi. L'argomento affrontato in questo articolo
si riferisce a un particolare episodio della lunga guerra che vide
fronteggiarsi la Lega Latina da un lato, nella quale Tibur
ricopriva un ruolo di egemone importanza, e l'emergente potenza di Roma dall'altra.
Con il trascorrere dei secoli,
nonostante la sconfitta subita per mano di Enea nell'epoca del Mito,il
potere di Tibur crebbe soverchiantemente, anche grazie a una posizione
geografica unica nel Lazio: arroccata su di una poderosa acropoli, protetta
naturalmente dal Divino Aniene e le sue rombanti cascate, ricca di acqua
e terra fertile, la città degli Argolidi rappresentava un'autentica
sfida per chiunque osasse attaccarne le mura. Conscia della sua supremazia e
del suo potere, Tibur non volle mai chinare il capo di fronte
l'emergente potenza di Roma e, per tale motivo, le due comunità
arrivarono ben presto allo scontro, sin dall'epoca dei primi sovrani
Capitolini. Dopo il regno di Tarquinio Prisco, caratterizzato da
un'avanzata militare romana senza freni che portò alla distruzione di Apiolae
e Corniculum*(3), s'instaurò con i successivi re un periodo
caratterizzato da un'apparente tregua, seppur effimera, che sembrò mostrare Roma
benevolente nell'accettare l'indipendenza delle città laziali. Nei secoli
successivi Tibur decise di limitarsi a osservare, con occhio vigile e
attento, l'evolversi delle guerre tra Roma, oramai divenuta una
Repubblica, e i suoi vicini, seppur la conquista di Fidenae da parte
degli eredi di Romolo, città posta all'affluenza dell'Aniene nel Tevere,
lasciò ben intendere ai tiburtini di come il tempo dell'attesa fosse giunto al
termine, esortandoli dunque a propendere per un politica più aggressiva: la
neutralità messa in atto sino a quel momento aveva favorito l'ascesa dei
capitolini e, così procedendo, il loro potere sarebbe divenuto troppo vasto e
grande per esser fronteggiato persino dalla Superba città degli eredi di Anfiarao.
Nell'anno 501 antecedente l'era cristiana, le città Latine formano dunque una Lega,
con lo scopo di arrestare una volta per tutte la prepotente avanzata di Roma:
gli esiti furono disastrosi e si conclusero con l'umiliante disfatta al Lago
Regillo, nel 499 secondo il grande storico romano Tito Livio o
nel 496 come invece generalmente ritenuto, sconfitta che costrinse le
città della Lega a implorare la pace.
Tratto di mura urbane risalenti al IV secolo a.C., sulla destra, tagliate e defunzionalizzate dalle mura della successiva Chiesa di San Pantaleone in Postera-Tivoli, via di Postera. |
Nel 496, o nel 493,
venne stipulato il patto conosciuto come Foedus Cassianum, dal console
romano Spurius Cassius Vecellinus, il quale regolamentava la
suddivisione del bottino di guerra tra Romani, Latini ed Ernici
(fu proprio ciò a causare, successivamente, alla guerra Latina del 340-338
a.C.), attribuiva il comando delle campagne militari affrontate congiuntamente
da Roma e Lega Latina a un generale scelto di volta in volta tra
un console romano e il dittatore latino, la fondazione di colonie latine come
colonie appartenenti alla Lega, il diritto allo ius commercii e ius
connubii(*4) e la celebrazione di una comune festività sul Monte
Albano (aggiungendo un terzo giorno alle Feriae Latinae)
antichissimo centro sacrale delle genti appartenenti al Latium Vetus
avente come cuore l'ancestrale Santuario di Iuppiter Latialis, o Latiaris,
sito sul Mons Cavo: tra Romani e Prisci
Latini, dunque, sarebbe sussistita una condizione di parità, detta isopolitia.
Il patto non ebbe, però, lunga
vita poiché dopo decennale assedio la città etrusca di Veio cadde sotto
le armi dell'Urbe nel 396, per mano del grande condottiero Marcus
Furius Camillus: il culto di Iuno Regina, divinità poliade,
venne traslato dall'arx di Veio, oggi in piazza d'Armi, a
Roma sul Colle Aventino, secondo il rituale romano dell'evocatio.
A seguito dell'ulteriore espansione della città romulea, le città della Lega
Latina decisero quindi di rompere unilateralmente il patto, creando dunque i
presupposti per ciò che venne poi definita la Guerra Latina.
Dopo il saccheggio che distrusse
gran parte della Roma dell'epoca, a opera dei Galli Senoni guidati
da Brennox(*5) nel 390, a lungo si discusse se
edificare una nuova Roma nel territorio che un tempo appartenne alla
sopracitata città etrusca, ben più fertile e meglio difeso naturalmente; la
proposta, a lungo dibattuta, fu alla fine respinta anche grazie al parere
decisivo dello stesso Marco Furio Camillo. Tibur sembra recitò un
ruolo di una determinata importanza nelle varie battaglie che caratterizzarono
le guerre che videro contrapposte Roma e le varie confederazioni celtiche che
tentarono la conquista nella penisola italica: più volte offrì alleanza, stazionamento
e supporto logistico agli irriducibili combattenti del Nord, ritenendo la loro
indole spiccatamente guerrafondaia un'opportunità irrinunciabile per stroncare
le mire di dominio assoluto dell'odiata e antica rivale. Nel 361, i
Romani erano di ritorno da una vittoriosa sortita contro gli Ernici,
capitanata da Caio Sulpizio e Caio Licinio Calvo, e Tibur
si rifiutò di aprir loro le porte per lasciarli passare: questo episodio generò
diffuso malcontento tra i capitolini, i quali dichiararono apertamente che se i
Feziali(*6) non avessero ottenuto adeguato risarcimento,
avrebbero dichiarato guerra a Tivoli e alle città da essa dipendenti. Nello
stesso anno ci fu una sortita gallica nei territori laziali, prontamente
repressa dalle milizie romane: i Celti ritirarono verso Tibur,
venendo accolti e rifocillandosi presso la città e, poco dopo, si diressero in
Campania; nel 360 Roma decise di punire l'infedeltà dei Superbi,
marciando contro la loro città. I Galli, ascoltata la notizia, mossero
dalla Campania e depredarono Labico e Tusculum, per poi
muovere in soccorso dei loro alleati tiburtini: i romani i sconfissero i Galli
nella battaglia del Ponte sul Fiume Aniene e a condurli alla vittoria fu
Tito Manlio Torquato Imperioso, così definito perché durante la colluttazione
ebbe modo di sottrarre il Torquis, collana simboleggiante lo status
quo di guerriero e uomo libero presso i Celti, a un'enorme barbaro;
l'episodio, narrato da Tito Livio nel suo Ab Urbe Condita VII, 10,
venne così tramandato:
“Il Romano (Tito Manlio), tenendo alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di quello dell'avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest'ultimo in modo tale da non correre il rischio di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l'altro gli trapassò il ventre e l'inguine facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio si astenne dall'infierire sul corpo del nemico crollato al suolo, limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò a sua volta, coperta com'era di sangue."
I Galli
furono sbaragliati e costretti alla ritirata, mentre il console romano Gaio
Petelio Libone Visolo, al quale era stato lasciato il comando delle
operazioni dal dittatore Quinto Servilio Ahala, intercettò anche le
forze della città argiva che si erano mosse per dar manforte agli alleati Iperborei;
il dittatore, invece, costrinse i Galli alla fuga nella battaglia di Porta
Collina, presso l'attuale Via Collina. Ambedue gli schieramenti
alleati vennero surclassati dallo stesso Petellio e furono costretti a
rinchiudersi entro le solide mura della città dalle rombanti cascate.
Al
console romano venne concesso il trionfo, il 29 luglio, per aver
debellato la minaccia congiunta di Celti e Superbi ma
quest'ultimi si ritennero grandemente offesi da ciò, non considerandosi
sconfitti e deridendo la vanagloria avversaria: a dimostrazione di ciò, e per
provare agli occhi di tutti la codardia romana, nel 359 decisero di
mettere in atto un fulmineo attacco notturno sotto le mura dell'Urbe, capitanato
da un ristretto numero di guerrieri. La sortita creò scompiglio e colse di
sorpresa i capitolini ma con il sorgere del sole l'inganno fu dissipato,
rendendosi conto i romani che le forze nemiche erano composte da due sparuti e
inoffensivi manipoli di soldati i quali, attaccati congiuntamente da due porte
distinte, furono sconfitti in breve tempo. Nel 358 vi furono nuove
avvisaglie di turbolenze galliche nel Lazio, con Roma che concesse un
nuovo trattato ai Latini su richiesta di quest'ultimi i quali, ottenutolo,
inviarono un robusto contingente nei pressi di Praeneste, ove vennero in
contatto con le forze romane e, stazionando presso Pedum (l'odierna Gallicano
nel Lazio), debellarono l'ennesima minaccia sotto la guida del dittatore
capitolino Gaio Sulpicio Petico. Ciò che possiamo asserire con certezza
nel mare della nebulosità degli episodi che scatenarono continue rappresaglie
tra Roma e le città Latine, è che queste ultime dovettero mal tollerare
l'oramai continua e duratura presenza capitolina nella zona Pontina ma
pressate dall'impellenza di una seria minaccia armata rappresentata dai Celti
dovettero propendere per la riconciliazione con la città di Romolo, seppur
malvolentieri: a fronte però dell'accondiscendenza delle altre città, Tibur
e Praeneste restarono sempre fortemente ostili a Roma; tutto ciò,
qualche anno dopo, porterà allo scatenarsi dell'episodio chiave di questo
trattato.
Poderosi resti della cinta muraria urbana risalente al V-IV secolo
antecedente l'era cristiana, in località "dei Pisoni", Tivoli. |
Nel 356
il console romano Marco Popilio Lenate fu incaricato di guidare una
spedizione militare contro i Tiburtini, costringendoli ad asserragliarsi
entro le mura e devastando le campagne antistanti alla potente città, la quale
anche in quel frangente dovette sembrare praticamente inespugnabile: la tattica
usata, di per certo meno dispendiosa e assai più redditizia rispetto a uno
scontro campale, fu quella di isolare Tibur attaccando ogni centro che
le gravitava attorno e appartenente al suo dominio, in particolar modo gli oppida
fortificati che ne proteggevano i confini a scopo profilattico.
Infatti
nel 355/354, praticamente senza combattere, i Romani di ritorno da una
spedizione contro gli Equi conquistarono Empulum*(7) la
quale distava da Tibur circa 7 km, distruggendola completamente,
e l'anno successivo fu la volta di Saxula, altra città sottoposta a Tibur
e strategicamente importante al pari di Empulum. I Figli di Romolo
invasero le campagne Tiburtine con un esercito ancor più forte e numeroso,
assemblato con il chiaro scopo di conquistare tutte le terre dipendenti dalla
città Superba, e seguendo la tattica adoperata per la conquista di Empulum
oltrepassarono Tibur dirigendosi verso Saxula, la quale cadde
dopo un lungo e sanguinoso scontro. A seguito della conquista delle sue
principali piazzeforti Tibur si vide costretta a deporre le armi e
dichiarare la resa nel 354, logorata oramai dai lunghissimi anni di
battaglie, e la guerra ebbe fine con il console Marco Fabio Ambusto che
celebrò il trionfo sui Tiburtini il 3 giugno e, nel medesimo anno, Roma
strinse pace anche con la città di Praeneste. Nel 338, ultimo
anno della Guerra Latina, il console Lucio Furio Camillo sconfisse
nuovamente i Tiburtini e, si narra, ne prese la città: la Lega Latina
fu sciolta, ai Latini fu vietato severamente di allearsi gli uni con gli
altri, i loro territori vennero annessi a quelli di Roma e la lunga inimicizia
ebbe dunque termine con la capitolazione definitiva della città edificata dagli
eredi del Divino Anfiarao, 415 anni a seguito della fondazione di
Roma. A Tibur e Praeneste venne sottratto parte del loro
territorio, come punizione non solo per essersi sollevate nella Guerra
Latina ma anche per esser state a capo della fazione avversa ai romani
durante le guerre Romano-Latine degli anni 389-354: Tibur
perdette dunque la sua autonomia politica, acquisendo però anche determinati
vantaggi in quanto fu considerata civitas foederata (città alleata) e
poté beneficiare di pace interna ed esterna che rese possibili maggiori e più
proficui scambi commerciali soprattutto con l'Urbs, in crescita oramai
vertiginosa e pressoché inarrestabile.
Attuale paese di Castel Madama. |
Approfondimenti
*(1)
Leccio (Quercus Ilex): detto anche Elce, è un albero spontaneo
appartenente alla famiglia Fagaceae e al genere Quercus, diffuso
nei paesi del bacino del Mediterraneo, può raggiungere anche i 20-24 metri in
altezza. Gli alberi del genere Quercus sono spesso stati
sacralizzati in quanto testimoni di Keraunofanìe, poiché sovente
colpiti da folgori.
*(2) Aborigeni: I primevi Latini,
autoctoni dell'Italia; il loro etnonimo deriverebbe da “Ab Origines”,
ovverosia “I Fondatori”, endoetnonimo, oppure da “Aberrigines”,
equivalente a “I Girovaghi”, in questo caso esoetnonimo. Forse
furono anticamente i leggendari Lélegi, di stirpe greca,
discendenti degli Enotri.
*(3) Apiolae
e Corniculum: probabilmente
da collocarsi, rispettivamente, presso Monte Savello tra le odierne Albano
Laziale/Pavona e Montecelio.
*(4) Ius
Commercii e Ius Connubii:
diritto al libero commercio e libero sposalizio tra gli abitanti di Roma e
della città latine, con riconoscimento dei diritti civili per i figli nati da
queste unioni, sanciti nel patto di tregua conosciuto come Foedus Cassianum.
*(5) Brennox: nome proprio di persona in lingua celtica, significante “corvo”
dalla radice “Bren” (continentale) o “Bran” (insulare); era anche
un titolo militare assunto dai condottieri celtici in tempo di guerra,
equivalente a “comandante”.
(*6) Sacerdotes
Fetiales: ancestrale collegio sacerdotale
dell'antica Roma, i cui membri erano all'epoca selezionati per cooptazione tra
le sole famiglie patrizie (l'apertura ai plebei avvenne nella tarda età
repubblicana); il loro compito principale, tra i molteplici che li vedevano
coinvolti, era di preservare e tramandare gli aspetti sacrali del diritto
extraurbano e dello Ius Bellorum romano.
*(7) Empulum: il toponimo, di origine incerta, è attestato sin
dall'età arcaica e sarebbe riconducibile secondo alcuni al greco àmpelos,
significante “vite, vigna, vigneto”. L'ubicazione di Empulum e Saxula
resta tutt'oggi incerta, rientrando nella tipologia di centri abitati interiere
sine vestigiis (“Scomparsi senza lasciar alcuna traccia”). Le fonti narrano
di come la conquista romana di Empulum tenne impegnate le legioni romane
per circa 1 anno, probabilmente in logoranti assedi; il prof. Fulvio Cairoli
Giuliani, in ogni caso, ritenne negli anni passati come ricercare
l'ubicazione di Empulum e Saxula nella valle aniense fosse del tutto errato.
Fonti Bibliografiche:
-Gianfranco Maddoli, “La civiltà Micenea, guida storica e
critica”, Universale LATERZA, 1977;
-Franco Sciarretta, "Tivoli
in età classica”, "Viaggio a Tivoli” e “Storia di Tivoli”, Tiburis
Artistica Edizioni;
-Cairoli Giuliani, “Forma
Italiae-Tibur Pars Prima e Altera”, De Luca, 1966 e 1970;
-Publio Virgilio Marone, “Eneide”;
-Omero, “Odissea”;
-Tito Livio,
Ab Urbe Condita, VII, XVIII, XIX;
-Diodoro Siculo,
“Bibliotheca Historica”;
-Dionisio d'Alicarnasso, “
Ῥωμαικὴ ἀρχαιολογία” o “Antichità Romane”;
-Gaio Giulio Solino,
“Collectanea rerum memorabilium";
-Marco Porcio Catone,
"Origines";
-Fasti Triumphales;
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