A cura del dott. Stefano Del Priore.
Sembrerebbe assolutamente pretenzioso, finanche presuntuoso, poter
disquisire del vino in Italia. L'Italia, la patria della storia, dell'arte, del
buon cibo, del mare, delle montagne, sede del più potente impero che il mondo
antico abbia mai visto e...del vino. Si, perché difficilmente un prodotto è
stato maggiormente legato ad un'identità nazionale tanto quanto il vino lo è
all'Italia. Ad onor del vero ci sono anche dei cibi che rappresentano,
nell'ideologia mondiale, il Bel paese come, ad esempio, la pasta, la pizza o il
gelato. Non come il vino, però. Non possiedono la stessa profondità storica, lo
stesso retaggio ancestrale, il medesimo fascino, la valenza quasi
soprannaturale che il vino possiede: questa bevanda, ottenuta dalla
fermentazione degli acini d'uva, vanta una storia plurimillenaria attraversando
ere, civiltà, età, nazioni, imperi, genti, culture e recitando un ruolo
primario nei racconti di uomini e Dei. Una sottile linea color scarlatto, come
il miglior vino rosso, collega tutto ciò, tessendo un mirabile arazzo
multicolore che racchiude in se le origini della storia catapultandoci, ad ogni
inconsapevole sorso, lontano, nel passato, alle origini di ciò che al giorno
d'oggi chiamiamo "Europa", quando le grandi Dee Madri regnavano
egemoni e il Dio del Cielo e del Tuono ancora non era giunto su queste terre.
Alle origini del Mito
Iniziamo con ordine. Per poter parlare con sufficiente cognizione di causa del vino, dobbiamo innanzitutto comprenderne l'origine: per fare ciò, dobbiamo risalire all'etimologia del termine e operare una breve cronistoria del frutto dell'uva. Nel Valdarno superiore furono trovati, in depositi di lignite, resti fossili di tralci di vite risalenti a circa 2 milioni di anni fa, mentre numerosi ritrovamenti archeologici provano che la Vitis Vinifera cresceva spontaneamente già circa 300.000 anni or sono. Secondo gli studi più recenti, sembra che il consumo della bevanda alcolica sia iniziato nel neolitico, casualmente forse attorno al IX millennio presso la cultura del neolitico preceramico di Gerico, consapevolmente attorno al VI, in una zona compresa tra le coste del mar Caspio e la Turchia. La produzione vinicola su larga scala iniziò perlomeno nel 4100/4000 a.C, data delle quale siamo certi grazie alla scoperta della cosiddetta "Casa del Vino" localizzata presso le caverne dell'attuale comune armeno di Areni.
Il termine "vino" , dal latino Vīnum, greco antico ϝοῖνος-Woînos, classico Oἶνος-Oînos, etrusco Vin(um), leponzio Vinom, osco/umbro/falisco Vinu, può essere facilmente rintracciabile e distinguibile praticamente in tutte le lingue delle popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo e, in linea generale, stanziate nell'area europea. Popolazioni che non coltivarono la vite dell'uva ma che con il commercio conobbero e apprezzarono questo prodotto, come celti e germani, adottarono il termine appartenente alla lingua delle popolazioni con le quali barattarono il vino: basti pensare ai moderni Wine in inglese, Wein in tedesco oppure al finlandese Viini. Questa parola, però, probabilmente non è di origine indoeuropea. Cosa significa "indoeuropea"? Il termine è una semplice convenzione abbastanza moderna. In realtà, non è mai esistito un popolo che definisse se stesso "indoeuropeo" parlante una lingua denominata "indoeuropea": il termine, utilizzato per definire un macropopolo, è salito in auge grazie a emeriti studiosi come Colin Renfrew, Marja Gimbutas e Vyacheslav V. Ivanov.
Questo popolo, i nostri
antenati ancestrali, si mossero, a più ondate,
dalle loro terre d'origine tra le steppe del Mar Nero e del Mar Caspio,
invadendo l'Europa in un periodo compreso tra il 4400 e il 1500
a.C scontrandosi e amalgamandosi, arrivando ad adottarne anche usi, costumi,
protoforme alfabetiche e parzialmente la lingua, con i popoli "Eteoeuropei",
i Popoli della Vecchia Europa, autoctoni delle terre dove attualmente
tutti noi oggi viviamo.
Bene, il frutto di queste ancestrali interazioni, scontri tra culture e successive amalgame sono le lingue definite "indoeuropee", tra le quali rientrano, stricto sensu, tutte le lingue attualmente parlate in Europa e nell'occidente del mondo,ad eccezione probabilmente del basco, dirette eredi di lingue come il latino, il greco antico e classico, le lingue antico-germaniche, quelle antico-norrene e delle lingue celtiche. La ragione di questa parentesi è proprio l'origine del nostro discorso, l'etimologia del termine "vino": il termine è presente in tutte le lingue indoeuropee, presenti e passate, ma con elevatissima probabilità non è di origine indoeuropea. E' un termine acquisito da un'altra lingua, una delle lingue parlate dagli autoctoni dell'antica Europa, quando i nostri proto-antenati invasero il continente recando con loro la domesticazione del cavallo, una struttura rigidamente patriarcale con a capo un Rēgs (ossia l'equivalente del Re sacro nel latino Rex o nel celtico Rix ), la spada, la guerra e il Dio del Cielo e del Tuono.
I nostri padri ancestrali erano soliti
ad uno stile di vita seminomade, dediti alla pastorizia e non praticavano forme
di agricoltura degne di nota: vivevano in piccoli villaggi fortificati,
successivamente costruirono roccaforti in luoghi elevati e difficilmente
attaccabili, in capanne raggruppanti differenti nuclei familiari e una volta
esaurite le risorse del terreno, si spostavano assieme alle greggi e alle
mandrie, simbolo di ricchezza e benessere, verso nuove terre da sottomettere e
sfruttare. In un contesto sociale del tipo sopraelencato, la coltivazione delle
vitis vinifera, la vite da vino, sarebbe stata pressoché impossibile,
richiedendo un'attenzione ed una cura su larga , e lunga, scala che un popolo
nomade o seminomade difficilmente avrebbe potuto mettere in atto. Lo stile di
vita indoeuropeo era frammisto tra caccia, allevamento, agricoltura rudimentale
e raccolta di ciò che la natura offriva alla stato selvatico, come il miele.
Abbiamo buone ragioni per ritenere che i nostri progenitori utilizzassero il
miele non solamente come alimento ma che da esso fossero in grado di ottenere
una bevanda alcolica, un miscuglio di acqua e miele fermentato, forse con
l'aggiunta di lievito, chiamato "Idromele".
La parola indoeuropea per
questa bevanda era Medhu, rintracciabile nel sanscrito Màdhu ,
nel greco Metu, nell'inglese Mead, nell'antico irlandese Mid e
nel tedesco Met. Come bevanda alcolica, l'idromele è di certo
"inferiore" al vino e alla birra, essendo propria di un popolo che
ignora la viticoltura e non dispone di cereali sufficienti, o idonei, alla
preparazione della birra, sicché utilizza la materia prima che gli viene fornita
in natura: risulta perciò naturale che questa bevanda ancestrale sia stata
sostituita, nel corso del tempo, da altre di superiore qualità che già
esistevano negli insediamenti storici o che nacquero poi grazie
all'agricoltura. Nonostante ciò, come testimoniato nel poema epico anglosassone
"Beowulf", risalente al VI secolo dell'era
cristiana, l'idromele continuava ad essere definito la "Bevanda
degli Dei" presso le genti del Nord Europa anche agli albori del
medioevo, quando la produzione della
birra era sicuramente più massiva di quanto non lo fosse quella dell'idromele:
un'importante testimonianza di come questa progenitrice tra le bevande
alcoliche abbia conservato, nel Nord Europa, questo retaggio mitico, divino,
ancestrale che ha attraversato millenni di storia non venendo mai dimenticata.
Giudicando dal lessico, l'idromele dovrebbe esser stata l'unica bevanda
alcolica conosciuta dai nostri antenati delle steppe: è assai poco probabile,
se non del tutto escludibile, che praticassero la viticultura. Ciò che sappiamo
con certezza è la totale assenza, nelle lingue indoeuropee, di una parola atta
a designare il vino. Deve trattarsi, perciò, di una parola "viaggiatrice".
La viticultura e la produzione del vino ebbero origine, a quanto sembra, nella
zona meridionale del Ponto e in Asia minore.
Perciò, come accade sovente in
questi casi, la parola deve esser proceduta verso l'esterno da qualche lingua
parlata in quella zona, pur ignorando esattamente quale idioma fosse. Fuori
dalla famiglia indoeuropea, precisamente tra le lingue semitiche, abbiamo in
arabo e in etiopico Wain, Inu in assiro e Jajin in
ebraico, il che lascia presupporre una forma protosemitica Wainu . Il
termine è rintracciabile anche nelle lingue indoeuropee che furono parlate
nell'Asia Minore, come nell'hittita Wijana e nel luvio geroglifico Waiana
. La parola viaggiò, assieme alla viticultura, verso il Mediterraneo
occidentale e la riscontriamo nel
greco antico ϝοῖνος-Woînos, nel greco Oἶνος-Oînos, nel latino Vinum
(da cui l'italiano "Vino") e nell'albanese Vene. Dal latino
passò al celtico , come in antico irlandese Fin e nell'antico gallese Gwin,
al germanico come nel Gotico Wein, nel tedesco Wein e
nell'inglese Wine, e allo slavo, come Vino in slavo antico e
russo. Dallo slavo, infine, passò al lituano Vynas. Gli Indoeuropei,
dunque, entrarono in contatto con il vino, e la lingua che così lo chiamò,
durante uno dei loro numerosi flussi migratori verso l'Europa, in epoche
davvero antiche e remote. Il maggior diffusore della parola viaggiatrice è
stato il latino e non deve certo sorprendere: i romani furono maestri
nell'esportare la loro cultura, le loro usanze, le loro tradizioni e così
accadde anche con il vino, di cui l'Impero romano fu un enorme produttore.
La
pregiata bevanda alcolica raggiunse il nord Europa più settentrionale, dove le
impervie condizioni climatiche ne avrebbero impedito la coltivazione, e
l'Europa dell'Est, divenendo un simbolo di agiatezza, ricchezza e importanza.
Sarà proprio del contatto tra le culture "vinicole" del Mediterraneo
centro-occidentale e le popolazioni dell'Europa centro-settentrionale che
parleremo in seguito: un contatto estremamente antico, iniziato con i primi Emporia
ellenici , che risale addirittura alla fondazione dell'Emporion focese
di Μασσαλία ,
l'odierna Marsiglia sulla costa Azzurra, nel 600 a.C circa. Un contatto
di civiltà, uno scambio di culture, che portò gli indigeni Galli, i celti
transalpini, a deputare al vino una valenza quasi sacrale, ad uso quasi
esclusivo dei nobili e dei potenti capi-clan che governavano gli irrequieti
animi dei combattenti d'Oltralpe.
Il vino nell'antica Ellade
Le
società vinicole, domesticazione e diffusione
Secondo
le teorie più accreditate la coltivazione intenzionale della Vitis
Vinifera risale
al 4100/4000 a.C.,
come abbiamo avuto modo di testimoniare grazie alla "Casa
del Vino"
scoperta in Armenia, attorno alle pendici del biblico Monte Ararat.
La coltivazione della vite da uva si sarebbe diffusa lungo tre assi
principali, tre percorsi: il più antico andrebbe dal Monte Ararat
verso la Mesopotamia, l'Egitto e l'Ellade grazie all'influenza di
vari popoli, mentre altri ritengono che il vino sia giunto in Grecia
attraverso l'Anatolia e le terre meridionali del Ponto; il secondo
percorso muoverebbe i suoi passi dalla Grecia verso la Magna Grecia,
l'Italia del Sud e la Sicilia, la Spagna, la Francia con
Μασσαλία-Marsiglia
grazie
alle tratte commerciali degli Elleni stessi e dei Fenici. Il terzo, e
ultimo percorso, si snoda dalla Francia verso il Nord Europa,
prevalentemente attraverso il Rodano, il Reno e il Danubio, grazie
alla capillarità dell'influenza romana. La recentissima scoperte da
parte dell'Università meridionale della Florida di anfore da vino,
in una grotta del monte Kronio a sud di Agrigento datate al IV
millennio a.C,
potrebbe sconvolgere tutto ciò che credevamo di sapere sul vino e
sulle vie del commercio: si aprirebbe uno scenario del tutto inedito,
con l'Italia, o comunque le sue propaggini meridionali, che
rappresenterebbero uno dei luoghi più antichi dove il vino fu
prodotto. Le anfore furono riempite con vino locale? Oppure furono il
frutto di scambi commerciali o doni di pregio? Non possiamo ancora
sostenerlo fino a quando ulteriori analisi non saranno condotte sui
residui presenti all'interno delle giare. Forse le teorie sulle vie
del vino e del commercio in età preistorica sono in procinto d'esser
del tutto sconvolte.
Monte Kronio, Agrigento, scoperta di anfore da vino datate al IV millennio a.C. |
I primi documenti certificati riguardanti la coltivazione della vite e la produzione del vino risalgono al termine del III millennnio, al 2300 a.C circa. I ritrovamenti di superficie nella cantina di Godin Tepe nell'Iran occidentale provano inconfutabilmente che il vino era prodotto nel vicino Oriente fin dalla metà del III millennio. Degno di nota il particolare linguistico che, partire da questo periodo, le voci “uva, uve essiccate, vino” sono sempre più numerose nei testi cuneiformi mesopotamici. Dal 1800 a.C. citazioni analoghe sono presenti nei testi rinvenuti ad Alalah e Mari, nell'attuale Siria, mentre tra il XIV e il XIII secolo abbondano le testimonianze dalle città stato cananee: la più antica attestazione, metà del II millennio, di commercio del vino via mare proviene dalle città stato cananee attraverso il porto di Ugarit. Da sottolineare come la ricca iconografia mesopotamica ed egizia illustra chiaramente i diversi aspetti della vendemmia, della vinificazione e del consumo di vino, mettendo in evidenza il carattere elitario e rituale di questo consumo.
Un'altra antica cultura dedita alla coltivazione
dell'uva da vino fu quella micenea nel II millennio a.C., alla quale si
attribuisce il primo grande movimento commerciale verso l'Occidente. La
documentazione iconografica (il cratere di Enkomi) e letteraria (le
numerose attestazioni nell'Odissea), così come quella archeologica (i
ritrovamenti di ceramica micenea), dimostrano la frequentazione assidua delle
veloci navi micenee e per il trasporto del vino nell'ultimo quarto del XII
secolo a.C. lungo le coste italiane, con penetrazioni frequenti verso il
Lazio, nell'Adriatico, nel Tirreno e nella Sicilia, seppur incursioni più
antiche possono esser fatte risalire persino al XV/XVI secolo.
Il secondo millennio si concluse in Oriente con un grave collasso delle città-stato, chiamato dagli storici "la crisi del 1200": nessuna regione rimane immune da distruzioni e incendi e il prospero commercio delle anfore cananee terminò drammaticamente.
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Il secondo millennio si concluse in Oriente con un grave collasso delle città-stato, chiamato dagli storici "la crisi del 1200": nessuna regione rimane immune da distruzioni e incendi e il prospero commercio delle anfore cananee terminò drammaticamente.
Enkomi, coppa in argento con decorazione di bucrani e fiori di loto e con un manico d'osso incrostato d'oro, datata intorno al 1400 a.C. e conservata al Cyprus Museum di Nicosia. |
Il commercio del vino riprese con i
Fenici e coincide con la ripresa dell'attività mercantile della città di Tiro (IX-VIII
secolo a.C.). Le anfore fenicie, molto simili a quelle cananee, sono sempre
presenti nei ritrovamenti archeologici dei mari occidentali. Anche i Greci
lentamente iniziarono a risvegliarsi nel corso del IX secolo a.C.,
grazie ai frequenti contatti che stabilirono in quel periodo con le coste
dell'Asia Minore, della Siria e con le regioni caucasiche sul Mar Nero.
L'attività commerciale, iniziata nel mare Egeo, si sviluppò successivamente nel
mare Ionio e nel mare Tirreno, molto spesso sulle rotte e verso gli stanziamenti
fenici in occidente. Seguendo un cammino cronologico, alla prima colonizzazione
fenicia, peraltro poco nota, e ad un commercio del vino legato ad utilizzi
elitari e religiosi, seguì una fase di espansione commerciale greca dei secoli VII
e VI a.C., proveniente
soprattutto dalla costa asiatica, da Samo e da Focea. Si diffuse in
Occidente, mediato anche dagli Etruschi, il mito del vino, come testimoniano i
numerosi ritrovamenti di Kylix, coppe destinate al consumo del vino, nei
simposi dedicati prevalentemente a Διώνυσος-Dioniso. Dato il carattere
ideologico-religioso del consumo del vino nel mondo classico, il servizio
simposiaco, costituito dalla ceramica attica e da vasellame bronzeo etrusco,
era destinato esclusivamente alla preparazione e consumo del vino durante il
banchetto.
La ricchezza dei reperti antichi relativi ai vari recipienti per il
vino è in gran parte dovuta ai ritrovamenti di queste suppellettili nelle tombe
maschili, come indicatori di status sociale. La produzione e l'uso del vino nel
Mezzogiorno peninsulare d'Italia ed in Sicilia sono documentati fin dall'età
tardo minoica e micenea. Il periodo della colonizzazione greca in Occidente nel
quale si ebbe la diffusione del mito del vino si può circoscrivere tra i secoli
VIII e VI antecedenti l'era cristiana; questo periodo corrisponde
a quello della conquista progressiva dell'Occidente da parte dei Greci,
contestualizzabile tra il 750 ed il 540 a.C., date presunte della
fondazione di Cuma e di Elea. Un cenno particolare merita Pithecusa,
l'isola d'Ischia, sede di una antica colonia fondata, come Cuma e Naxos,
dagli Eubei: la celeberrima Πιθηκούσσα-Pithecussai. Che i poemi
omerici fossero conosciuti dai primi coloni euboici di Pithecusa, i
quali forse li utilizzavano per percorrere le rotte del basso Tirreno, è
dimostrato anche dall'iscrizione sulla coppa in argilla, detta “di Nestore” in
ricordo della coppa dell'anziano eroe greco della quale ci parla Omero nell'Iliade.
La cosiddetta "Coppa di Nestore" rinvenuta nel villaggio di Pithekoussai, e l'iscrizione identificativa-Museo Archeologico di Pithecusae, Ischia. |
Questa è la coppa più antica in assoluto tra quelle pervenuteci dal mondo greco
e fu ritrovata nella necropoli di San Montano, in una tomba risalente all'ultimo venticinquennio dell'VIII
secolo a.C., nell'antico villaggio di Πιθηκούσσα-Pithekoussai sull'isola
d'Ischia. L'iscrizione metrica presente su di essa, incisa in caratteri arcaici
dell'alfabeto greco calcidese, è un inno alle qualità del vino. Tradotta in
italiano dice: "La coppa di Nestore era certo ottima per berci, ma
chiunque beva da questa coppa, subito sarà preso dal desiderio della ben
coronata Afrodite"
La cosiddetta "Coppa di Nestore" rinvenuta nel villaggio di Pithekoussai-Museo Archeologico di Pithecusae, Ischia. |
I vini ellenici e la loro introduzione nel territorio italico
I vigneti della Magna Grecia si sono sviluppati in un tempo molto lungo, circa 500 anni, durante il quale si diffusero alcuni vitigni, come le Aminee o il Biblino, e si affermarono le tecniche viti-enologiche di origine greca. Spetta ai Greci, prima con modalità di diffusione di tipo culturale, con gli emporia, e poi di tipo demico, con le πόλεις-Poleis, il grande merito di aver trasformato il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio e di aver legato il vino al culto di un dio protettore della viticoltura, Διώνυσος-Dioniso, che come disse Euripide "… in dono al misero / offre, non meno che al beato, il gaudio / del vino ove ogni dolore annegasi". Questo culto greco per Dioniso, di probabile origine traco-frigia, fu mediato prima dagli Etruschi e fu più tardi ereditato dai Romani, che trasformarono il nome in Libero e quindi in Bacco. Il culto mistico di Dionisio-Bacco acquistò poi ampia popolarità nell'Italia meridionale dopo la seconda guerra punica. I vini dei Greci, commercializzati in tutto il bacino del Mediterraneo, si distinsero essenzialmente dalla zona di provenienza: le isole dell'Egeo in particolare, che si caratterizzarono per l'alta specializzazione colturale (Chio, Lesbo, Taso) e l'isola di Creta o le aree costiere, come la penisola Calcidica. Il vino greco migliore era molto dolce, per l'appassimento delle uve raccolte tardivamente, e quindi denotato da un tasso alcolico estremamente elevato. Si consumava perciò diluito con acqua, anche di mare, e impreziosito con spezie ed aromi vari. Bere il vino "schietto", ossia puro, assoluto, era considerato, oltre che dannoso per la salute (come tristemente accadde al Divino Μέγας Ἀλέξανδρος-Alessandro Magno, il quale si sostiene abbia perso la vita, una delle molteplici teorie, dopo aver bevuto da un corno potorio rituale, il ῥυτόν-Rhyton ben 5 litri di vino schietto), un'imperdonabile barbarie tipica dei popoli non civilizzati, i quali eccedevano con l'alcol sino a perdere la ragione, concetto assai inviso agli Elleni. I vini greci più famosi erano prodotti con il vitigno Byblinos, il cui nome significa testualmente "vite che si attorciglia o vite che si aggrappa": esso proveniva dall'Egeo orientale e fu uno dei primi ad essere acclimatati nella Magna Grecia. Il Byblinos dava origine al vino omonimo in diverse località della Sicilia (Siracusa, Gela) e in Campania. Altri vini celebri erano prodotti a Lagaria (il Lagaritanos, dolce e delicato, raccomandato in medicina) sulle colline di Capo Spulico, non lontano dalla città di Grumento; il Thourinos nella zona del Crati e il Murgentinum a Morgantina, in Sicilia: quest'ultimo si diffuse successivamente in Campania. Una citazione particolare merita il vino Capnios, vitigno alla base dell’omonimo vino di qualità noto fin dal IV-III secolo a.C. e introdotto dalla Grecia a Sibari.
Rhyton a protoma di capro, IV secolo a.C., Tesoro di Panagjurište |
Il vino presso gli Etruschi e la Vitis Vinifera autoctona italica
La vite era coltivata nell'Italia prima dell'arrivo dei Greci,
soprattutto nei luoghi di espansione etrusca, ed era il frutto della
domesticazione delle viti selvatiche crescenti spontaneamente nei boschi
planiziali. La terra di provenienza degli etruschi rappresenta, ancora al
giorno d'oggi, una vexata quaestio che affligge e coinvolge gran parte
del mondo accademico, dagli archeologi agli storici, dai glottologi ai filologi
e via discorrendo. Non analizzeremo qui il tema ma, semplicemente, mi limiterò
a esporre la mia personale opinione in merito, frutto di studi e teorie
maturate nel corso del tempo. Gli etruschi probabilmente, da grandi navigatori
quali erano (chiamati dagli Elleni i "Τυρσηνοί " in dialetto
ionico, i Tirseni) lasciarono le loro terre d'origine, la Lidia
in Asia Minore, in un periodo imprecisato ma probabilmente molto antico, sul
finire dell'età del Bronzo, a seguito di una carestia o un disastro naturale,
sino a giungere via mare sulle coste italiche.
Essendo le lande della Lidia,
dell'Asia minore e del Ponto meridionale le probabili terre
genitrici della coltivazione "ragionata" della Vitis Vinifera,
è quantomeno possibile ipotizzare che tali "protoetruschi" possano
aver portato con loro le tradizioni circa la produzione del vino, applicandole
poi in seguito alle varietà italiche. Non si può escludere, in ogni caso, che
sporadiche coltivazioni di vite nell'attuale Puglia, e in regioni
limitrofe, fossero la conseguenza di contatti con le popolazioni della costa
orientale dell'Adriatico e dello Ionio. La vite fu conosciuta e
apprezzata dalle popolazioni indigene italiche, paleoliguri e della Valle
Padana, in un periodo precedente alla colonizzazione greca, oltre il X
secolo a.C, attorno al 1300-1100. A riguardo di ciò, una recentissima
scoperta sembrerebbe provare che in una grotta del monte Kronio, a sud
di Agrigento, siano presenti anfore al cui interno vi sarebbero tracce
di vino, risalenti al IV millennio a.C. Se ciò fosse confermato, il vino
in Italia non solo sarebbe stato presente enormemente prima della diffusione ad
opera di Etruschi, Elleni e Romani, ma diverrebbe una
delle terre con le più antiche attestazioni di produzione vinaria. Fino ad
oggi, il vino italico più antico era stato documentato in una pressa da vino
nuragica nei dintorni di Cagliari, risalente al termine del II
millennio (1300 a.C. Circa).
Gli Etruschi coltivarono la Vitis
vinifera sylvestris sin dall'VIII secolo a.C., prima che i Greci e
poi i Romani diffondessero in Italia la Vitis vinifera sativa con le sue
numerose varietà. I vini etruschi delle zone costiere della Toscana, del Lazio
e della Campania divennero oggetto di esportazione verso la Gallia
meridionale e la Catalogna, come dimostrano i ritrovamenti delle
caratteristiche anfore etrusche a partire dal VII secolo fino all'inizio
del V . Nel periodo in cui ebbero a coesistere in Italia la civiltà
greca e quella etrusca, tra le due ci fu quasi una sorta di "frontiera
nascosta": questa "barriera" isolava due culture profondamente
diverse, caratterizzate tra l'altro dalle diverse tecniche di sepoltura
(inumazione i primi ed incinerazione i secondi). Tra le diversità sussisteva
anche la scelta dei vitigni e la modalità di coltivazione della vite, alle
quali non era certamente estraneo un uso rituale, sebbene profondamente
diverso, del vino. Significativa a questo proposito è la coincidenza tra l'area
di diffusione e coltivazione della vite a sostegno vivo con l’area della
massima espansione etrusca, non solo nelle regioni dell'Italia settentrionale,
ma anche in Campania. Che il sistema di coltivazione della vite su tutori vivi
fosse un retaggio etrusco lo dimostra anche la presenza di un vocabolo nella
lingua di questo popolo misterioso: "atalson" , significante
appunto "vite maritata all'albero".
Il vino nell'antica Roma- diffusione, varietà, commercio e valenza sociale
Nella prima metà del II secolo antecedente l'era cristiana, secondo Catone nel suo celebre De Agricoltura, il vigneto è oramai, nella graduatoria delle colture, in testa a tutte le altre; il vigneto, così come l'uliveto, non sono già più dei piccoli arboreti familiari, con la conformazione del giardino di stile mediterraneo, ma delle vere e proprie piantagioni, che impegnano una sempre più numerosa mano d'opera servile. Esistevano, però, anche aree destinate ad una agricoltura promiscua, dove la vite era coltivata in consociazione con cereali, fichi, ulivi. Il merito maggiore degli studiosi romani di argomenti agricoli è rappresentato dalle loro descrizioni delle varietà di vite coltivate e delle caratteristiche organolettiche dei vini che da queste si ottenevano . Gli autori di questo felice periodo, quali Polibio, Virgilio e Columella, che proseguì fino alla caduta dell'Impero Romano nel 476 d. C., contribuirono a definire le tecniche di coltivazione della vite che furono utilizzate praticamente fino al 1700 dell'evo moderno. La classificazione più semplice era quella che suddivideva le varietà in due grandi categorie: le uve da tavola (ad mensam , ad edendum, cibariae, suburbanae) e le uve da vino (ad bibendum, ad vindemias). In epoca romana la concentrazione dei vigneti d'élite in Campania non ebbe eguali nel resto della penisola.
Il segreto di questa particolarità risiedé nel fatto che i
popoli che abitavano la parte settentrionale della Magna Grecia già
conoscevano la potatura della vite, mentre, come anche ricorda Plinio il
Vecchio nel Naturalis Historia, I-XXXV, tale pratica nel
periodo regale era poco praticata dai Romani. Lo confermò Virgilio nel VII
libro dell'Eneide quando, parlando del venerabile Sabino, Rex
Sacrorum del periodo mitico precedente alla fondazione di Roma, lo appellò
come “Potatore di Viti” (Vitis Sator) e lo descrisse con in mano
la falce potatoria, identificata come il più nobile degli emblemi. Le varietà
coltivate in epoca romana sul territorio che corrisponde oggi alla attuale
Campania sono descritte e classificate nella Naturalis Historia (libro
IV) di Plinio e nel De re rustica di Columella.
I vini
prodotti tra Sorrento ed il Vesuvio godettero di grande fama
soprattutto nel periodo dell'imperatore Augusto: i vitigni più famosi e
più nobili furono le Amineae, che producevano rispettivamente il vino Surrentinum
sulle colline di Sorrento ed il vino Vesuvinum sulle pendici
del Vesuvio. Pregiatissimo e rinomato anche il Falernum coltivato
nell'Ager Falernus nella Campania antica settentrionale e
suddiviso in Faustianum e Caucinum. La valle del Sarno e i
territori attorno al vulcano erano piantati con altri due vitigni, la Vennuncola
o Numisiana, la quale dava un vino robusto ma non di particolare qualità
e che era talvolta usata come uva da tavola, e la Murgentina o Pompeiana,
vitigno di origine siciliana sulla cui qualità i pareri erano discordi. Alcuni
dei vitigni oggi coltivati sono ritenuti da molti i diretti discendenti di
vitigni dell'Antica Roma.
Interessante
notare come alle matrone romane, di solito molto libere e
"libertine", fosse severamente proibito bere vino poiché tale
privilegio era riservato esclusivamente agli uomini che avessero compiuto il
trentesimo anno di età. Il vino a volte veniva manomesso con l'aggiunta di
ingredienti che, al giorno d'oggi, faticheremmo a definire "salubri":
cloruro di sodio, gesso, profumi dalle virtù afrodisiache, acqua di mare,
scaglie di ostriche finemente tritate o, talvolta, persino la cenere, la quale
si riteneva fosse in grado di saldare e guarire più rapidamente traumi ossei.
Molto in voga era l'aggiunta di un dolcificante, il miele, il quale dava al
vino la connotazione di "vinum mulsum", a seguito di un
complesso procedimento di rielaborazione della bevanda. Grave violazione al
galateo era l'ubriacarsi, il che era oggettivamente molto difficile durante un
banchetto romano, per cui era previsto, per chi avesse esagerato, l'ingestione
di una mistura a base di polmone di capra, mandorle amare tritate e cavolo
crudo, tale da provocare il vomito e consentire dunque al malcapitato di
riacquistare la sobrietà perduta.
Le vie del vino attraverso il Nord Europa
Come accennato in precedenza, Celti e Germani non conoscevano la cultura della vite da vino: le bevande alcoliche da loro consumate erano birra e l'ancestrale idromele, considerato un retaggio divino. Per i Celti, la conoscenza con il vino avvenne tramite le tratte commerciali degli Emporia ellenici dislocati sulla costa Azzurra, ove sorge l'odierna Marsiglia-Μασσαλία. Essi ebbero stretti rapporti con gli etruschi e, nel sud della Francia, con le colonie greche stanziate sulla costa Azzurra e sulle coste spagnole del mar Mediterraneo.
La presenza di oggetti d'importazione dal Mare Nostrum, in
piccole quantità ma presenti in quasi tutti i livelli sociali, indica tanto la
qualità di vita degli abitanti quanto le relazioni a lunga distanza che questi
furono in grado d'intrattenere. Il commercio del vino giocò, in effetti, un
ruolo fondamentale nel corso deI VI e V secolo antecedenti l'era cristiana, a ovest
delle Alpi. Si palesò inizialmente nelle tombe con degli oggetti di bronzo,
esigui ma di ottima fattura, considerati alla stregua di regali diplomatici:
furono gli etruschi, per la maggior parte, a controllare questi scambi. A
partire dal 530 a.C circa Marsiglia e ben presto Ampurias-Εμπόριον in Catalogna, distribuirono
nell'entroterra i loro prodotti e nel bacino del Rodano fino al Giura.
Le importazioni di quest'epoca così eccezionale si concentrarono in un periodo
compreso tra il 530 e il 450: a Bourges, ad esempio, fu rinvenuta la
presenza di famosi vini ellenici prodotti nella zona dell'attuale Turchia. La
strade per l'importazione, per raggiungere le arterie principali del Rodano
e del Danubio, furono la costa provenzale e la basse valle del Rodano,
la valle del Po, i valichi alpini centrali in direzione del plateau
svizzero, la zona settentrionale dell'adriatico e i valichi alpini centrali in
direzione della Baviera e della Boemia.
Dal 530 circa, non
solo le residenze principesche ma persino gli insediamenti più modesti iniziano a recare tracce dell'importazione di
vino e di servizi di bicchieri, anfore, ceramica grigia meridionale e di vasi
attici che, chiaramente, si distinguono dai restanti oggetti bronzei di
produzione locale. Il vino e tutti gli utensili del banchetto aristocratico
sono indizi estremamente importanti per comprendere l'organizzazione societaria
e chiari indicatori della ricchezza circostante. Nel corso del II e del
I secolo a.C. la quantità degli scambi aumentò di molto, soprattutto i
baratti. Le anfore da vino, scoperte a Tolosa in decine di migliaia,
mostrano abbastanza chiaramente come la mentalità dei consumatori si fosse
evoluta nell'arco di due o tre generazioni. Il consumo del vino divenne un
lusso, oltre che una moda, e il modus bibendi dei Celti provocò commenti
sbalorditi da parte dei romani: i barbari d'Oltralpe bevevano il vino schietto,
puro, senza diluirlo con acqua, come il buon costume romano-greco imponeva; i
Celti erano persino ben disposti a scambiare un'anfora di vino per uno schiavo.
Il consumo di questa bevanda, iniziato come visto nel V secolo circa, si
sviluppò molto nel corso degli ma restò comunque un'eccezione e non certo la
norma quotidiana: il vino conobbe un successo davvero eccezionale in un periodo
compreso tra il 130 e il 70 a.C. e si può notare un dettaglio
davvero interessante, al riguardo. La demarcazione tra i bevitori di vino e i
tradizionalisti consumatori di idromele/birra fu puramente geografica: i primi
stanziati al sud e lungo il corso del Rodano, i secondi
nell'ovest e nel nord della Gallia. La differenza, in questo caso,
ritengo fu una pura questione di efficacia di penetrazione delle vie
commerciali, con i "bevitori di vino" favoriti dal loro
trovarsi a ridosso del transito delle grandi vie del commercio, a discapito dei
"tradizionalisti", più isolati, non ancora raggiunti dai
flussi di scambi che già coinvolsero il sud-est del Gallia.
Sugli assi
tradizionali della Garonna, del Rodano e del Reno la
penetrazione delle importazioni divenne massiccia poiché il vino rimpiazzò la
birra e l'idromele locali durante i banchetti, quest'ultimi autentici
demarcatori sociali utili alla comprensione profonda delle civiltà
celto-germaniche. Si trattò inizialmente di un mercato coloniale, poco
bilanciato, al punto da scambiare uno schiavo per un'anfora di vino e che
coinvolse non solo gli aristocratici guerrieri ma anche le frange benestanti
della popolazione, come testimoniano le quantità dei ritrovamenti e la
diffusione delle anfore. Tale mercato sopravvisse anche successivamente alla
creazione della Provincia Narbonense, divenendo la vera fortuna dei Proconsoli
ivi stanziati e che si assestò, normalizzandosi, solo da Augusto in poi,
con la definitiva "romanizzazione" della Gallia. Il consumo di vino a
cavallo tra il II e il I secolo a.C. permette di sottolineare
l'evoluzione rapida, e contraddittoria, dell'aristocrazia propria del mondo
celtico, in seguito alla romanizzazione.
I depositi di anfore testimoniano chiaramente che il vino al loro interno servì
come "moneta" per reclutare una vasta clientela sottomessa a un
padrone, un nobile aristocratico. Il consumo massiccio di vino che sostenne le
truppe guerriere della generazione di aristocratici "innovatori"
scomparve molto rapidamente, dopo la conquista: le anfore, che contenevano
senz'ombra di dubbio i vini della migliore qualità, ricomparvero nelle
sepolture dei capi della generazione successiva, capi i quali avevano servito
negli eserciti romani, palesando così la loro adesione alla cultura imperiale.
Utensili bronzei per il servizio del vino, necropoli celtico-etrusca di Monterenzio Vecchio(BO), IV-III secolo a.C.
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Il vino della Mitologia: la Bevanda degli Dei
Parlare esaurientemente del vino nell'ambito mitologico sarebbe davvero impossibile, in questa sede. Le attestazioni sono in così gran numero, e ognuna pregna di molteplici significati, che occorrerebbero giorni per disquisirne con la dovuta attenzione. Ci limiteremo ad analizzare per sommi capi la percezione che gli antichi, in particolare gli Elleni, ebbero del vino e la loro convinzione che fosse un dono degli Dei, una bevanda dalle virtù eccezionali, regalo di Dioniso al reame mortale. Narra il mito che Dioniso, durante uno dei suoi numerosi viaggi nel mondo umano, fu ospite di Icario e sua figlia Erigone, i quali lo accolsero generosamente e lo onorarono: il Dio, come ringraziamento, donò loro il vino, la Bevanda degli Dei, affinché ne portassero a conoscenza il genere umano. Icario, assieme al suo cane Mera e ad Erigone, si mise in viaggio e, nei pressi di Atene, offrì il vino a dei pastori. Questi ne bevvero senza misura e convinti che Icario avesse dato loro del veleno a causa dello stordimento provato, lo uccisero a bastonate. Mera uggiolò fino a richiamare l'attenzione di Erigone la quale, alla vista del cadavere del padre, si impiccò per il dolore: Dioniso adirato condannò le figlie degli ateniesi a morte analoga.
Coppa attica vernice nera a figure rosse, Dioniso con satiri danzanti, opera di Brigos, 480 a.C |
I cittadini di Atene, non comprendendo la ragione di tanti e tali suicidi, interrogarono l'oracolo delfico di Apollo il quale li illuminò sull'accaduto: i pastori vennero puniti con la morte e, per evitare che il "contagio" dei suicidi dilagasse, istituirono in onore di Erigone una "festa dell'altalena", dedicando le prime due libagioni, durante la vendemmia, a Icario e sua figlia. Egli divenne la stella Arturo, Erigone la costellazione della Vergine e Mera la Canicola, Canicula, la stella Sirio. Il vino, dunque, è si bevanda eccellente, dono degli Dei agli uomini d'incomparabile dolcezza ma, al tempo stesso, cela una pericolosità derivante dalla sua natura divina: non se ne può abusare, poiché non appartiene a questo mondo, o si rischia di compiere atti sacrileghi e d'incappare nell'ira degli Dei. Esemplificativa anche la narrazione di Eracle ospite del centauro Folo, figlio di Sileno. Poco prima della cattura del Cinghiale d'Erimanto, quarta tra le XII Fatiche-Dodekathlos, l'eroe fu rifocillato da Folo, il quale gli offrì carne cotta, pur essendo costumanza dei centauri consumarne cruda. Eracle chiese poi del vino per dissetarsi dopo il pasto. Folo rispose che ne aveva, custodito in un orce, e che era solito berlo con gli altri centauri, perciò non osava aprirlo: Eracle lo rassicurò, perciò Folo aprì l'orce che, come temuto, attirò gli altri centauri, i quali iniziarono un terribile combattimento contro il divino figlio di Zeus ma, sconfitti, si diedero alla fuga, riparando nella grotta di Chirone, precettori di eroi e della stesso Eracle, il quale perse la vita per mano dell'Alcide.
La natura dei centauri, umana solo in parte, non consente loro di approcciarsi correttamente al vino, il quale scatena nelle creature ibride istinti tra i più turpi e selvaggi poiché la bevanda non appartiene al loro mondo, dunque non possono apprezzarne le innumerevoli sfaccettature, così come la fatica e la dedizione necessarie per produrla. "Il vino accecò anche il centauro" era un famoso ammonimento greco per tutti coloro i quali dimenticavano quanto il vino potesse essere pericoloso ed eccedevano con il consumo. Celebre anche il mito di Odisseo il quale, prigioniero oramai da giorni assieme ai suoi compagni nella grotta del ciclope Polifemo, figlio di Poseidone, escogitò uno stratagemma per uscirne vivo. Assieme ai compagni sopravvissuti, poiché Polifemo già ne aveva mangiati alcuni, offrì vino al ciclope, il quale ne bevette fino a perdere i sensi: Odisseo, dopo aver arroventato un palo, ne spinse la punta nel singolo occhio del gigante, fino ad accecarlo completamente.
Dunque, anche in questo caso, abbiamo una creatura parzialmente umana, la quale ignora la "civiltà" e dunque la coltivazione della vite: perché lavorare l'uva, quando la si può mangiare così com'è? Tanto l'orce di Folo, quanto il vino di Odisseo erano doni divini in quanto al centauro fu regalato da Dioniso in persona con la promessa che lo avrebbe condiviso con Eracle al suo arrivo, allo scaltro figlio di Laerte da Marone, sacerdote di Apollo e discendente del figlio di Zeus e Semele: il vino di Folo era fortemente profumato, quello di Marone tremendamente alcolico, tanto che doveva essere miscelato con almeno venti parti d'acqua; ambedue, dunque, presentavano caratteristiche prettamente ultraterrene, rendendoli poco adatti al consumo da parte dei mortali. Dioniso, oltre ad aver donato il vino agli uomini, insegnò loro anche a moderarne gli effetti: il Dio istruì il Re ateniese Anfizione, figlio di Deucalione, al mescolarlo con acqua, tale da attutirne la potenza. La Divinità del Monte Nisa dunque non si limitò a recare il vino Lathikades ("che fa dimenticare le sofferenze") presso i mortali, suggerì loro anche come meglio disporne: il canone voleva che ad una parte di vino vi fossero mescolate due d'acqua, una misura particolarmente moderata e congrua.
Odisseo acceca Polifemo, cratere proto-attico, vernice rossa a figure nere, 670 a.C. circa. |
Concludendo, il vino è dunque un dono, diretto o indiretto, da
parte di un Dio, che può essere bevuto e apprezzato pienamente solo da chi
dotato di ragione e intelletto: la civiltà, la civilizzazione, il progresso
tecnologico nell'agricoltura, il rispetto della morale e delle regole, sono
fondamenti necessari per evitare di tornare alla barbarie delle epoche passate
della quale ciclopi e centauri, creature parzialmente umane con caratteristiche
fortemente "bestiali", sono una rappresentazione iconica. Il
distaccamento e il superamento, da parte dell'uomo greco, della violenza priva
di freni, dagli eccessi che esondavano in aspri combattimenti, è narrata
attraverso la storia del vino, delle regole necessarie affinché lo si possa
bere "civilmente" poiché, essendo liquido ultraterreno e dono degli
Dei, mal si addice a creature prive di raziocinio e preda di istinti
animaleschi. Il superamento dei limiti imposti al genere umano, il disconoscere
gli ammonimenti degli Dei, la tracotanza frammista a violenza, portano sempre a
epiloghi dall'esito tragico, ai quali andrà successivamente posto rimedio
interpellando oracoli e seguendo la volontà divina, volontà dalla quale gli
uomini dipendono, seppur inconsapevolmente, poiché creature giovani, imperfette
e specchio caduco di ciò che gli Immortali rappresentano.
Fonti bibliografiche:
-Marja
Gimbutas: "La civiltà della Dea" , "Dee e Dei dell'Antica
Europa" e "Il linguaggio della Dea";
-Lucio
Giunio Moderato Colummella, "De re rustica";
-Marco
Porcio Catone, "Liber de Agri cultura";
-Gaio Plinio
Secondo, "Naturalis Historia";
-Robert Graves, “I Miti Greci”;
-Alfredo Antonaros, “La Grande Storia del Vino - Tra Mito&Realtà” ;
-Olivier Buchsenschutz, “I Celti – Dal Mito alla Storia”
-Robert Graves, “I Miti Greci”;
-Alfredo Antonaros, “La Grande Storia del Vino - Tra Mito&Realtà” ;
-Olivier Buchsenschutz, “I Celti – Dal Mito alla Storia”
-Colin Renfrew, "L'Europa della Preistoria";
-Françisco Villar, “Gli Indoeuropei e le origini dell'Europa”
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