A cura del dott. Stefano Del Priore
Figura 1 - Le due principali ipotesi tassonomiche circa l'Homo Heidelbergensis - Natural History Museum of London, UK |
Per quanto manchino certe testimonianze ascrivibili al Paleolitico Inferiore, soprattutto a cagione dell'enorme lasso temporale che ci separa dal periodo in questione e anche per via di carenze in ambito di ricerche sul campo, sussistono ben pochi dubbi che il territorio tiburtino fosse frequentato, anche in questa fase più antica dell'Età della Pietra, da gruppi umani di cacciatori paleolitici, i quali hanno invece lasciato tracce ben distinguibili nelle terre limitrofe (ma di questo punto specifico ci occuperemo più avanti, in questo stesso articolo). In tal senso, è doverosa la menzione al cosiddetto "Uomo di Cretone", i cui resti venno portati alla luce durante i lavori per la costruzione di un metanodotto a Cretone, una frazione della limitrofa Palombara Sabina, nel 1982. Chi fu esattamente, però, il cosiddetto "Uomo di Cretone", tutt'oggi oggetto di studio da parte degli esperti paleontologia e archeologia preistorica? Con certezza possiamo affermare che nella sua fase più antica fu l'Homo Heidelbergensis1 (Figura 1): riguardo la sua classificazione, la comunità scientifica non si è ancora sbilanciata unanimamente a riguardo della sua classificazione. Da analisi del DNA alcuni studiosi affermano che possa essere una sorta di antenato comune di Neanderthalensis e Sapiens, con la "nostra" specie separatesi dal comune antenato all'incirca 350 - 400mila anni or sono: standi agli studi di biologia molecolare condotti presso il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania, è emerso che Neanderthalensis e Sapiens condividono il 99,5% - 99,9% delle loro sequenze, stimando che la divergenza tra i primi e i secondi avvenne circa 800mila anni fa, risultando quindi che 300mila anni fa erano geneticamente ben distinti. Tornando al periodo preso in esame in questa sede, vi è un'opulenta abbondanza di testimonianze risalenti al Paleolitico Medio, o Musteriano2, durante il quale i Neanderthalensis frequentarono le zone di pianura, collinari, pedemontane e montane, alla ricerca di prede da cacciare, armati di lane, utensili in selce (raschiatoi, punte e coltelli) e amigdale (arma in selce dalla caratteristica forma a mandorla). Nell'età successiva, denominata Paleolitico Superiore, le conoscenze in nostro possesso appaiono sicuramente superiori, grazie ai risultati provenienti da scavi e indagini condotti con regolarità nel sito della cosiddetta Grotta Polesini (Figure 2 e 3), uno dei giacimenti più importanti in assoluto di questo periodo che ha restituito industri dell'Epigravettiano Finale3 e numerose opere di arte mobiliare: essa è facente parte di un complesso di cavità (Figura 4) stagliantisi sui banchi di travertino prospicienti il fiume Aniene, assieme alle grotte Paola, Scavizzi, Stella e il riparo Dino Poceco: inoltre, nella cava di travertino Le Caprine (sulla quale approfondiremo in seguito), nel territorio di Guidonia Montecelio, nel 1866 furono riportate alla luce punte di freccia e scheletri umani inumati con il cranio rivolto verso Est, segno evidente di una prima forma devozionale del culto dei defunti; altro esempio di ritrovamenti all'aperto sono ascrivibili al Laghetto delle Colonnelle. La grotta Polesini è sicuramente la più importante tra le numerose cavità che si trovano lungo il banco di travertino lungo la riva destra del fiume Aniene, nei pressi del Ponte Lucano, e in generale nel territorio tiburtino: comprendiamone le ragioni.
La Grotta Polesini
Venne scoperta ed esplorata relativamente tardi, tra il 1953 e il 1956 in quattro campagne di scavo, da Antonio Mario Radmilli4, il quale la intitolò al suo amico che lo accompagnò in una delle esplorazioni, il Marchese Francesco Polesini di Parenzo d'Istria: il nobile cozzò la testa contro una delle rocce della cavità, riportando lievi ferite, e come "risarcimento" l'archeologo decise di intitolargli la scoperta. Operiamo una breve digressione circa la cronistoria del sensazionale ritrovamento: attorno alla fine degli anni quaranta dello scorso secolo, giunse al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Pigorini di Roma un giovane e talentuoso studioso della Preistoria, tale Antonio Mario Radmilli, nato a Gorizia nel 1922 e formatosi all'Università di Padova. Non essendo facoltoso, non potè permettersi di affittare una casa a Roma e dunque la sua scelta ricadde sulla periferia, in località Bagni di Tivoli (odierna Tivoli Terme) dove apprese dai locali dell'esistenza di quattro grotte ubicate sulla riva destra del fiume Aniene, all'altezza del Ponte Lucano: le cavità, ben conosciute dai tiburtini, erano ancora inesplorate poichè, data la vicinanza con l'impetuoso corso d'acqua, a ogni piena erano sistematicamente soggette ad allagamenti e, pertanto, vennero da sempre state considerate come non adatte ad ospitare uomini, tantomeno animali. Radmilli, ragionò sul dato circa il livello dei mari in epoca glaciale, di oltre 120 metri più basso rispetto all'attuale (la velocità con la quale crebbe è stimata in 2,5 metri ogni secolo) e conseguenzialmente anche quello dei fiumi: iniziò quindi le esplorazioni, alla ricerca frenetica di tracce di vita umana o animale di epoca preistorica.
Figure 2 e 3 – La Grotta Polesini in località Favale, Tivoli |
A seguito di alcune scoperte superficiali e di non profonda rilevanza, Radmilli propose alla Soprintendenza di finanziare degli scavi nella grotta, ricevendo un secco diniego, la quale ritenne che le prove evidenziate non giustificassero gli elevati costi stimati: l'archeologo maturò dunque l'intendimento di rivolgersi al comune tiburtino, entro la cui giurisdizione territoriale la grotta ricade, ottenendo questa volta l'assenso tanto desiderato, seppur le risorse messe a disposizione non furono cero sufficienti, nonostante la donazione della Pirelli Spa di Villa Adriana, anche a cagione delle ristrettezze econonomiche in cui Tivoli versava, così duramente colpita dal secondo conflitto mondiale conclusosi da poco. Nel mentre Radmilli era divenuto cattedratico presso l'Università di Roma "La Sapienza" e decise di investire tutto il proprio stipendio, circa 34mila Lire, per alimentare quel suo progetto tanto visionario: le operazioni iniziarono nel 1953 e immediatamente si presentò un primo problema, poichè la grotta era parzialmente invasa dall'acqua e per svuotarla vi era necessità di un'idropompa piuttosto costosa. I Vigili del Fuoco di Tivoli misero a disposizione la propria e l'anno successio, al termine delle operazioni di dragaggio, inziarono finalmente gli scavi, i quali confermarono l'esattezza delle teorie dell'archeologo istriano. Vennero scavati in totale 2,5 metri di deposito archeologico, suddiviso in 12 tagli e le datazioni affettuate su ossa presenti nel taglio numero 7 hanno permesso di ottenere i seguenti risultati: 10.090 ± 80 BP tramite l'utilizzo del C14 su collagene e 10.300 BP con il metodo della racemizzazione5 dell'acido aspartico. Quanto emerse, seppur di enorme interesse scientifico, non fu certamente una delle testimonianze più antiche della presenza umana nella Valle dell'Aniene: il primato, in tal senso, spetta ancora al giorno d'oggi al cosiddetto "Uomo di Saccopastore"6, nome dato a un meandro del fiume Aniene nei pressi del quaartiere di Monte Sacro a circa 2,5 km dalla sua confluenza con il Tevere, con un cranio rinvenuto a circa 6 metri di profondità nelle cave di ghiaia del luogo, ubicate sulla riva sinistra del fiume Aniene, nel 1929 dal Duca Mario Grazioli, proprietario del terreno; sei anni più tardi, nel 1935, due paleoantropologi, Carlo Alberto Blanc ed Henri Breuil, rinvennero un secondo cranio alla metà della profondità rispetto al precedente, assieme a ossa di Palaeoxodon Antiquus (un tipo di elefante dalle zanne dritte), Hippopotamus Maior e Rhinoceros Merkii, assieme a pochi strumenti litici, in tutto undici, di fattura musteriana piuttosta evoluta7 testimoniano l'antichità del reperto: inizialemente ritenuto inquadrabile nell'ultima fase della interglaciale Riss-Würm, circa 125mila anni fa, è stato di recente pre–datato in modo considerevole, dalla squadra di ricercatori condotta dal prof. Fabrizio Marra della Sapienza, a oltre 250mila anni fa, divendo dunque la presenza di Homo Neanderthalensis più antica mai riscontrata sul continente europeo. Il lavoro è partito dal punto in cui i ricercatori erano giunti nel 2015, quando avevano dimostrato, attraverso la correlazione tra cicli sedimentari e variazioni globali del livello del mare, che i terreni in cui erano stati ritrovati i due crani erano molto più antichi di quanto sino allora ritenuto: 250mila anni, contro gli 80mila – 125mila delle precedenti stime di età. Si è di fronte ad un intero ciclo glaciale: i sedimenti fluviali si deposero infatti a seguito della risalita del livello del mare alla fine della terz’ultima glaciazione, durante quello che viene definito Stadio Isotopico 7. La conferma è giunta dal riesame dei resti fossili animali, raccolti a suo tempo dagli studiosi insieme ai resti umani, e conservati presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Applicando il medesimo principio di correlazione geologica, i ricercatori sono stati invece in grado di stabilire un’età molto precisa per i terreni in cui gli strumenti litici e i resti umani furono ritrovati. Questi terreni si sono deposti in corrispondenza di due oscillazioni del livello del mare molto ravvicinate, corrispondenti al sub-stadio 8.5 e allo stadio 7, in un intervallo di tempo ben definito tra 295 mila e 245mila anni fa. La scoperta è importante se si considera che la stessa età di 295 mila anni è stata ipotizzata dai paletnologi inglesi per gli strumenti in selce ritrovati sui terrazzi fluviali del Solent River, poco a sud di Londra, che sono attribuiti alle prime presenze dell’Uomo di Neanderthal in Europa. Al tempo stesso, non sono stati ancora rinvenuti resti umani riferibili all’Uomo di Neanderthal più vecchi di 250mila anni in tutto il continente europeo. I resti della Valle dell’Aniene, quindi, alla luce della loro associazione diretta con gli strumenti in selce, costituiscono la più antica evidenza diretta della presenza del Neanderthalensis sul continente europeo, aprendo nuovi scenari sulle possibili tappe dell’evoluzione dell’uomo in Europa e sui flussi migratori attraverso il vecchio Continente. Gli uomini di Neanderthal, come i loro predecessori, potrebbero essere stati pertanto i protagonisti di una nuova antropizzazione dell’Europa avvenuta più di 250mila anni fa: anche allora passando attraverso un’Italia ospitale, almeno dal punto di vista climatico, dove proprio nella sua odierna capitale avrebbero stabilito una delle prime comunità. Tornado alla Grotta Polesini, lo studio scientifico del sito, la cui frequentazione risale a un periodo compreso tra 13.000 e i 10.000 anni or sono e dunque ascrivibile all'Epipaleotico, venne approfondito in quattro campagne di scavo: come riportato dallo stesso Radmilli, la grotta è composta da un ambiente esterno di circa 22 metri equiparabile a vasto riparo, con una profondità di 12, avente un corridoio interno lungo altrettanto e largo dai 3,5 ai 5,5 metri. Al termine di questo inghiottitoio naturale si taglia una piccola sala la quale sbocca in un laghetto (Figura 6), la cui profondità massima è stimata in 5 metri circa; l'apertura della cavità è rivolta verso Sud e coloro che se ne servirono poterono godere di molte ore di luce solare durante la giornata. Tale dato risulta profondamente importante da un punto di vista dell'analisi comportamentale e abitativa del sito: inoltre la posizione della grotta era essa stessa estremamente appetibile, trovandosi in un'area ricca di acqua, selvaggina e bacche, punto sicuro di stazionamento per gli uomini che discero in tempi remoti dalla lontana Marsica, dalle zone interne della Sabina e dall'Abruzzo.
Figura 4 – Il complesso di cavità naturali stagliate sui banchi di travertino prospicienti il fiume Aniene |
Figura 5 – Grotta Polesini, sezione del laghetto inerno |
Essa fu abitata dal ceppo al quale anche noi apparteniamo, ovverosia l'Homo Sapiens Sapiens, caratterizzato dall'assenza dell'arcata sopracciliare prominente (tratto peculiare dell'Homo Neanderthalensis) e dall'evidente prognatismo (dal greco antico πρό, pro, «davanti» e γνάθος, gnàthos, «mascella», letteralmente «mascella in avanti», indicante dunque una conformazione anatomica in cui l'osso mascellare risulta sporgente rispetto a quello mandibolare). All'interno della cavità vennero rinvenuti moltissimi reperti di notevole importanza, lasciati in "eredità" da questo tipo di Homo assai affine all'europeo Cro – Magnon8, tra i quali 30mila schegge9 (utensili litici10, con gli strumenti a dorso abbattuto con al primo posto per quantità, rappresentanti circa la metà del totale, seguiti da grattatoi, nuclei, bulini, schegge di ravvivamento, raschiatoi punte e punteruoli (Figura 6) e 20 quintali di ossa appartenuti ad animali mangiati con il cervo in prima posizione, rappresentato da 29.785 frammeti ossei su oltre 50mila, seguito da cinghiale, capriolo, Equus hydruntinus11, Equus caballus e un'altra trentina circa di altri animali, circa 27; troviamo anche numerosi resti di specie volatili, circa 30, abitualmente frequentanti fiumi, luoghi acquitrinosi e paludi: i luoghi prospicienti la cavità restarono paludosi almeno sino al XVI – XVII secolo del nostro evo12, apparendo inalterati per decine di migliaia di anni; tali prede furono abbattute anche grazie ad archi e dardi con assicella dotata di letale punta in selce. Ai resti ossei sopra elencati vanno aggiunti alcuni frammenti scheletrici umani, riferibili a circa 14 individui, di cui 4 di età inferiore ai 15 anni, ma non provenienti da sepolture.
Figura 6 – Gli utensili litici scavati presso la Grotta Polesini |
Le fasi climatiche sperimentate dalla grotta, durante il lunghissimo periodo durante il quale venne abitata, sono tre e ciò determinò anche la varietà di selvaggina cacciata dai frequentatori:
Clima continentale, caratterizzato da boscaglie e praterie densamente popolate da cervi, stambeccchi, caprioli e marmotte;
Clima ocenanico, in cui erano rigogliose le foreste e steppe, ambiente favorevole per la proliferazione di cinghiali ed equidi quali l'Equus hydruntinus e l'Equus caballus;
Seconda ondata di clima continentale, il quale ripopolò la zona di animali appartenenti alle cosiddette "specie fredde".
La fama della grotta, a ogni modo, è dovuta soprattutto alle straordinarie manifestazioni d'arte lasciateci dai nostri avi, con un centinaio di raffigurazioni zoomorfe incise (Figure 7 e 8), in stile naturalistico e geometrico, su ciottoli, ossa, lastrine di stalagmiti e travertino: bovidi, canidi, suidi, cervidi, equidi, leporidi; presenti anche ciottoli dipinti con ocra13 e tracce della stessa, con la quale gli uomini del tempo erano soliti dipingersi il corpo, dopo averla impastata assieme al midollo osseo delle prede uccise. Fra tutti spicca il celebre "Ciottolo di Lupo" (Figure 9 e 10), ciottolo calcareo lungo 5,22 cm e largo 4,17, rappresentante un lupo (o una volpe, comunque un canide) come visto dall'alto, nell'atto di essere abbattuto o già riverso al suolo, il cui corpo è ricoperto di ferite, indicate da numerosi fori circolari praticati sul sasso, avente sul bordo 41 tacche riunite in gruppi diversi: ci è ignoto se tali segni rappresentassero il numero di animali uccisi di questa particolare specie, il che rennderebbe il Ciottolo di Lupo una sorta di amuleto o talismano il cui utilizzo si protrasse nel tempo. La raffigurazione ebbe molto probabilmente una valenza cultuale volta a propiziare, tramite un rituale di magia simpatica, la felice riuscita della caccia, e sarebbe interessante comprendere se tali fori vennero realizzati in una sola volta o in più occasioni nel corso del tempo; più recenti studi sarebbero più propensi nel credere che i fori circolari presenti sul famoso ciottolo del lupo non siano frutto di attività antropica ma di un processo del tutto naturale che coinvolse anche molti altri materiali rinvenuti all'interno del deposito, ovvero la dissoluzione chimica del calcare (di cui il ciottolo è composto) causata dalle frequenti infiltrazioni delle vicine acque del fiume Aniene all'interno della grotta.
Figure 7 e 8 – Incisioni zoomorfe e geometriche su ciottoli, lastrine e ossa – Grotta Polesini, Museo delle Civiltà, Rom |
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Una seconda scena graffita, questa volta su di un osso di bacino verosimilmente appartenuto a un cervo, è indubbiamente di estremo interesse e rappresenta anch'essa attività predatoria, per la precisione una battuta di caccia, nella quale appaiono evidenti l'animale colpito da una lancia o una freccia, circondato da uomini armati di clava, archi, frecce e lance: anche in questo caso possiamo supporre un rituale di magia venatoria tendente a ottenere l'uccisione reale dell'animale durante la battura di caccia che si sarebbe attuata di lì a poco, pratica ben conosciuta e attestata presso quelle genti che di caccia e pesca fanno la loro fonte principale di sostentamento, oggigiorno ancora utilizzanti utensili e armi molto simili a quelle in uso durante il Paleolitico Superiore; è plausibile ritenere dunque che l'arte, in questa epoca, fosse concepita anche in funzione di uno scopo prettamente razionale e pratico, legato a un'elaborazione magico – religiosa della vita, e non solamente volto al soddisfacimento del senso estetico in senso stretto. A tal proposito, ci accingiamo ad analizzare un caso piuttosto peculiare, altra eccezionalità del nostro sito preistorico: la Lepre della Grotta Polesini (Figura 11 e 12).
Figura 11 – Le rappresentazioni di lepri rinvenute nella Grotta Polesini - Museo delle Civiltà, Roma |
Su di un minuto frammento osseo, fu incisa una testa di lepre rappresentata, secondo il Radmilli, nel tipico atteggiamento assunto in stato di allerta, con le orecchie diritte e rivolte in avanti, come a seguito dell'aver percepito l'approssimarsi di un pericolo. Questa testa di leporide è stata incisa su di un frammento di costola di un mammifero di medie dimensioni, attraverso l'ausilio di un utensile in selce, tipo bulino14, mediante brevi tratti paralleli, la cui profondità appare variabile, ritraenti l'animale di profilo evidenziando dettagli come l'occhio, il pelame e le vibrisse nella porzione anteriore del muso: le analisi condotte con il microscopio hanno permesso di porre l'accento sulle modalità di esecuzione e la sequenza dei gesti messi in atto per riprodurre l'animale rivelando, ad esempio, che il muso venne inciso prima delle orecchie. La lepre è un soggetto abbastanza desueto nell'arte figurativa paleolitica, dunque vien naturali domandarsi il perchè di questa scelta assai singolare e relativamente rara: data l'enorme distanza che ci separa dalla concezione dell'ignoro artista, potremo solamente formulare ipotesi e pensieri. Come poc'anzi analizzato, le rappresentazioni naturalistiche e faunistiche in generale sovente sono state, e vengono tutt'oggi, intepretate come propiziatorie al soddisfacimento di un dato scopo, un voler plagiare la realtà circostante alle proprie necessità o desideri, un rituale di magia simpatica volto al beneaugurare una battuta di caccia nei confronti di un dato gruppo di animali: dunque, se tale scopo trova certamente la sua valenza nei confronti di grandi erbivori quali cervidi o pachidermi lanosi come i Mammut, oppure per predatori come i lupi o gli Smilodonti, prede che potevano risultare estremamente difficili da cacciare o mortalmente pericolose, questo ragionamento non sembrerebbe trovare immediato riscontro per un piccolo e innocuo mammifero come la lepre. Considerando la valenza di questi ritrovamenti all'interno del contesto in cui furono ritrovati, poichè sarebbe quantomeno rischioso addentrarsi in parallelismi con medesime scoperte, è possibile porre in raffronto il numero delle raffigurazioni dei diversi animali all'interno della Grotta Polesini con la frequenza delle varie specie nel campionamento faunistico dato dai residui ossei rinvenuti: il cervo, ad esempio, rappresentante circa il 70% dei reperti fossili, è effettivamente il più rappresentato con 5 raffigurazioni; gli Uri15 sono moderatamente esigui come numeri di resti, non oltre il 2% del totale, ma nonostante ciò sono state individuate 4 raffigurazioni, il medesimo numero della lepre (quella qui presa in esame più altre 3 (Figura 11), le cui ossa sono però ancor più rare, circa l'1%. Per quanto concerne il grande bovide preistorico, potremmo supporre che la discordanza circa il basso numero di resti di contrasto all'elevato numero di raffigurazioni dipenda dalla grande quantità di carne ricavabile da una singola preda, circa 400 kg, mentre per la lepre il dato è oggettivamente poco comprensibile, poichè sarebbero occorsi circa 40 esemplari per fornire il medesimo quantitativo di carne di un cervo, cacciati invece a centinaia nei dintorni della grotta paleolitica tiburtina.
Figura 12 – La Lepre della Grotta Polesini, incisione su osso - Museo delle Civiltà, Roma |
Questa singolare anomalia potrebbe forse suggerire, riallacciandoci alla riflessione di cui sopra circa la funzione intrinseca dell'arte preistorica, che la lepre potesse essere investita di una valenza simbolica piuttosto importante per le genti del tempo, ben oltre quella del "semplice" sostentamento nutritivo, lasciando intendere quindi una forma di cultualità devozionale finora ignota. Sono inoltre stati trovati numerosi canini atrofici di cervo forati, di cui molti decorati con tacche e conchiglie di Ciclonassa, di Dentalium e di Columbella rustica: stando anche a quanto sopra descritto, è difficile stabilire gli elementi che avevano valore cultuale, o che comunque venivano usati come amuleti, da quelli invece utilizzati come ornamenti personali. Altra testimonianza di notevole interesse è rappresentata da una lastrina calcarea, incisa tramite ausilio di un bulino, su cui è rappresentato un individuo verosimilmente giustiziato: in essa è chiaramente distinguibile una gamba umana trafitta da molteplici dardi e ciò documenta un nuovo elemento distintivo dell'arte preistorica, quale forma di comunicazione, "memoria" di trasmissione, arricchendo la nostra conoscenza circa il repertorio rappresentativo dei nostri antenati che popolarono queste terre. Il termine convenzionale utilizzato per definire le testimonianze rinvenute nella Grotta Polesini, ovverosia "Romanelliano", per quanto esista una discordanza al riguardo: Georges Laplace, erudito e noto studiodo francese, si riferisce a questo tipo specifico di insieme culturale utilizzando il termine Tardo–Gravettiano16. Alcuni autori hanno preferito riferirsi alle testimonianze della cavità tiburtina utilizzando tale definizione, dove il Radmilli optò invece per affidarsi al vecchio Romanelliano, coniato a suo tempo in onore dei notevolissimi ritrovamenti avvenuti presso la già menzionata grotta Romanelli a Otranto, ove fu portata alla luce una bellissima successione di industria presentante delle caratteristiche peculiari riscontrabili anche in Grotta Polesini e che si ravvisano in molte altre località: alla grotta delle Prazziche, la Romanelli, a Martinafranca e grotta Monopoli per quanto concerne il sud Italia, il riparo di Villa Salvini di Terracina, grotta Iolanda a Sezze (Latina) e Polesini al centro del Paese, nel cuore della regione dove convergette tale industria: i portatori di questa cultura provennero probabilmente dal nord e in Puglia, a Otranto, espressero il massimo fulgore della loro sapienza. Il Romanelliano è immediatamente distinguibile dai minuti grattatoi di forma circolare, il cui utilizzo è certamente problematico ma inconfondibile, da dei particolari bulini e da lame, lamelle a dorso e punte di tipo "gravette": si può affermare che l'insieme dei manufatti sia all'insegna del microlitismo. La stratigrafia della grotta ci ha fornito indizi utili alla compresione degli eventi occorsi durante l'ultimo periodo glaciale, nel cosiddetto Tardo–Glaciale estesosi tra il 15mila e il 10mila anni da oggi: vi furono delle oscillazioni climatiche in questi millenni, con una più fredda denominata Drias 1 della durata di 2 millenni, seguita da un periodo più temperata e da un nuovo irrigidimento chiamato Drias 2, al quale subentrò una fase più calda denominata Allerød17. Il Lazio di allora era certamente più vasto dell'attuale, grazie alle emersioni wurmiane di migliaia di chilometri quadrati, ed era attraversato da numerose mandrie penetranti dalla Valle del Tevere, provenienti dalla Maremma Tosco-Laziale, sino a sboccare nella conca dei Monti Cornicolani: gli uomini primitivi seran soliti stanziarsi in posizioni dominanti, sui rilievi prospicienti le grandi pianure, su terrazzi fluviali, in prossimità delle pozze d’acqua, delle sorgenti e nei pressi dei laghi.
Marcello Zei, per molti anni compagno di ricerche del Radmilli, così si espresse al riguardo:
"Anzitutto ho un ricordo di grotta Polesini che è stata una delle mie prime esperienze fatte con il Prof. Radmilli. Dovete pensare che negli anni immediatamente dopo la guerra il Prof. Radmilli era semplicemente un assistente del museo Pigorini che avevo conosciuto casualmente durante una mia visita a Via del Collegio Romano, a Roma, sede allora del museo. Decidemmo di fare una sistematica esplorazione di tutta la valle dell’Aniene. Risalimmo la valle del fiume a partire dalla confluenza col Tevere, dalla zona di Saccopastore. Oggi in quel luogo esiste via di Saccopastore, con palazzi di dieci piani, allora si riconoscevano ancora le celebri ghiaie dove Blanc e Breuil avevano reperito i resti dei due anteneandertaliani di cui molto si è parlato. Noi partimmo di lì e cominciammo a risalire la valle dell’Aniene fino a Vicovaro e Riofreddo. Partimmo da queste parti, dove abitava Radmilli, e la ricerca ci imponeva marce di molti chilometri. Io venivo a prenderlo con l’autobus di linea perché naturalmente non avevamo altri mezzi e camminavamo fino a sera. Finalmente acquistai una “topolino” con la ruota di scorta fuori, ogni tanto ci lasciava per strada a causa della rottura delle balestre... Insomma andavamo in giro all’avventura per cercare questi insediamenti antichi e per poter fare una storia del territorio. Ricordo quando vedemmo la grotta Polesini, che allora non si chiamava così, ma Grotta di Ponte Lucano. Fui subito portato a escludere che potesse rivelare tracce dell’uomo perché l’Aniene in piena invadeva l’interno della grotta. Era logico pensare che le inondazioni del fiume avessero portato via tutto, tanto è vero che dissi a Radmilli: “non troveremo mai nulla, in quella grotta”. Lui, che era un grande osservatore, si mise invece a riflettere, di fronte a un buon bicchiere di vino, sulla morfologia e l’antica idrologia della zona. Guardava il ponte romano così basso e conoscendo l’abilità dei romani nella costruzione di opere idriche, acquedotti, ponti, si chiedeva se fosse mai possibile che i romani l’avessero fatto così basso. Che cosa era successo? Certamente un fenomeno notevole di subsidenza. Il territorio si trasforma in maniera sensibile nel tempo creando difficoltà a ricostruire gli ambienti. Radmilli riprese la ricerca supponendo che nel Paleolitico la grotta si trovasse molto più in alto e fosse quindi asciutta e abitabile. Cominciò a scavare, mi invitò ed andammo sotto per circa un metro e mezzo senza trovare nulla, soltanto sabbia, e poi cominciò a risorgere l’acqua del fiume. Sconfortato dissi: “Mario questo ti prova che qui non ci può essere niente”. Lui caparbiamente continuò attivando una pompa per svuotare la trincea e a due metri di profondità apparvero i primi reperti. Il contesto fu in seguito rivelato in una stratigrafia di ben 12 livelli di 20 cm ciascuno ed in questi orizzonti vi è racchiusa una bella fetta della storia di questa regione”.
Nel biennio 1950 – 52 il Radmilli aveva già esplorato il terrazzo travertinoso nel quale si apre il complesso di grotte sopra riportate, partendo dal ponte dell'Acquoria sino al Lucano, collezionando numerosi manufatti silicei risalenti al Paleolitico Superiore e segnalando circa 150 tra essi18 rinvenuti in un tratto di circa 3000mq ove l'Aniene opera una curva a gomito, direzionando il suo corso verso Sud. A tal riguardo, lungo i fianchi travertinosi che si affacciano sul fiume, a valle delle cascate ma a monte rispetto alla Grotta Polesini, è possibile individuare numerose grotte e grotticelle le quali, però, non mostrano tracce visibili di frequentazione umana: a ogni modo, un paio di km più a monte rispetto alla famosa cavità, sempre ubicata sulla riva idrografica di destra, vi è una piccola grotta aggettante sul corso d'acqua che potrebbe restituire materiale preistorico di interesse. Essa appare quasi del tutto invasa da terriccio e detriti ma nel terreno antistante sono stati raccolti a livello superficiale un nucleo e una scheggia attribuibili al Paleolitico Superiore e quindi appare evidente come potrebbe essere degno di nota un approfondimento circa il sopramenzionato riempimento, attraverso regolari operazioni di approfondimento. A seguito degli scavi eseguiti tra il 1953 e il 1956, come abbiamo avuto modo di analizzare, il sito della Grotta Polesini è stato vittima di manomissioni e intrusioni da parte di "ricercatori" clandestini., i quali hanno concentrato le loro azioni prevalentemente nei pressi del grande masso centrale posto all'ingresso dell'antro, precisamente alle sue spalle. Fortunatamente, viste e considerate le caratteristiche intrinseche del riempimento di questa zona, i danni prodotti dalle attività di scavo furono di lieve entità; ben maggiori, ironia della sorte, furono quelli provocati dal prof. Carmelo Petronio nel 1974, allora Conservatore del Museo di Paleontologia dell'Università di Roma "La Sapienza", allorchè decise di indagare la parte esterna. Egli aprì nel terreno una trincea misurante quattro metri per quattro, la quale finì con l'intaccare la cosiddetta trincea E del 1956 tramite la quale era stata indagata solamente la parte più superficiale del riempimento, e si estese anche verso il deposito più esterno. In questa parte specifica, le acque del vicino fiume non avevano asportato il riempimento come nella zona indagata nel '53 – '56 per cui, a seguito della rimozione di un esiguo strato di sabbia fluviale, apparve immediatamente lo strato interessato da attività antropiche. L'unico fine degli scavi del prof. Petronio era il recupero di materiale paleontologico e dunque non si curò minimamente di seguire l'andamento stratigrafico, procedendo nello scavo ammassando materiale e lavandolo nel fiume, recuperando da esso solamente le ossa di suo interesse, attuando un vero e proprio sterro di deprecabile qualità: ovviamente seguirono aspre proteste, nel dicembre del 1977, con il Petronio che si difese affermando che una mozione presentata tre anni dopo il termine delle ricerche era di per sè poco significativa, specificando inoltre che le numerose pubblicazioni scientifiche in suo possesso, tra le quali spiccava quella del prof. Radmilli che gli aveva consentito di svuotare una trincea precedentemente aperta da quest'ultimo, ricolma di ossami distrutti, così da poter giungere a strati di interesse paleontologico senza intaccare minimamente i circostanti giacimenti paleoetnologici. A ciò occorre operare un paio di precisazioni: la prima è che la totalità delle pubblicazioni circa la Grotta Polesini portano esclusivamente la firma del Radmilli, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare trattandosi di un sito mondialmente famoso, mentre la seconda solleva perplessità su come il Petronio possa non aver distinto il terreno di risulta appartenente a una vecchia trincea dal terreno rimosso in situ, soprattutto arrivando agli strati di interesse paleontologico senza intaccare quelli paleoetnologici, visto e considerato che il giacimento osseo è costituito dai resti dei pasti consumati dai cacciatori del Paleolitico Superiore i quali utilizzarono questa cavità specifica, e altre circumvicine, come abitazione a carattere continuativo per oltre un migliaio di anni. Il danno archeologico al sito fu notevole, poiché venne asportato lo strato più superficiale e recente del riempimento, solo scarsamente documentato (durante gli scavi del 1953 - 56) da un minuto lembo cementato sulla parete in corrispondenza della trincea B, sia perché non venne documtata alcuna operazioni stratigrafica: per finire, molto del materiale rimosso, il quale sarebbe stato un prezioso oggetto di studio utile al documentare l'evoluzione dell'industria litica in questo luogo, venne disperso nel pianoro antistante e nelle acque dell'Aniene. Tra i materiali superstiti, sparsi attorno alla trincea, vi sono alcuni esempi di arte mobiliare degni di menzione, tanto perchè consentirono di allargare l'orizzonte delle conoscenze relative all'antro, quanto perchè fra esse vi è una raffigurazione nuova, inedita, non solo per quanto concerne la Grotta Polesini stessa ma anche rispetto ad altri depositi del Paleolitico Superiore e del Mesolitico scavati in Italia. I sei reperti sono ascrivibili nei quattro gruppi in cui, a suo tempo, furono raggruppati i prodotti di arte mobiliare della Grotta Polesini, vale a dire:
Oggetti dipinti con ocra;
Oggetti con incise raffigurazioni di tipo geometrico;
Oggetti con incisioni di tipo naturalistico;
Oggetti incisi la cui interpretazione risulta dubbia a causa del loro cattivo stato di conservazione, dovuto alla rottura degli stessi subito dopo l'espletamento del rito magico–religioso, come per altro già evidenziato dal Radmilli nel 1974.
Gli oggetti appartenenti al primo gruppo ("Oggetti dipinti con ocra") sono quelli che risultano maggiormente danneggiatti dalla lunga permanenza nell'acqua, con il risultato che la colorazione rosso ocra si è conservata solamente in quelli provenienti dalla parte più elevata del deposito, non bagnato dalla falda acquifera: non è peregrino supporre che tale categoria fosse rappresentata da un numero maggiore rispetto ai 18 ciottoli rinvenuti durante il triennio di scavi del '53 – '56 ai quali vanno aggiunti i due di recente scoperta, per un totale dunque di 20. La protratta immersione nelle acque ha completamente eroso la superficie di ben 5 centinaia di ciottoli, arrivando persino a provocare, su di alcuni, dei piccole concavità di forma circolare; i 18 ciottoli "originari" appartengono alla parte superiore del deposito sovrastante la falda acquifera e si può affermare con un certo qual grado di certezza la provenienza del ciottolo con figure umane schematizzate, ovverosia la porzione più recente del riempimento, mentre il secondo ciottolo con il color rosso non distribuito in modo uniforme, su di una delle facce, è altamente plausibile che sia stato a contatto con l'acqua per un periodo di tempo molto esteso o che comunque provenga da quella parte del riempimento prospiciente la falda e dunque imbibito. Il primo dei due è composto da calcare grigiastro, di forma ellissoidale estremamente allungata e rotto a una delle due estremità, risulta lungo poco meno di 4 cm (3,8), è largo 2,4 e spesso circa 1, con una macchia di ocra rossa di forma ovalare su di uno dei vertici, che non invade le due superfici piane: su di una appare, in sequenza, una coppia di figure umane. Trattasi di raffigurazione altamente stilizzata, nella quale corpo e arti vennero rappresentati mediante il semplice utilizzo di linee, dove nella seconda figura è presente anche la testa, ottenuta mediante una macchia di colore rosso perfettamente circolare: a tal riguardo è doveroso menzionare che durante gli scavi effettuati negli anni '50 venne rinvenuto un ciottolo decorato con macchie rossastre posizionate lungo i due poli, assolutamente non dissimile da quanto sopra descritto e dunque, a fronte di ciò, non si può escludere che anche nel campione più recente qui preso in esame fosse presente una seconda macchia andata dispersa con la rottura in epoca antica. Il catalizzatore di maggior interesse, come è lecito aspettarsi, è costituito dalla raffigurazione delle due figure umane, la cui disposizione sulla superficie del ciottolo dovette dipendere sia dal limitato spazio a disposizone, sia dalle rigide e schematiche esigenze di un ritualità cultuale le cui ragioni, al giorno d'oggi, ci appaiono oscure e insondabili: raffigurazioni antropoforme al pari di questa trovano agili confronti con rappresentazioni proprie del periodo Neolitico, piuttosto che con figurazioni umane appartenenti all'arte del Paleolitico Superiore e del Mesolitico. Per quanto ci concerne possiamo escludere quasi certamente, però, l'attribuzione di questo ciottolo alla Nuova Età della Pietra perchè, come già noto da molto tempo, nel deposito della Grotta Polesini le tracce di culture neolitiche sono scarse e poco significative: ciò conferma quanto teorizzato dal prof. Paolo Graziosi19, nel 1980, ovverosia che nei grafemi paleo ed epipaleolitici era già possibile rintracciare tracce di schematismi e astrazioni che troveranno poi nell'arte neolitica fiorescenza espressiva; il ritrovamento della grotta tiburtina non trova, al momento, alcun raffronto nelle figure umane del Paleolitico Superiore e del Mesolitico italiani, rappresentando dunque un autentico unicum paleoantropologico, ed è certamente da inquadrarsi al momento finale dell'insediamento dei cacciatori nell'antro, proprio quel climax culturale che, sfortunatamente, non fu possibile studiare né accertare tramite gli scavi del '53 – '56. Il secondo ciottolo, di colore grigio rossiccio, è lungo 5,8, largo 3,7 e spesso 0,8 cm, presentante una netta rottura a una delle estremità con asportazione di circa metà della superficie di una delle due facce; su quella opposta è presente una macchia di ocra che, originariamente, è ragionevole supporre fosse molto più estesa tale da occupare l'intera superficie poichè, qua e là, sono presenti numerose tracce di colore, poste al di fuori di quella che appare come la figura di un bovide, conseguenzialmente alla perdita del colore causata da una lunga esposizione con l'acqua. Lo stile e l'uso della pittura utilizzati per la rappresentazione del bovide non trovano parallelismi nei contesti artistici in seno al Paleolitico Superiore italiano e, ancor di più, tutto ciò è completamente estraneo a quelle che sono le manifestazioni artistiche della fase romanelliana alla quale appartengono le estrinsecazioni culturali della Grotta Polesini. Appartiene al secondo gruppo ("Oggetti con incise raffigurazioni di tipo geometrico"), invece un ciottolo di calcare rossiccio screziato con venature biancastre, dalla forma irregolarmente circolare, avente gli assi di 3,9 e 3,6 cm, con spessore di 1,5 cm e mostrante, sulla porzione centrale di una delle facce, una figura geometrica incisa mediante linee sottili: l'esecuzione risulta essere piuttosto trascurata se confrontata con quelle delle altre figure geometriche scoperte nel medesimo deposito del sito. Trattasi di una figura irregolarmenre romboidale, solcata da una coppia di fasci composti da linee estremamente sottili le quali, a un'estremità, oltrepassano lievemente uno dei lati del quadrilatero, mentre nell'altra si approssimano al margine del ciottolo dove, sulla parte sinistra, spicca una coppia di tacche: quest'ultimo motivo decorativo è abbondantemente documentato nell'arte mobiliare del riparo preistorico tiburtino e anche la figura a rombo, seppur altamente irregolare, non rappresenta di certo una novità poichè esiste un ciottolo nel quale, sopra a una faccia, fu incisa una fila di quattro rombi rappresentati molto accuratamente, riempiti esili linee di andamento parallelo. Per quanto concerne il terzo raggrupamento, esso ci è noto grazie a una lastrina di calcite, giunta a noi avente un'incisione zoomorfa di stile puramente naturalistico; la massima lunghezza è stimabile in 7,2 cm, la larghezza in 4,7 e lo spessore in 0,6: non siamo in grado di affermare quale dimensioni avesse il reperto allorché la figura fu incisa, anche se riteniamo abbastanza verosimile che non dovesse essere granché dissimile poichè, per stile e proporzioni, la figura è annoverabile in quel gruppo di oggetti in cui veniva rappresentata solamente la testa della creatura, secondo la concezione magico – religiosa per cui, raffigurando esclusivamente la parte più importante dell'animale, si aveva il medesimo risultato ottenibile da una a figura intera. In questo insieme di oggetti di arte mobiliare proveniente dalla Grotta Polesini spicca una testa di bovide, incisa anch'essa su di una lastrina di calcite, fratturata su tutti e quattro i lati, il che sta evidentemente a significare che il suo scopo originario era giunto al termine: all'esemplare poc'anzi illustrato è probabile che toccò medesima sorte dato che è possibile, infatti, distinguere solamente la parte superiore della testa e parte della cresta sommitale del dorso dell'animale. L'incisione utilizzata per ottenere figura è ben marcata, larga, piuttosto profonda, di sezione concava e, come riscontabile in altri esempi ivi provenienti, l'occhio è di forma ellittica e aperto verso una delle estremità; il dorso è evidenziato dal pelame, realizzato con una fila di sette tacche. L'andamento della linea demarcante la fronte, disposizione e forma delle orecchie potrebbero lasciar pensare di trovarsi in presenza di un carnivoro ma ipotesi è confutata dalla presenza del pelame dorsale, il che indica piuttosto un equide, realizzato in modo dissimile se paragonato alla criniea di auna coppia semplari rinvenuti nel sito: le tacche sono molto rade ma, essendo molto marcate, ottengono il medesimo effetto di "pienezza" degli altri due. La forma delle orecchie, infine, è tondeggiante e non appuntita come negli asinidi delle steppe (Equus Hydruntinus), dunque ci consente di individuare piuttosto facilmente un cavallo (Equus Caballus). Il quarto e ultimo gruppo ("Oggetti incisi la cui interpretazione risulta dubbia a causa del loro cattivo stato di conservazione, dovuto alla rottura degli stessi subito dopo l'espletamento del rito magico – religioso, come per altro già evidenziato dal Radmilli nel 1974") conta due oggetti, vale a dire un frammento di selce con cortice mostrante incisioni e un secondo oggetto di eguale frammentazione, corrispondente alla porzione centrale del ciottolo calcareo, largo 4,6 e spesso 1,5 cm, avente una faccia interessata da esigue e sottili linee con sette tacche che giungono a occupare parzialmente il margine, mentre è plausibile che la restante faccia fosse decorata con un motivo complesso eseguito con esili linee. Resta piuttosto enigmatica la valenza della coppia di linee di andamento verticale, decisamente marcate, seppur non è peregrino immaginare che riproducano un arto di animale o una parte di figura umana; facilmente distinguibili su ambedue i lati, rispetto all'incisione centrale, figure ovalari con linea mediana che prosegue verso l'esterno. Questo elemento specifico non rappresenta una novità e fu individuato, negli scavi del Radmilli nel '53 – '56, su tre schegge ossee e all'epoca interpretato come l'impennatura di dardi, mentre nel qui presente esemplare bisogna piuttosto vedervi del fogliame; risultano tutt'oggi non comprensibili le incisioni, alcune aventi tratto piuttosto deciso, presenti sul cortice, le quali dovevano probabilmente completare una figura ricoprente la superficie di un ciottolo di selce dalla forma ovale, da cui fu ricavata la scheggia mutata in raschiatoio lungo uno dei margini: anche in questo caso ci troviamo in presenza di un esempio di riutilizzo per fini pratici di un oggetto, precedentemente avente funzione magico – religiosa, una volta che l'originaria "destinazione d'uso" aveva cessato la sua ragion di esistere20. Ad prima fase di tipo rituale, direttamente collegata all'attività artistica stricto sensu, seguì una seconda fase in cui l'oggetto perdette completamente il suo valore di talismano, divenendo utile per operazioni di tipo quotidiano alla stregua di un qualunque altro utensile. In conclusione di questo focus sulla Grotta Polesini, possiamo affermare che dei sei oggetti di più recente scoperta e qui disaminati, cinque non aggiunsero nulla di nuovo alle conoscenze relative all'arte mobiliare del sito, mentre il ciottolo con figure umane dipinte conferma quanto già avanzato dal prof. Graziosi, ossia che già nella cultura Romanelliana è possibile riscontrare quegli elementi distintivi che, partendo da un'associazione di oggetti connotati da arte realistica e geometrica, sfoceranno in seguito in astrazioni e figure schematizzate, aventi il climax nella Grotta delle Veneri a Parabita21 con la produzione esclusiva di raffigurazioni geometriche. Nel giugno del 2010 vennero autorizzati delle indagini di archeologia preventiva da parte della Soprintendenza Archeologica per il Lazio, le quali si snodarono per alcune decini di metri lungo il greto del fiume antistante l'ingresso della Grotta Polesini, attraverso le quali vennero individuati sette distinti contesti spaziali e stratigrafici: gli scavi restituirono circa 4386 reperti di industria litica, dei quali 583 (ergo circa il 13%) sono stati classificati come strumenti, a riprova dell'abbandonte presenza di materiale litico nel sito; ritrovati anche quatttro blocchetti di ocra e di ricca campionatura faunistica. Le indagini hanno confermato quindi, ulteriormente e in tempi più recenti l'assoluta importanza del sito nel panorama del Paleolitico Superiore laziale e Mediotirrenico; il complesso litico rinvenuto durante le indagini del 2010 presenta una certa differenza nelle percentuali22 degli oggetti presenti, se paragonato a quello recuperato dal deposito degli anni '53 – '57. La discrepanza statistica tra le recenti indagini e i vecchi scavi non ha ancora trovato soddisfacenti spiegazioni, poichè il recupero del 2010 non è stato operato seguendo il metodo stratigrafico estensivo quanto, piuttosto, operando in modo emergenziale e limitato. Indagini future nell'area antistante la cavità avrebbero potuto chiarire se le differenze fossero apparenti oppure dovute ad aree interessate da diverse vocazioni "economiche", ove un'ineguale quantità di strumenti fu utilizzata per svolgere dissimili attività, differenziate per ogni settore; non è certamente da escludere l'ipotesi di essersi trovati di fronte a un contesto pluristratificato caratterizzato da momenti di frequentazione proprie di fasi cronoculturali ben distinte. La notra narrazione circa questo antichisimo sito paletnologico e paleoantropologico si conclude in modo assai triste: la costruzione di una centrale idroelettrica di fronte l'ingresso della grotta, resasi possibile poichèlo Stato ha lasciato che questo complesso di grotte e cavità , così importante, rimanesse di proprietà privata e nello specifico dell'Enel, ha causato l'allagamento del pianoro antistante e, contestualmente, un danno notevole al sito archeologico, la cui importanza e valenza avrebbe meritato certamente una considerazione ben maggiore. I reperti, attualmente, si trovano in una sezione appositamente dedicata del Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini nel quartiere EUR di Roma (dal 2016 confluito assieme ad altre strutture nel Museo delle Civiltà).
Le Caprine
Il sito delle Caprine si staglia ai margini del bacino delle Acque Albule ed è costituito da un pianora dalla forma allungata, elevantesi dal terreno per 100 metri scarsi circa, originariamente racchiuso in una coppia di fossi oggigiorno cancellati dalla moderna viabilità. Nella zona giganteggiano possenti cave di travertino il cui sfruttamento risale al XVI secolo dell'evo moderno e i cui materiali furono utilizzati, tra l'altro, per l'edificazione dell'attuale Basilica di San Pietro in Roma; dal secolo successivo, nella medesima cava, è ampiamente documentata attività elegata alla produzione della calce. I primi ritrovamenti risalgono al 13 gennaio 1859, data in cui Carlo Rusconi, allora parroco di Montecelio, raccolse nel "travertino rosso", presso la cosiddetta "Cava del Bernini" alle Caprine, denti umani associati a denti e ossa di iene, cani, cinghiali e altre specie di differenti animali, inizialmente datati come quaternari ma dal Rellini23 classificati, in seguito, come appartenenti a una sepoltura in sentina24 di età eneolitica. Nel 1873, sempre presso Le Caprine, in località Muro Lungo, il Ceselli raccolse in un'altra sentina ricavata nel travertino, quattro crani e varie ossa umane, frammentazione fittile, alcune punte di freccia, un'ascia e un raschiatoio in selce, ossa di pecora, cervo e carbone fossile, il tutto da lui stimato come risalente al Neolitico; tra gli altri oggetti, di particolare interesse è la descrizione di un'ascia, bronzea attualmente custodita presso il Museo di Santa Scolastica, databile al principio della Media Età del Bronzo (1500 – 1200 a.C.) ma non rinvenuta nella grotticella, quanto nelle immediate prospicienze della stessa: "...una necropoli dell’epoca neolitica in cui ho rinvenuto ossa umane mescolate ad armi in silice, come pure oggetti in bronzo ed altri del principio di questa epoca di bronzo, fra i quali un’ascia ad ali o Paalstab,molto grossolana e ricurva quasi di pieno rame, che ho rinvenuto nelle vicinanze della medesima”: l'ascia, infatti, risulta essere decisamente più recente se paragonati ai reperti scoperti invece all'interno della grotta. Nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo avvenne la scoperta, da parte del Radmilli, delle industri litiche del Paleolitico Medio e del Neolitico avvenute, nella medesima zona, a livello superficiale: i manufatti appartengono per la maggior parte a quest'ultimo periodo ma sono rintracciabili anche testimonianze musteriane, con la zona che venne considerata un naturale attrattore per le genti preistoriche sia a cagione dell'abbondanza di acque che della vicinanza del sentiero che, molto tempo dopo, divenne la Tiburtina Valeria, ovverosia una via di transito, la quale seguendo la Valle dell'Aniene poneva in collegamento la pianura laziale con i valichi appenninici. Le ricerche condotte da Mari e Sperandio sul finire degli anni '70 hanno consentito l'individuazione di materiali risalenti al Paleolitico Medio, all'Eneolitico e ai principi dell'Età del Bronzo, mentre è più recente la scoperta, da parte dei medesimi studiosi, di frammenti ceramici appartenenti alla cultura "appenninica", attualmente inediti, rinvenuti alle pendici del pianoro. Durante i primi anni '90, operazioni di sbancamento resesi necessarie per l'edificazione di una coppia di edifici sull'altipiano delle Caprine, hanno posto in evidenza una sequenza stratigrafica del Bronzo sovrastante un livello caratterizzarto da materiali appartenenti all'Epigravettiano: nel complesso, dunque, il sito delle Caprine ricopre un'importanza documentale piuttosto spiccata, avendoci restituito testimonianze materiali comprese tra l'Epigravettiano e il Bronzo Finale, confrontabile nel Lazio con il solo sito di Palidoro25, presentate una situazione similare dal punto di vista di frequentazione cronologica dell'area. L'Epigravettiano è rappresentato da lamelle a dorso, tra cui vi è un'alta percentuali di dorsi parziali e doppi, lamelle troncate, grattatoi circolari e semilune di minutissime dimensioni, mentre il quadro Neolitico26 mostra una ceramica assimilabile a quella del panorama Mediotirrenico pur aggiungendo dei campioni di tipologia impressa presenti a Fontanelle e Tricalle sul versante Medioadriatico; la ceramica figulina è anch'essa ben rappresentata, con agili collegamenti con le facies adriatiche del Neolitico Medio di Catignano e del Neolitico Superiore di Ripoli rispettivamente nel V e nel IV millennio a.C. Per quanto concerne l'industria litica di questo periodo, tra i ritrovamenti si possono annoverare bulini, grattatoi su estremità e circolari, varie tipologie di troncature e molte lame ritoccate, con cuspidi bifacciali e foliati Neolitici ed Eneolitici che spiccano per elevata qualità; di pregevolissima fattura anche accette in pietra verde e ben testimoniata è anche l'ossidiana, per quanto non siano state effettuate analisi per stabilirne la provenienza geologica. Queste ultime due tipologie di ritrovamenti fungono da palese testimonianza a riguardo di una fitta rete di scambi commerciali, economici e probabilmente culturali anche con aree abbastanza distanti, come nel caso dell'ossidiana; all'Eneolitico e al Bronzo Antico sono invece attribuibili frammenti fittili decorati a striature, punteggio, squame e probabilmente alcuni a graticcio, quest'ultimo motivo ben testimoniato nelle facies di Asciano, in provicincia di Siena, e Laterza, a Taranto. Per gli albori della Media Età del Bronzo il panorama diviene decisamente ricco con un repertorio di materiali della facies di Grotta Nuova – Campanile, un fondo di capanna posto tra i settori A e C dello scavo avente ben visibili 8 buchi per pali, una porzione della parete, il pavimento in battuto e, all'esterno, piani di cottura rialzati e un focolare; presenti inoltre numerosi frammenti di tipo appenninico e altri, concernenti il Bronzo Finale: al climax di quest'ultimo risalgono 5 sepolture a cremazione accompagnate da ricchi corredi funerari. Sulla base di quanto sopra enunciato e basandosi sui dati raccolti, è certamente possibile stabilire una seppur rudimentale ricostruzione del vissuto inerente al sito delle Caprine:
Fase Epigravettiana–Neolitica: prima occupazione del basso versante. Al Neolitico Antico (VI millennio a.C.) appartengono le ceramiche impresse, raffrontabili sia con l'ambiente tirrenico che adriatico, fattore agilmente riscontrabile anche con le culture del Neolitico Medio (V millennio a.C.) ove ravvediamo elementi tipici della cultura del Sasso e dell'adriatica Ripoli. Per quanto concerne il Neolitico Recente (IV millennio a.C.) vi è testimonianza della facies di Diana, peraltro comune a tutta l'Italia centrale.
Fase Eneolitica: occupazione della parte alta del pianoro, nel corso del III millennio a.C. I contesti funerari sono ascrivibili alla cultura Mediotirrenica di Rinaldone, mentre quelli abitativi sono maggiormente variegati con presenza Mediotirrenica (vedesi la ceramica decorata a striature), Medioadriatica (facies di Conelle–Ortucchio) e la tipologia di ceramica decorata a squame27, equamente presente in tutta la penisola italiana.
Fase dell'Antica Età del Bronzo: persiste l'occupazione della parte sommitale del pianoro, tra il 2300 e il 1700 a.C. (o tra il 2000 e il 1500, secondo altre interpretazioni proposte). Le sporadiche attestazioni culturali a noi giunte confermano l'esistenza di multiculturalità, con influenze provenienti, con ceramiche decorate appartenenti alla facies meridionale della grotta di Laterza, nella nostra Polesini, e quelle riferibili alla facies Medioadriatica di Ripatransone a Percile.
Fase della Media Età del Bronzo: occupazione massiccia del versante e della sommità del pianoro. In questo periodo (1700 – 1400 a.C.) le testimonianze in nostro possesso sono decisamente maggiori, con la fase iniziale rappresentata dalla facies di Grotta Nuova comune a tutta l'Italia centrale, mentre alla fase avanzata (1400 – 1300 a.C.) appartegono i ritrovamenti di tipo appenninico a riguardo dei quali, ancora una volta, i nostri siti sembrano ricoprire il ruolo di "zona di confine" tra i gruppi Mediotirrenico e Medioadriatico.
Fase dell'Età del Bronzo Recente e Finale: in questo arco temporale (1300 – 1550 e 1550 – 900 a.C.) assistiamo allo spostamento dell'abitato e all'installazione della necropoli esclusivamente sulla parte sommitale del pianoro. I materiali rinvenuti appaiono agilmente collocabili nelle ben attestate facies culturali Subappenninica e Protovillanoviana.
Fase dell'Età del Ferro Antica: gli aspetti culturali di questo periodo (900 – 720 a.C. circa) appaiono piuttosto controversi e poco chiari. Il vicino ed estremamente ben documentato contesto della celebre necropoli tiburtina28 presenta significative affinità nelle cosiddette tombe a circolo con altri contesti propri dell'Italia centrale interna e Medioadriatica.
Appendix: le culture Neolitiche, Eneolotiche e del Bronzo
- Facies di Fontanelle e Tricalle.
Rispettivamente in provincia di Pescara e di Chieti. Entrambi i siti, pur nelle loro interne diversificazioni, presentano caratteri di novità rispetto al quadro culturale del Neolitico abruzzese a ceramica impressa. Infatti, accanto al repertorio dei motivi tipici dell’area abruzzese - marchigiana, compaiono elementi decorativi peculiari di quella apulo - materana. In seno a questo nuovo aspetto, collocabile forse intorno alla prima metà del V millennio, la stazione di Fontanelle è da considerarsi, a causa della presenza di ceramica figulina e di un frammento dipinto, più recente di Tricalle. Oltre alla facies abruzzese-marchigiana, negli ultimi anni è stato riconosciuto un nuovo aspetto del primo Neolitico abruzzese nei siti di Marcianese (Lanciano), Torre Sinello (Vasto), Fontanelle (Pescara) e Tricalle (Chieti). L'aspetto di Marcianese si caratterizza per le presenza di vasellame decorato con i tipici motivi della facies della Ceramica Impressa abruzzese - marchigiana associato a vasellame con elementi decorativi ricollegabili alla facies pugliese del Guadone (decorazione a piccole impressioni e incisioni formanti motivi geometrici, triangoli, serie di rocker e microrocker, bande riempite a tratteggio, a spina di pesce, ecc.). L'industria litica di Marcianese, simile a quella degli altri siti della Ceramica Impressa abruzzese e pugliese, presenta una predominanza dei bulini sui grattatoi; abbondanti sono gli erti differenziati, le troncature e i becchi; meno rappresentati sono i trapezi, le punte e lame a dorso, pezzi scagliati, ritagli di bulino ed elementi di falcetto. Il dato più significativo è costituito dalla componente campignana, anche se non molto abbondante, formata da tranchets piano convessi e rari accette e picconcini. Sono state avanzate due ipotesi per spiegare i rapporti di questa facies, fortemente influenzata da elementi pugliesi, con quella abruzzese - marchigiana. "La prima è che questi rinvenimenti rappresentino un momento più arcaico di diffusione del neolitico in Abruzzo e in questo caso la componente tipicamente abruzzese-marchigiana può essere considerata come la prima comparsa di quegli elementi che poi si differenzieranno e svilupperanno nell'aspetto classico. La seconda ipotesi ammette che le due facies siano sostanzialmente contemporanee, dislocate in due aree contigue il cui limite potrebbe essere la valle del Pescara" (G. Cremonesi - C. Tozzi, Il neolitico dell'Abruzzo, in Atti del XXVI Riunione Scientifica, Vol. I, Firenze 1987, p. 240). La datazione radiometrica non calibrata di Marcianese (4340 ± 60 e 4300 ± 90 a.C.) sembra infatti convalidare questa seconda ipotesi.
- Versante Medioadriatico, Facies abruzzese-marchigiana
Il processo di neolitizzazione nell'area abruzzese - marchigiana inizia intorno alla fine della prima metà del V millennio a.C. con una facies della Ceramica Impressa definita da Radmilli come "facies abruzzese-marchigiana". Questo aspetto del Neolitico si diffonde fino in Romagna e nell'area padana influenzando le culture del Vhò, di Fagnigola e del Gaban; testimonianze di questa facies si trovano anche in Umbria (Pozzi della Piana) e nel Lazio (Le Caprine). Tra le forme vascolari più frequenti ci sono vasi a corpo semiovoidale, grandi ciotole troncoconiche con prese forate, vasi a fiasco con anse a maniglia orizzontali, vasi sferoidali con fori sotto l'orlo, piccoli vasi emisferici con anse sopraelevate, ciotole emisferiche e carenate. Le decorazioni sono a impressioni digitali o a punzone, disposte in maniera casuale o in file parallele, e a incisione formanti fasci paralleli, triangoli e reticoli. L'industria litica, in selce e in ossidiana, comprende bulini, troncature, becchi, strumenti a dorso, romboidi e rettangoli, usati spesso come falcetti, denticolati; poco rappresentati sono i grattatoi, i triangoli e gli strumenti campignani (grandi schegge e tozze lame con ampio piano di percussione e bulbo ben evidente). Fra gli strumenti in pietra levigata, in calcare e pietre dure, vi sono le asce, le accette, gli scalpelli, i dischi forati e le macine, quest'ultime realizzate anche in arenaria. Punte, punteruoli, spatole, ami, zappette, spatole e arponi sono realizzati in osso o in corno. Fra gli oggetti ornamentali, comunque piuttosto rari, compaiono lamine d'osso forate, zanne di cinghiale levigate e talvolta forate, cilindretti di osso, conchiglie marine forate e piccoli grani cilindrici in terracotta. Questa facies è attestata in numerosi siti sia all'aperto che in grotta; fra i principali si ricordano quelli di Leopardi di Penne (Pescara), Maddalena di Muccia (Macerata), Ripabianca di Monterado (Ancona), Grotta dei Piccioni di Bolognano (Pescara), Fonti Rossi di Lama dei Peligni (L'Aquila), Capo d'Acqua di Capestrano (L'Aquila), Grotta Continenza di Trasacco (L'Aquila), Fonti di San Callisto (L'Aquila), S. Stefano (L'Aquila), Paterno (L'Aquila), Grotta Sant'Angelo a Civitella del Tronto (Teramo). L'economia di sussistenza era basata sull'allevamento, con prevalenza degli ovicaprini sui bovini e suini (questi ultimi invece prevalenti a Maddalena di Muccia), sulla caccia di mammiferi e di uccelli (documentata a Capo d'Acqua, Maddalena di Muccia e Grotta Continenza), sulla pesca e sull'agricoltura (ben attestata al Villaggio Leopardi per la presenza di Triticum dicoccum e Hordeum e indirettamente in tutti gli altri siti per la presenza di falcetti e macine). La presenza diffusa dell' ossidiana (assente nel villaggio Leopardi e a Maddalena di Muccia) proveniente da Lipari e da Ponza attesta che proprio in questo periodo iniziarono i traffici anche su lunghe distanze. Per quanto riguarda le pratiche funerarie e culturali, svolte soprattutto in grotta, si segnala il rinvenimento di Grotta Continenza dove è attestato un culto ad incinerazione. La specificità risiede nel fatto che il rito crematorio risulta insolito nel panorama del Neolitico italiano essendo infatti documentato, oltre che a Grotta Continenza, solo alla Grotta Pavolella (Cassano Jonio) e in una fase più tarda. A ridosso della parete sinistra di Grotta Continenza erano stati deposti quattro vasi coperti dalle ossa bruciate di un individuo adulto; due vasi contenevano le ossa di due bambini (uno di otto e l'altro di quattro anni) e uno dei vasi era spalmato esternamente di limo giallo e coperto da un coccio; il terzo vaso conteneva dei piccoli frammenti di cranio di un adulto, una scheggia e due lame di selce mentre il quarto vaso, con tracce di ocra, risultava vuoto. Nei pressi di questi vasi ve n'erano degli altri, anch'essi recanti tracce di ocra e resti umani, ma purtroppo l'area risultava sconvolta dal passaggio di tombaroli. L'interpretazione di questa deposizione sembra ricollegarsi a sacrifici di bambini connessi ai riti di fertilità, da attribuire forse anche all'alta mortalità infantile. La presenza di buche, alcune intonacate di argilla, pavimentazioni in pietra, focolari e deposizioni di animali (pecore, cani, maiali) sono altre testimonianze di riti cultuali e funerari venute alla luce nella Grotta Continenza.
- Cultura di Catignano
Intorno al 4200 a.C. si diffonde in Abruzzo la cultura di Catignano, dal nome del villaggio eponimo nei pressi di Pescara, caratterizzata dalla presenza di ceramica figulina bicromica e da ceramica tricromica con bande brune. L'area di distribuzione comprende la fascia costiera dell'Abruzzo, dalla valle del Pescara alla valle del Tronto, con qualche traccia sporadica che si spinge all'interno fino al bacino del Fucino. La cultura di Catignano è ben inquadrata cronologicamente essendo compresa tra la fine della fase della Ceramica Impressa abruzzese-marchigiana avvenuta intorno al 4200 a.C. e l'inizio della cultura di Ripoli che si pone intorno al 3700 a.C. come dimostrano anche i livelli della Grotta dei Piccioni e della Grotta di S. Angelo di Civitella del Tronto. La facies di Catignano si caratterizza per la presenza di ceramica figulina di ottima qualità presente con forme semplici e a fondo convesso: ciotole emisferiche, tazze a pareti tronco-coniche o leggermente convesse, boccali lievemente carenati e vasi a fiasco. L'elemento più tipico è rappresentato dalle decorazioni a bande rosse che formano vari ed elaborati motivi: festoni, reticoli, triangoli. Meno frequente risulta la decorazione tricromica a bande brune, riscontrata anche nel villaggio di Passo di Corvo in Puglia e definita "tecnica della Scaloria Bassa" dalla grotta eponima presso Manfredonia dove è comparsa per la prima volta. Di buona qualità risulta anche la ceramica fine bruna e rossastra con forme vascolare simili a quelle della ceramica figulina. La decorazione non è frequente e consiste in bande di linee incise, riempite di ocra, e sottili linee graffite che formano motivi a scaletta, a stella, a farfalla. L'industria litica comprende bulini, prevalentemente su frattura e su ritocco, trapezi e troncature. I grattatoi sono piuttosto rari mentre abbondanti risultano le punte, i denticolati, le lame e le schegge ritoccate, gli elementi di falcetto. La componente campignana è poco rappresentata così come gli oggetti in pietra verde; piuttosto abbondante risulta invece l'ossidiana. Le strutture di abitato presentano una tipologia piuttosto varia e con elementi nuovi nel panorama del Neolitico italiano: capanne a pianta rettangolare con abside semicircolare, delimitate da fossette di fondazione, e, all'interno, allineamenti di buche di palo per il sostegno del tetto. Altri elementi tipici degli abitati sono delle cavità poco profonde, rettangolari, con pareti cotte dal fuoco e riempite di ciottoli spesso calcinati insieme a ceneri e carboni, piccoli silos cilindrici e grandi fosse di incerto utilizzo, di forma rotondeggiante o lobata. La presenza di elementi di falcetto e resti di farro, grano, orzo e avena documentano la pratica agricola mentre l'allevamento è accertato dai resti di bovino, in forte aumento sugli ovini. Anche la caccia era sviluppata come dimostrano i resti di capriolo, cervo, bos primigenius e orso.
- Cultura di Ripoli
Questa cultura, che prende il nome dal villaggio rinvenuto nella contrada eponima in comune di Corropoli (Teramo), si sviluppa dagli ultimi secoli della prima metà del IV millennio fino all'inizio del III millennio a.C. La cultura di Ripoli oltre a diffondere i propri elementi tipici su un territorio piuttosto vasto riceve allo stesso tempo l'influsso di altre culture del neolitico italiano: dalla ceramica lineare, da Serra d'Alto e dalla cultura dalmata di Danilo e nelle sue fasi più recenti anche dalla cultura di Lagozza-Chassey e dalla cultura di Diana. In base al tipo di ceramica rinvenuta nelle capanne del villaggio sono stati individuati tre principali gruppi. Nel primo gruppo la tipologia vascolare è piuttosto varia con netta prevalenza di ceramica figulina; sono presenti il boccale carenato, il vaso a fiasco con collo cilindrico alto e stretto e quattro bugne sotto l'orlo, il vaso emisferico con quattro piccole anse verticali ad anello e la tazza emisferica con anse verticali. Tra gli elementi di presa, in cui sono dominanti le anse ad anello, le prese e le bugne forate, sono caratteristiche le anse antropomorfe rappresentanti figure femminili molto stilizzate. La ceramica dipinta è in prevalenza di colore rosso e bruno con motivi geometrici disposti in riquadri sotto la parte superiore del vaso. La datazione più antica del primo gruppo è di 3680 ± 80 a.C. Nel secondo e terzo gruppo si rileva la progressiva scomparsa della ceramica dipinta e delle forme vascolari tipiche della ceramica figulina. Sono attestate ciotole e vasi troncoconici, in precedenza scarsamente documentati, e nuove forme come i vasi globulari e le ciotole troncoconiche con breve collo verticale. La decorazione dipinta tende a scomparire in favore di altre tecniche decorative come i cordoni plastici, i puntini e cerchietti impressi, i fasci di linee incise. La datazione più recente riferibile al terzo gruppo è di 3150 ± 120 a.C. L'industria litica non presenta significative differenze tra i vari gruppi salvo una maggiore presenza di ossidiana nel terzo gruppo; la tecnica campignana è ben rappresentata dai tipici strumenti (tranchets, accette) mentre alcuni tipi di cuspidi di freccia come quelle a tagliente trasversale rinvenute alla Grotta dei Piccioni e a S. Maria in Selva richiamano alla cultura di Chassey-Lagozza. Sono documentati grattatoi, rari bulini e strumenti a dorso, rombi, punte e punteruoli, lame e schegge ritoccate, denticolati. Le cuspidi di freccia si presentano in varie forme; oltre al tipo già citato figurano frecce a peduncolo centrale e alette, a cran e a base incavata. L'industria su pietra levigata comprende asce, accette, dischetti con funzione di fuseruole, anelloni, macine e macinelli. Caratteristici di questa cultura sono dei ciottoli piatti ellissoidi con due intaccature simmetriche che, probabilmente immanicati, potevano servire come percussori o come pesi da pesca. L'industria ossea è molto abbondante e rappresentata da diversi tipi di punteruoli, punte, zagaglie, spatole, scalpelli, aghi, manici di zappe e accette. Gli ornamenti comprendono pendagli realizzati con piastrine litiche o ossee, denti, frammenti di zanne di cinghiale, mandibole e conchiglie forate. Alla Grotta dei Piccioni e a Fossacesia sono stati rinvenuti dei ciottoli dipinti con ocra rossa a motivi geometrici. Nei complessi di Fossacesia e S. Maria in Selva (Macerata) compaiono alcuni frustoli di rame che attestano, durante le ultime fasi del Neolitico, l'inizio dell'attività metallurgica. Gli insediamenti sono posti generalmente sui terrazzi fluviali o su colline, nei pressi di corsi d'acqua e su terreni favorevoli all'agricoltura; a Ripoli l'insediamento, con capanne a pianta circolare, reniforme o ellissoide ad uno o più ambienti, era protetto da un fossato largo 7 m. e profondo 5 m.; a Pianaccio di Tortoreto (Teramo) le capanne delimitavano uno spazio libero; a S. Maria in Selva sono attestate quindici strutture di forma e dimensioni varie, l'una accanto all'altra e in collegamento fra loro, distanziate di circa 40 m. da una cavità isolata circolare di 3 m. di diametro. L'economia era basata sull'agricoltura, ampiamente documentata da macine, macinelli, falcetti e resti di farro, grano e orzo, e sull'allevamento di bovini, suini e ovicaprini; in molti casi è attestata la caccia (cervo e capriolo) e la pesca. Molto diffusa, soprattutto nei periodi recenti, risultava essere la tessitura come dimostra il gran numero di pesi da telaio e fuseruole. A Ripoli è documentata la sepoltura in abitato; i defunti, in posizione rannicchiata, vennero deposti in fosse comuni scavate nell'area dell'abitato. Caratteristica è la sepoltura di una donna con il proprio cane. Piuttosto significative risultano le deposizioni della Grotta dei Piccioni, da interpretare come una testimonianza di riti di fertilità legate a sacrifici umani. A ridosso della parete, nella parte più interna della grotta, sono stati individuati undici circoli, di diametro variabile fra 30 e 80 cm, delimitati da ciottoli o da blocchi di argilla cruda o travertino. All'interno di un circolo era presente lo scheletro di un neonato; due crani di bambini di circa 8-10 anni si trovavano nei pressi di un altro circolo; negli altri, ad eccezione di uno privo di resti, erano stati deposti frammenti di ceramica, oggetti fittili come palline e un frammento di peso in argilla cruda, strumenti litici e in osso, oggetti di ornamento, resti faunistici.
La ceramica, con impasto depurato e fine lucido e di colore bruno o nerastro, comprende il boccale carenato monoansato, ciotole troncoconiche emisferiche o carenate, tazze carenate con anse ad anello o a nastro, vasi ovoidi, vasi a fiasco e piccoli vasetti cilindrici o emisferici. Tipico e unico è il vaso a due colli rinvenuto nella Grotta dell'Orso di Sarteano. La decorazione è a linee incise che formano motivi angolari, rombi, triangoli scaleni, fasce ellittiche o a zig-zag mentre altri motivi, come gli ornati a foglioline e i cordoni a tacche, richiamano l'ambiente di Fiorano. L'industria litica, scarsamente documentata, è composta da troncature oblique, geometrici romboidali, becchi, grattatoi e bulini; l'ossidiana, di provenienza liparese, è ben attestata. Tra i materiali in pietra levigata figurano le asce e le accette, le macine di arenaria e gli anelloni litici a sezione triangolare. Molto più ricca e diversificata è l'industria su osso che comprende punteruoli, spatole, scalpelli, punte e arponi. I dati relativi all'economia di sussistenza sono piuttosto scarsi; il rinvenimento di macine, macinelli, elementi di falcetto e la presenza di Triticum aestivum compactum e di leguminose attestano lo sviluppo della pratica agricola; è documentata la caccia e l'allevamento di animali, in particolare suini. Piuttosto significative sono le testimonianze relative ai riti cutuali e funerari. Nella Grotta Patrizi al Sasso di Furbara (Cerveteri), una cavità naturale a più ambienti, sono state rinvenute, a ridosso di una parete, sette sepolture; in una di esse il defunto, in posizione rannicchiata, presentava nel cranio, poggiato su un frammento di stalagmite, segni di trapanazione. La sepoltura, delimitata da un semicerchio di pietre, comprendeva un corredo composto da uno spillone d'osso posto all'altezza del torace, una ciotola vicino alle mani e frammenti di vaso, tre tibie di lepre e tracce di cinabro adiacenti al cranio. Alla fine del IV millennio a.C. la cultura della Ceramica Lineare viene sostituita da una serie di aspetti locali che subiscono l'influenza della cultura di Chassey - Lagozza, di quella di Diana e di quella di Ripoli. La civiltà eneolitica di Laterza (o cultura di Laterza) è una cultura eneolitica sviluppatasi in alcune regioni del sud e centro Italia nel III millennio a.C. (2950 - 2350 a.C. circa). Come la maggior parte delle culture dell'età tardo-preistorica è riconoscibile essenzialmente per la forma e la decorazione delle ceramiche rinvenute nei diversi siti archeologici. È stata definita nel 1967 da Francesco Biancofiore29 a seguito delle ricerche nella necropoli omonima situata a nord - ovest di Taranto, nel sud della Puglia. Per lungo tempo questa cultura era documentata solo in pochi siti, essenzialmente funerari. Recenti ricerche e scavi di grande estensione, in particolare nella zona di Roma e nel nord della Campania, hanno consentito di ampliare le conoscenze sugli abitati. L'inquadramento cronologico di questa cultura è stato definito grazie a recenti ricerche. La civiltà o cultura di Laterza, costituita da comunità di provenienza egeo-anatolica per la via medio elladica, si sviluppò tra il 2900 e il 2300 a.C.. Apparsa nella Puglia centrale, la Basilicata e nel versante tirrenico della Campania, come ad esempio la cultura di Palma Campania e del Lazio dove sono note le date più antiche per la facies. In queste ultime due regioni la facies di Laterza si sovrappose e rimpiazzò le ultime manifestazioni della cultura del Gaudo. In alcuni casi queste due culture si sovrappongono negli stessi siti, come a Salve, in Puglia meridionale. L'influenza della cultura di Laterza nelle aree più lontane dal suo territorio originario è attestata dalle influenze sulla decorazione e la forma delle ceramiche. Nella necropoli di Selvicciola, sito del nord del Lazio attribuito alla cultura del Rinaldone, è stato scoperto un boccale di tipo Laterza. Decorazioni del tipo Laterza sono presenti anche nelle ceramiche di altre località dell'Italia centrale ad esempio a Maddalena di Muccia nelle Marche. A Osteria del Curato - via Cinquefrondi, alla periferia di Roma, è stata scoperta una tomba contenente ceramiche realizzate in tre stili diversi, corrispondenti alle culture del Gaudo, di Rinaldone e di Laterza. Nell'Agro romano la cultura di Laterza dà origine alla cultura di Ortucchio (quest'ultima sviluppatasi tra il 2670 e 2550 a.C. principalmente legata ad influenze e contatti con la cultura del bicchiere campaniforme) mentre in altre zone perdurò. A Pantano Borghese, presso Roma, è stato scoperto un sito assegnato ad uno stadio avanzato della cultura Laterza, contemporaneo di altri siti limitrofi appartenententi invece alla cultura di Ortucchio. Secondo gli studiosi si tratterebbe di una enclave culturale sopravvissuta. Per quanto riguarda le culture esterne che influenzarono quella di Laterza nei suoi aspetti più tardi è la cosiddetta cultura di Cetina che corrisponde ad un momento finale del calcolitico in Dalmazia. Similmente alle altre culture italiane neolitiche e calcolitiche, la popolazione viveva principalmente di agricoltura e di allevamento, come testimoniano i resti scheletrici di animali domestici (ovini, caprini, bovini, suini) e di piante addomesticate e la presenza di strumenti (macine). La pastorizia era importante soprattutto in alcune regioni. La scoperta di ami in osso testimonia inoltre la pratica della pesca, tuttavia questa era forse un'attività marginale. Praticata anche la tessitura (fusaiole e pesi da telaio). Per quanto concerne la metallurgia, anche tenendo conto di eventuali casi di riciclaggio o di degrado naturale nel corso del tempo, gli oggetti metallici associati alla cultura di Laterza sono molto rari. Tra questi sono documentati alcuni pugnali in rame. Nella grotta di Cappuccini nella zona di Lecce, oltre ad un pugnale, è stata rinvenuta una capocchia di spillo a forma di disco. I siti di cultura Laterza sono localizzati in diversi contesti ambientali, con una preferenza per le aree favorevoli all'agricoltura. In molti siti ci sono le prove dell'occupazione umana nel corso dei secoli, ad esempio in Puglia la maggior parte dei siti Laterza erano già occupati durante la precedente cultura di Piano Conte e continuarono ad essere occupati dopo la fine della cultura di Laterza, durante la fase di Cellino San Marco. Nella regione di Roma, la maggior parte dei siti della cultura di Laterza verranno occupati anche durante la cultura di Ortucchio. Questo è il caso, ad esempio, del sito di Osteria del Curato. In questo sito, le capanne della fase Laterza sono di forma ellittica e furono realizzate in materiali deperibili. Sempre nello stesso sito, sono stati scoperti inoltre un silo, delle case e un forno. L'architettura delle capanne del sito di Gricignano d'Aversa, in Campania settentrionale, è identica. Le grotte erano utilizzate sia come luoghi temporanei in cui vivere sia come luogo di sepoltura per i morti. I siti funerari sono particolarmente numerosi e sono stati per lungo tempo l'unica prova per documentare questo cultura. Le necropoli sono spesso composte da grotticelle artificiali (ipogei), come nel sito eponimo di Laterza: il numero dei defunti sepolti all'interno delle tombe è molto variabile. Alcune contenevano i resti di decine di individui, per esempio 100 persone nella tomba 3 Laterza, 77 in quella di Cellino San Marco. La ricchezza dei corredi funerari varia da sepoltura a sepoltura. Il più delle volte il corredo consiste solamente di un paio di punte di freccia in selce e alcune ceramiche. Tuttavia alcune sepolture si distinguono per la loro ricchezza, per esempio quella di Tursi. Per quanto riguarda le pratiche religiose, nel villaggio di Osteria del Curato sono stati scoperti due pozzi, probabilmente utilizzati per il culto data l'insolita presenza di ossa di capridi, ovinidi e ceramiche.
- Facies di Grotta Nuova-Campanile
La facies di Grotta Nuova si presenta con il suo aspetto più tipico nella Maremma tosco - laziale, ma che si colora di sfumature locali nella Toscana settentrionale (Candalla), in quella interna (Belvedere di Cetona), nel Lazio settentrionale (Mezzano) e centro - meridionale (Punta Campanile, Albano), nell'Abruzzo centro-settentrionale interno (paludi di Celano). Nelle stesse aree è anche documentato un aspetto particolare, la ceramica medio-tirrenica a decorazioni plastiche (solcature, scanalature, bozze a umbone), i cui reperti si rinvengono in certi contesti da soli, in altri in associazione con materiali quando di tipo Grotta Nuova, quando di tipo appenninico classico, e che verosimilmente rappresenta un orizzonte cronologicamente a sé stante, di incerta collocazione, forse a cavallo tra le due facies, comunque un momento di intensi e significativi rapporti con l'area padana.
- Cultura di Diana
La cultura di Diana o cultura di Diana–Bellavista è una cultura neolitica italiana che si sviluppa principalmente durante la prima metà del IV millennio a.C. Il suo nome deriva dal sito di Diana, ai piedi dell'acropoli di Lipari, nelle Isole Eolie nel nord della Sicilia. Gli scavi di questo sito, effettuati dal 1948 da Luigi Bernabò Brea e il suo team, hanno permesso di scoprire un'occupazione preistorica di diverse decine di ettari. Il nome "Bellavista" è quello di una piccola necropoli di tombe rupestri nei pressi di Taranto scavate e pubblicate da Q. Quagliati nel 1906. Sono le forme e le decorazioni della ceramica che definiscono la cultura di Diana. I siti archeologici in cui abbondano le ceramiche in stile Diana sono considerati appartenenti a questa cultura. Appare alla fine della cultura di Serra d'Alto durante la seconda metà del V millennio a.C. e fiorì durante i primi secoli del IV millennio a.C.; si trova dal centro a sud della penisola italiana e in Sicilia. La ceramica in stile Diana è puntualmente presente oltre queste regioni, anche nella Pianura Padana; nella cultura Diana-Bellavista, la ceramica ha due aspetti diversi: lo stile Bellavista, che è nero o grigio, si trova nella maggior parte della penisola italiana, mentre lo stile di Diana, che è rosso corallo, è presente in Calabria accanto allo stile Bellavista e nelle isole Eolie dove appare da solo. In entrambi i casi, le forme, le decorazioni e l'impasto sono molto vicini. Troviamo ciotole, piccoli colli cilindrici, coppe e tazze. Le maniglie sono a forma di bobine disposte orizzontalmente sul bordo delle pentole. Le superfici dei vasi sono accuratamente lucidate. Le decorazioni sono molto rare e sono fatte da incisioni dopo aver cucinato i vasi; sono per lo più a spirale e poi, nella fase più recente, a zig-zag.
- Cultura di Rinaldone
Con l'espressione cultura di Rinaldone, si intende un fenomeno culturale di carattere quasi del tutto funerario diffusosi in Toscana e nel Lazio centro - settentrionale, nelle Marche e in Umbria durante l'eneolitico, intorno alla la metà del IV e per buona parte del III millennio a.C. (3500 – 2500 a.C.) Prende il nome dalla località di Rinaldone presso Montefiascone, in provincia di Viterbo, dove fu effettuato il primo rinvenimento di tombe a grotticella. Sono stati rinvenuti vasi a fiasco, scodelle, ciotole e altre forme ceramiche e un considerevole numero di armi fra cui teste di mazza, punte di freccia e di lancia e pugnali. Inoltre elementi decorativi quali collane di antimonio, perle di osso e argento, e pendagli di steatite. Di quel periodo si conosce anche la loro tecnica di sepoltura che prevedeva l'utilizzo di tombe a forno o a grotticella solitamente chiuse. Uno dei contesti funerari più noti appartenenti a questa cultura è la cosiddetta "tomba della vedova" scoperta nel 1951 a Ponte San Pietro presso Ischia di Castro (VT); la tomba è costituita da una cameretta circolare di 2,70x2,25 m a volta curva nel quale erano sepolti un uomo di alto rango di circa 30 anni, con un ricco corredo di ceramiche, armi in selce e in rame, e una giovane donna. In un primo momento si ritenne che la donna venne uccisa con un colpo al capo alla morte dell'uomo. Successivamente il riesame del contesto ha invece portato a escludere questa prima ipotesi, infatti, i danni rinvenuti sul cranio della donna sono l'opera di roditori. La presenza di tracce di cinabro sul cranio dell'uomo, inoltre, forniscono l'indizio di una riapertura della sepoltura.
- Facies di Conelle–Ortucchio
La cultura di Ortucchio è una cultura archeologica che si sviluppò principalmente nella seconda metà del III millennio a.C. in Italia centrale: prese il nome dal sito all'aperto di Ortucchio, nella conca del Fucino, nel cuore dell'Abruzzo. Quest'ultimo è stato occupato in tempi diversi, in particolare durante l'Eneolitico. Gli scavi hanno contribuito a caratterizzare questa cultura, inizialmente associata alla cultura di Conelle per via delle similitudini nella ceramica. Ancora sconosciuta fino a pochi anni fa, le caratteristiche della cultura di Ortucchio sono state chiarite attraverso recenti scoperte nella regione di Roma. Cronologicamente può essere suddivisa in quattro fasi:
Fase I: 2670 – 2550 a.C.
Fase II: 2580 – 2470 a.C.
Fase III: 2500 – 2990 a.C.
Fase IV: 2350 – 2130 a.C.
Lo sviluppo della cultura del vaso campaniforme nel centro Italia causò un cambiamento della cultura di Laterza: questi sviluppi portarono alla nascita della cultura di Ortucchio nel Lazio, che avrebbe convissuto con quella di Laterza, ancora presente nella parte meridionale della regione e in altre province del sud Italia. In un secondo tempo, la cultura di Ortucchio si diffuse nel Fucino, regione in cui la cultura Beaker è quasi assente. Il passaggio tra la cultura di Laterza e quella di Ortucchio non fu completamente brusca. Un progressivo e lento cambiamento si osserva nelle produzioni artigianali, ad esempio nelle forme e decorazione della ceramica. Tuttavia, lo stile di vita di sussistenza rimase lo stesso, i villaggi si trovano nelle stesse aree e le pratiche funerarie rimangono immutate. Si registra lo sviluppo di nuovi piccoli siti nelle zone limitrofe alla cultura e nella zona costiera del Lazio. La cultura di Ortucchio si esaurisce prima dell'avvento delle prime fasi dell'età del bronzo con cui sembra segnare una rottura completa, intorno al 2100 - 2000 a.C.
- Facies di Ripatransone
Con la definizione “facies di Ripatransone” si indica un aspetto culturale che agli inizi dell’età del bronzo (XVIII secolo a.C.) si caratterizza per l’elaborazione di forme nonché per la produzione di manufatti metallici (asce e pugnali), di elevatissime peculiarità tecniche. Significativa, al riguardo appare l’individuazione, ad Offida, di una probabile fonderia, assegnata alla stessa epoca, che ha restituito circa venti pani bronzei di forma circolare (150 - 700 grammi) ed una forma di fusione per asce. Il rinvenimento connota quindi questo comparto quale area ove, già in epoca così remota, si realizzano manufatti di notevole qualità. La medesima attività è ben documentata d’altro canto anche in uno degli insediamenti maggiormente strutturati e meglio indagati della regione, quello ubicato in località Fonte Marcosa di Moscosi di Cingoli, la cui frequentazione è documentata, ininterrottamente, dalle fasi centrali dell’età del bronzo (XV), fino ad almeno il VI - V secolo a.C. Dall’abitato provengono infatti un crogiolo (un secondo, simile a quello da Moscosi, è attestato da una località, Caprile, ancora nei pressi di Cingoli) , valve di fusione cui si associa, prezioso quanto imprescindibile complemento, un pane, di forma lenticolare, di rame puro di circa 400 grammi, che conferma pienamente la pratica fusoria. Altri strumenti, quali vanghette e vomere di aratro, ottenuti da palchi e corna di cervidi, indiziano concretamente attività agricole e dunque uno sfruttamento più intensivo e consapevole del territorio. Altri insediamenti dell’età del bronzo medio (XVI - XIV secolo a.C.) caratterizzano anche il distretto settentrionale della regione, come documenta il sito di Cà Balzano (nella valle del Tarugo) che, sede di una stazione in cui si lavorava la selce sul finire dell’età eneolitica, è poi occupato stabilmente tra l’età del bronzo medio (XV secolo a.C.) e finale (XI - X secolo a. C.). Con l’età del Bronzo finale (XIII - XI secolo a.C.), a differenza di quanto si registra per gli abitati dell’area tirrenica, per quelli del settore adriatico, che occupano soltanto raramente aree sommitali ed hanno estensione assai limitata, si osserva un’occorrenza territoriale piuttosto rarefatta. Tuttavia notevole vitalità mostra il territorio facente capo al Conero, come testimoniano i rinvenimenti di Ancona, Numana, Osimo. Notevoli le indicazioni fornite dall’abitato indagato sul Colle dei Cappuccini la cui articolazione interna appare già ben riconoscibile (con spazi forse già deputati allo svolgimento di pratiche cultuali) e la cui continuità appare testimoniata molto a lungo; confronti stringenti tra le modalità di frequentazione di questo sito sono stati istituiti con l’abitato indagato brevemente ad Osimo, ove, oltre all’industria su osso, documentata ad Ancona e Moscosi, si associa anche il rinvenimento di crogioli, analogamente documentati ancora nell’abitato di Moscosi. A questa stessa epoca risalgono inoltre i contatti con l’area egea, come attestano i rinvenimenti di ceramica micenea sia in area costiera, ad Ancona e Monsampolo del Tronto, che a Tolentino, la cui ubicazione, in area più interna, apre nuove ed interessanti prospettive sui contatti fra di queste prime comunità con elementi di cultura greca già in epoca così remota. Gli insediamenti di poco successivi si concentrano soprattutto nell’entroterra ed in particolare fra il corso del Misa e del Musone (Cortine di Fabriano, Monte Croce Guardia di Arcevia, Monte la Rossa di Serra S. Quirico).
- Cultura Appenninica
La cultura appenninica o civiltà appenninica fu una cultura dell'età del bronzo diffusa nell'Italia peninsulare, e in particolare nelle regioni percorse dalla dorsale degli Appennini, in Emilia–Romagna ad est del fiume Panaro, nelle isole Eolie ed in alcuni lembi della Sicilia. Essa viene convenzionalmente suddivisa in tre fasi, a livello cronologico:
Proto Appennnico I (XVI secolo a.C) e Proto Appenninico II (XV secolo a.C.);
Appennnico (XIV secolo a.C.);
Subappeninico (XIV – XII secolo a.C.)
La fase appenninica piena (1400 a.C. circa) è contemporanea al periodo centrale della civiltà delle terramare in Italia settentrionale, alle culture di Thapsos e del Milazzese in Sicilia ed è compresa nel periodo caratterizzato in Sardegna dalla civiltà nuragica. Tra i ritrovamenti dei prodromi di questa cultura a Ischia e a Lipari, i residui di rame trovati in quest'ultima isola sono stati datati al carbonio 3050 ± 200 a.C., per cui la protofase potrebbe essere anche anteriore, ma la datazione tradizionale dell'intero periodo è XVIII - XII secolo a.C. Nelle bronzo recente si assistette alla diffusione della fase subappenninica che Salvatore Puglisi definisce così:
"..La facies subappenninica rappresenta, nella nostra concezione, un modo di essere della originaria cultura pastoralistica per l'integrazione di strati sociali agricoli (terramaricolo-protovillanoviani) nelle più importanti basi sedentarie, e che solo molto tardi, alla fine di un processo discontinuo e graduato da nord a sud di trasformazione dei caratteri tipici (quali la perdita della decorazione incisa, lo sviluppo di particolari anse sopraelevate, l'impianto dell'economia agricola sussidiaria), può avere una identificazione cronologica unitaria per tutta la penisola"30
La cultura appenninica è caratterizzata in un primo periodo da una ceramica rozza e sono rari gli oggetti in metallo. Successivamente con la diffusione del bronzo si osserva anche una ceramica di qualità migliore decorata con una pasta biancastra a base di gesso. La facies subappenninica si contraddistingue per la perdita della decorazione incisa e lo sviluppo di anse sopraelevate e per una metallurgia simile a quella padana e transalpina. I ritrovamenti di utensili legati al latte hanno permesso di ipotizzarne un carattere prevalentemente pastorale e migrazioni stagionali, con insediamenti in capanne o in ricoveri temporanei. I rapporti con la civiltà micenea, importanti specialmente per la definizione della cronologia, sono testimoniati da frammenti di ceramiche importate. I defunti erano inumati in tombe scavate nella terra, in grotticelle artificiali o in tombe dolmeniche. Tra le più grandi necropoli eneolitiche d'Italia, si segnala quella scoperta nel 2009 alla periferia sud-occidentale della città di Forlì, estesa per una superficie di circa 5000 metri quadrati. Nella fase subappeninica si diffonde in alcune aree la pratica della cremazione (Anzio, Cavallo Morto, Canosa di Puglia, Contrada Pozzillo, Torre Castelluccia).
- Cultura Protovillanoviana
La cultura Protovillanoviana (XII secolo a.C. - X secolo a.C.) fu una facies culturale sovranazionale, derivata dalla cultura dei campi di urne dell'Europa centrale, che si diffusein gran parte d'Italia, incluse la Sicilia orientale e le isole Eolie, tra il 1175 a.C. e il 960 a.C. circa, nell'età del bronzo finale, caratterizzata dal rituale funerario dell’incinerazione. La cultura Protovillanoviana, termine introdotto da Giovanni Patroni31 nel 1937, è inserita nel circuito dei campi d'urne dell'Europa centrale32, e mostra, in particolare, una certa rassomiglianza con i gruppi regionali a nord della Alpi orientali: quelli della Baviera - Alta Austria e quelli del medio–Danubio. Per Francesco di Gennaro33, inoltre, la cultura protovillanoviana mostra affinità settentrionali con la cultura lusaziana e quella di Canegrate. Attraverso la cultura protovillanoviana la penisola italiana in parte si unificò culturalmente, dal nord sino alla Sicilia orientale. Abitati e tombe di aspetto protovillanoviano sono numerosi in tutta la penisola, particolarmente nel centro - nord ad esempio a Frattesina nel Veneto, a Bismantova e Ripa Calbana in Emilia - Romagna, a Cetona, Sovana e Saturnia in Toscana, nei monti della Tolfa nel Lazio, a Pianello di Genga e Ancona (Colle dei Cappuccini) nelle Marche, mentre nel sud importanti sono i siti di Ortucchio in Abruzzo, di Timmari in provincia di Matera (Basilicata), Torre Castelluccia, Canosa (Puglia), Tropea (Calabria) e di Milazzo (Sicilia). In base ad alcune caratteristiche comuni è possibile individuare dei sotto-gruppi regionali come il gruppo Chiusi - Cetona, il gruppo Tolfa - Allumiere, il gruppo di Roma - Colli Albani. Le caratteristiche della produzione materiale protovillanoviana si possono riassumere nella ceramica in produzioni vascolari decorate a solcature con motivi geometrici, e nella metallurgia con la produzione di bronzi laminati decorati a sbalzo, lavorazione detta "a borchiette e puntini". Il ritrovamento di vari depositi di bronzi ha fatto ipotizzare che questi oggetti fossero offerte votive alle divinità o corredi per l'aldilà. Molto spesso questi depositi o "ripostigli" erano situati nei letti dei fiumi o più in generale nelle zone umide, forse ad indicare un culto incentrato su una qualche divinità delle acque. Tuttavia in alcuni casi questi depositi sono da intendere come un semplice accumulo di oggetti pronti per essere rifusi e quindi riciclati: durante l'età del bronzo finale viene introdotta la simbologia (di tradizione centro-europea) della "barca solare"34, legata al culto solare e astrale; gli insediamenti protovillanoviani venivano generalmente edificati su alture ben difese ed erano spesso muniti anche di fortificazioni artificiali. In alcuni insediamenti vivevano comunità di piccole dimensioni numeriche (50 - 100 individui); si è calcolato che nell'Italia Mediotirrenica le dimensioni medie delle aree di insediamento fossero di 40 - 50.000 metri quadrati, con 300 - 500 abitanti. Non mancavano insediamenti di maggior rilevanza (500 - 1000 individui) che probabilmente esercitavano una sorta di egemonia sui centri più piccoli. L'economia nell'età del bronzo finale era basata principalmente sull'agricoltura, l'allevamento, la pastorizia e sulle attività connesse alla metallurgia: Nell'Età del Bronzo Finale, corrispondente all'aspetto culturale Protovillanoviano, nella penisola si intensificano gli scambi commerciali con le popolazioni di altre civiltà, effettuati sia per via terrestre sia per via marittima. L'Italia Mediotirrenica in particolare era parte di un importante "circuito commerciale" con le popolazioni dell'Egeo (Micenei, Ciprioti), della Gallia meridionale, della Sardegna, della Sicilia. Il ritrovamento di edifici di grandi dimensioni e di sepolture che, specie in alcune aree (per esempio i Monti della Tolfa) si presentano fortemente differenziate per complessità dei "corredi" e per ricchezza dei materiali, dimostra che in queste comunità esisteva già una certa stratificazione sociale; nelle comunità assunse un ruolo particolare la figura dell'artigiano specialista. Questo fenomeno di articolazione sociale ebbe luogo soprattutto fra le comunità protovillanoviane dell'Etruria meridionale e del Lazio. Nella successiva età del ferro si assiste a un processo di regionalizzazione della cultura protovillanoviana, possono essere così distinti una serie di gruppi regionali: nel nord Italia appare la cultura di Golasecca associata a una popolazione di lingua leponzia, nel Veneto si sviluppa la civiltà Atestina associata ai Paleoveneti, nel centro e nord Italia appare la civiltà Villanoviana associata agli Etruschi, nel centro Italia la cultura laziale associata ai Protolatini, e la cultura di Terni associata ai Protoumbri. L'elemento di legame più evidente fra il Protovillanoviano, il Golasecchiano, l'Atestino, il Villanoviano, la cultura laziale è il rito dell'incinerazione dei defunti che non subisce particolari cambiamenti cerimoniali e sarà praticato per secoli sia dalle popolazioni di lingua indoeuropea che da quelle di lingua preindoeuropea come gli Etruschi. Mentre nella cultura di Terni l'incinerazione rimane documentata maggiormente nella fase iniziale detta Terni I, è infatti il rito inumatorio quello caratteristico dei costumi funerari delle popolazioni di etnia umbra. Si riconosce che la cultura Protovillanoviana abbia avuto un ruolo anche nell'etnogenesi dei Piceni e delle altre popolazioni di lingua osco - umbra. Benché non vi siano prove certe, non esistendo iscrizioni risalenti a quest'epoca, si è ipotizzato che la diffusione della cultura protovillanoviana in Italia coincida con la discesa delle popolazioni appartenenti alle lingue italiche, nel contesto della migrazioni indoeuropee della seconda metà dell'età del bronzo. Marija Gimbutas35 sostenne, venendo a lungo osteggiata dall'accademia, una colonizzazione "proto-Italica" dell'Italia centro - settentrionale da parte dei gruppi di campi di urne "Nord-Alpini" (Baviera e Austria). Somiglianze fra le ceramiche dei campi di urne di quest'area geografica e quelle Protovillanoviane sono state notate dalla stessa autrice. David W. Anthony36, argomentando sulla supposta unità linguistica italo - celtica, ha collegato l'arrivo degli Italici con la cultura Protovillanoviana, derivante a sua volta, stando all'opinione di Anthony, dai campi di urne della pianura bavarese o dall'Ungheria, mentre secondo Kristian Kristansen37 la cultura Protovillanoviana sarebbe piuttosto da associare al gruppo di Velatice - Baierdorf, tra Austria occidentale e Germania meridionale. L'identificazione della cultura protovillanoviana con la sola famiglia linguistica italica è, tuttavia, problematica, come già sostenuto da Renato Peroni38. Non esiste alcuna evidenza che tutte le popolazioni Protovillanoviane parlassero lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica. La stessa famiglia italica è divisa in due rami, lingue italiche occidentali (lingue latino-falische) e lingue italiche orientali (lingue osco-umbre). L'incinerazione, caratteristica del Protovillanoviano, era diffusa significativamente solo nelle popolazioni di lingua latino - falisca (le popolazioni osco-umbre erano inumatrici, prevalentemente) e non tutti i linguisti sono concordi nel ritenere che questi due rami si siano formati in Italia. La cultura Protovillanoviana è, inoltre, associata anche ai Protoveneti, i quali, in epoca storica, parlavano la lingua venetica, lingua indoeuropea sulla cui classificazione è ancora oggetto di aspri dibaattiti. Così come dalla cultura protovillanoviana emergono anche i Protoetruschi intorno all'XI - X secolo a.C., e dal 900 a.C. circa la cultura Villanoviana la fase più antica degli Etruschi che parlavano una lingua Preindoeuropea. Simile situazione anche per i Reti, altra popolazione linguisticamente preindoeuropea e legata, presumibilmente, agli Etruschi; anche il territorio retico, nella prima età del ferro, in particolare il tirolese, fu interessato da manifestazioni della cultura dei campi d'urne. Talvolta, anche la cultura di Canegrate, seguita dalla cultura di Golasecca dell'Età del Ferro, viene inserita nel contesto della cultura materiale del Protovillanoviano: in questo caso si ipotizza che le migrazioni dei campi d'urne provenissero dal gruppo renano - svizzero, che si estende anche alla Francia orientale, dei campi di urne della Germania meridionale. Nella cultura di Golasecca sono attestate iscrizioni di lingua leponzia, considerata una lingua celtica.
- Neolitico, Eneolitico ed Età del Bronzo nel territorio Tiburtino
Neolitico
I resti attribuibili al Neolitico, il quale introdusse una rivoluzionaria tecnica nella manifattura degli utensili in pietra39, non risultano essere particolarmentre numerosi a cagione dei profondi sconvolgimenti causati dall'intensa, estensiva e massiva lavorazione della terra in età romana. Gli abitanti vissuti al tempo della Nuova Età della Pietra dovettero popolare le fertili e vaste pianure, ove è infatti possibile raccogliere a vista strumenti di selce databili al periodo in questione, consistenti perlopiù in punte di freccia e piccoli coltelli in ossidiana40, importata dalle isole. Nelle attività di sussistenza alla caccia si affiancò prepotentemente l'agricoltura, il che determinò anche dei mutamenti a livello sociale e strutturale, praticata prevalentemente lungo le rive del fiume Aniene e sui pianori tufacei che caratterizzano la grande piana estesa tra Tivoli, Palestrina e Montecelio. Per quanto concerne la cultualità e i riti funerari sono di particolare interesse le testimonianze giunte a noi da don Celestino Piccolini41, inerenti ai resti di tombe neolitiche affiorate nel territorio di Guidonia, a Murolungo e Casalbruciato, le quali restituirono crani umani, studiati solo in parte secondo criteri scientifici: nel primo caso si potè determinare che le salme furono deposte sedute sulle calcagna, dunque in posizione semi – inginocchiata; tracce risalenti al Neolitico emersero anche nella Grotta Polesini, per quanto esse appaiano poco significative, a dimostrazione di un perdurare di determinati costumi42 ma maggiormente di un profondo cambiamento nel modo di vivere di quelle antiche genti. L'avvento della cosiddetta "Rivoluzione Neolitica"43 determinò, come precedentemente accennato, un significativo mutamento nelle abitudini delle popolazioni con l'abbandono degli schemi legati al nomadismo, a cui gli uomini paleolitici erano costretti per dare la caccia agli animali che fungevano da primaria fonte di sostentamento a tutto tondo, accentrandosi in luoghi maggiormente stabili, dalle caratteristiche geomorfologiche differenti, fortificati, praticando l'agricoltura e l'allevamento delle specie animali addomesticate44, divenute risorsa lavorativa da tiro e nella produzione di prodotti caseari: queste consistenti sconvolgimenti socio – demografici sono prodromi all sorgere di nuclei abitativi via via più consistenti che, nel corso dei millenni, diveranno ciò che al giorno d'oggi identifichiamo con il termine di "città". Il peso specifico della donna cresce vistosamente d'importanza, per quanto recenti studi abbiano perlomeno in parte confutato le teorie del suo ruolo nel periodo Paleo ed Epipaleolitico, la quale si dedica all'arte del telaio, all'agricoltura e, in ambito religioso, inizia a divenire centro portante di sistemi agro - cultuali che vedono in essa la condensazione dei cicli biocosmici alla base della Grande Spirale della Vita, in cui i ritmi della Natura e del Creato seguono il movimento dell'Eterno Ritorno.
Eneolitico
In questo periodo, alla lavorazione della pietra tanto scheggiata quanto levigata, si aggiunge l'utilizzo dei primi metalli conosciuti, ovverosia rame e bronzo, il quale è una lega composta dal primo con l'aggiunta dello stagno. In tal senso i ritrovamenti più importanti nel territorio di nostro diretto interesse sono quelli di Montecelio, di Marcellina, di Camerata, di Tagliacozzo, di Tivoli (presso il Passo dello Stonio, ai piedi del Monte Sant'Angelo in Arcese) e di Cantalupo Mandela. In questo ultimo caso furono scavate delle tombe a grotticella per la deposizione di corpi, le quali venivano poi richiuse dopo avervi inserito anche oggetti cultuali legati alla vita del defunto quali vasi di terracotta, lame di coltelli di selce scheggiata e punte di freccia. Nelle altre località sono emersi asce e pugnali di rame e bronzo, oltre a vasi d'impasto caratterizzati da un collo molto stretto particolarmente utile in caso di spostamenti; asce e pugnali accoppiati assieme sono stati ritrovati sia a Marcellina che sul Colle dello Stonio, attribuibili alla facie di Rinaldone – Gaudo e, a tal riguardo, così ebbe a esprimersi il professor Giovanni Colonna45:
"Queste scoperte, nonostante la loro episodicità, sembrano già indicare la frequentazione di quegli itinerari che sono stati additati come fondamentali per la storia del Lazio, compresa significativamente la via di penetrazione nell'Appennino rappresentata dalla Valle dell'Aniene46. La tipologia delle tombe, prevalentemente a grotticella (o tombe a "forno"), l'armamentario litico e metallico, lo scarso vasellame inornato, in cui prevale la forma del vaso a fiasco, il rito della posizione rannicchiata, l'uso funerario dell'ocra rossa, sono elementi qualificanti che fanno attribuire queste tombe alla cultura di Rinaldone, avente il suo epicentro nella Valle del Fiora e attorno al lago di Bolsena, piuttosto che alla coeva cultura del Gaudo, propria della Campania."
Età del Bronzo (XVIII – X secolo a.C.)
Nel periodo preso in esame i ritrovamenti più importanti vedono coinvolta nuovamente la Grotta Polesini, segnalati sia dal Radmilli che dal prof. Sciarretta in tempi più recenti, quelli del Monte Morra presso il gruppo dei Lucretili, quelli da noi qui analizzati e riportati dal proff. Mari e Sperandio presso Le Caprine, Marco Simone e le Acque Albule, di Castiglione per il Bronzo Medio e di Rocca Canterano, dove fu ritrovato un ripostiglio di asce a margine rialzato, la cui datazione riporta ai principi dell'Età del Bronzo: questo ritrovamento costituisce un importante attestazione, non solo a livello locale ma anche laziale. Per quanto concerne la ceramica proveniente dalla Grotta Polesini, è sicuramente d'uopo porre in evidenza la sua appartenenza alla facies culturale Appenninica diffusa dai pastori transumanti: essi discendevano da l'odierno Abruzzo aquilano dirigendosi verso la pianura laziale, dall'inizio dell'autunno47, da cui ripartivano in primavera48quando tornavano presso i pascoli estivi; i tratturi, fondamentale sempre i medesimi tracccaiti, costituivano già un'importante rete viaria il cui utilizzo si sarebbe perpetuato nei secoli successivi sino a divenire, soprattutto dall'età romana, un'autentica rete viaria. Sono databili al Bronzo Finale (XI – X secolo a.C.) i numerosi campioni di frammentazione fittile segnalati dal prof. Sciarretta presso le altura di Aefula (Monte Sant'Angelo in Arcese) e presso il Km 1 della Strada di Pomata49 a Tivoli, i quali vanno ad aggiungersi a quelli di Porta Neola sulla Via di Poli. Tale stazione fu lungamente frequentata, per molti secoli, dai pastori che vi diffusero il gusto nell'incision profonda nella decorazione a fresco dei vasi, nonché il motivo decorativo delle bande di puntini racchiusi da linee. Rimarchevole anche la serie delle anse comunemente definite ad ascia, a nastro forato, ad apici revoluti e bordi rilevati, a bastoncino e a linguetta. Concludiamo citando nuovamente il prof. Colonna, a riguardo dei ritrovamenti al Km 1 di Pomata ed Aefula50:
"Degno di nota è il caso di Aefula, che è un tipico insediamento di altura, arroccato sulle vette del Monte Sant'Angelo in Arcese presso Tivoli, a 598 metri sul mare. Per la sua posizione esso si collega ai villaggi fortificati con mura dell'area etrusca, del tipo di Monte Ravello sui Monti della Tolfa, La Capriola sui Monti Volsiniensi, Casa Carletti nel Massiccio di Cetona. Il fenomeno è abbastanza diffuso in Italia e denota certamente una situazione di insicureza. L'esistenza, sulle pendici del monte e ai margini della pianura, di un insediamento complentare al primo e forse più consistente (quello della strada di Pomata) sembra mostrare un processo in atto di organizzazione del territorio, in cui la rocca assume un ruolo di difesa e probabilmente di governo, entro un contesto di carattere sedentario ad economia accentuatamente agricola".
FONTI BIBLIOGRAFICHE:
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- "Nuovi dati sul Pleistone Medio e Superiore del bacino di Cretone (Palombara Sabina) a nord di Roma", Pietro Ceruleo, Annali delle Società Nomentana di Storia e Archeologia, 2015;
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-
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L’adattamento
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2Nome dato dagli archeologi a questo periodo, connotato dall'utilizzo prevalente di strumenti in selce, associati prevalentemente all'Homo Neanderthalensis. Il nome trae origine dal sito di Le Moustier, riparo in roccia ubicato nella regione francese della Dordogna, introdotto dall'archeologo, palentologo e politico francese Gabriel de Mortillet nel 1872. Simili attrezzi furono rinvenuti nelle regioni Europee non interessate dalla glaciazione, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa e si compongono prevalentemente di raschiatoi, denticolati e punte: la datazione di tale industria litica abbraccia un lasso temporale compreso tra i 300 e 30mila anni or sono. Lo studio della tracce di usura e le osservazioni condotte al microscopio rivelano che queste pietre poterono essere associate a manici di legno e che gli uomini vissuti nel Musteriano lavorarono, oltre la pietra, anche pelli e legno; gli attrezzi furono talvolta anche utilizzati per incidere e tagliare vegetali. Assieme a questi utensili, si diffusero anche nuovi modelli comportamentali, come attività venatorie verso grandi erbivori tramite l'utilizzo di trappole naturali (quali strettoie, gole, insenature), trasporto della selce anche su distanze di centinaia di km, inumazioni arricchite da corredi funerari aventi funzione rituale, edificazione di capanne, raccolta di terra d'ocra e incisioni non figurative aventi plausibilmente uno scopo puramente estetico. Nel 1995, in una grotta nei monti attorno a Idria, in Slovenia, gli archeologi rinvennero, a circa 8 metri di profondità e quindi ascrivibile al periodo Musteriano, un femore di orso delle caverne (Spelaeus Ursus), la cui datazione al carbonio C14 lo ha classificato come risalente a 60mila anni fa, sul quale erano stati praticati intenzionalmente dei fori circolari, assieme a degli strumenti in selce combacianti: si tratterebbe, dunque, dello strumento musicale più antico mai ritrovato.
3Il periodo Epigravettiano indica una cultura preistorica diffusa su larga scala in Europa, ed è suddivisibile in una fase antica (da ca. 20.000 a 16.000 anni), in una fase evoluta (16.000 - 14.000) e una fase finale che perdurò fino a ca. 8000 anni prima dell'era Cristiana.
4Vi dedicò un'importante e prestigiosa pubblicazione, nel 1974, intitolata "Gli scavi nella grotta Polesini di Tivoli e la più antica arte nel Lazio".
5 In chimica, trasformazione di un composto otticamente attivo nella forma otticamente inattiva.
6 Il primo cranio, detto Saccopastore I, appartiene ad una donna, rinvenuto quasi del tutto integro ma privo della mandibola. Il secondo cranio, detto Saccopastore II, è attribuibile a un giovane uomo adulto (30 – 35 anni) e venne soperto frammentato in tre parti e mancante di mandibola, dell'intera volta cranica, parte della base e della regione orbitale sinistra. Entrambi i crani presentano le caratteristiche dell'Homo Neanderthalensis, quali le forti arcate sopracciliari, ma se ne discostano per la presenza della fossa canina nei mascellari, sebbene alquanto attenuata. L'uomo di Saccopastore appare quindi con caratteri più primitivi rispetto all'uomo di Neandhertal, ma per alcuni caratteri quali la fossa canina sembra più prossimo all'uomo attuale. La presenza di un largo foro nel cranio di Saccopastore I, che appare praticato intenzionalmente ed adeguato a rimuovere il suo contenuto, ha fatto pensare a pratiche cannibaliche e rituali seguite da questi uomini primitivi.
7Assimilabile al Pontiano Würmiano presente in molte altre località laziali. Cronologicamente tale industria è stata attribuita da A.C. Blanc all’ultimo interglaciale Riss-Würm.
8Antica forma di Homo Sapiens, largamente diffusa in Europa durante il Paleolitico Superiore, rappresentato da quattro scheletri provenienti dal riparo sottoroccia di Cro–Magnon, scoperti nel 1868 presso Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil, in Dordogna, e da sette scheletri ritrovati presso le Grotte dei Balzi Rossi in Liguria.
9Trovanti stimolanti parallelismi con i materiali provenienti dalla Grotta Romanelli a Otranto, in provincia di Lecce.
10La collezione di ciottoli decorati e utilizzati risulta essere tra le più cospicue d'Italia, con 65 esaminati e altri 17 di cui restano piccoli frammenti o la cui superficie, a causa del protratto contatto con la falda acquifera, mostra segni di pesante erosione; altri 15 sono descritti nelle varie fonti letterarie ma non conservati presso il Museo Pigorini. Le misure campionarie generali, pur registrandosi dovute eccezioni, presentano una lunghezza variabile da 31 a 114mm, la larghezza da 19 a 76 mm, lo spessore da 7 a 49 mm. Gli esemplari la cui superficie risulta maggiormente conservata sono quelli sottoposti all'azione del fuoco: in questo gruppo rientra l'esemplare con la testa di Uro (Bos Primigenius) incisa; tuttavia, in alcuni casi, il calore troppo intenso generato dalle fiamme ha fatto saltare parti delle superfici, distruggendo le incisioni.
11L'Asino Idruntino, oggi estinto ma sopravvissuto sino agli inizi dello scorso secolo, fu una delle specie più numerose in epoca preistorica e dunque tra le più cacciate; una sua prima classificazione avvenne negli anni Trenta a Otranto, loacalità da cui prese il nome. Più piccolo dell'asino attuale ma dotato di zampe maggiormente slanciate, era dunque più veloce e dinamico. Presente in gran quantità tra la fauna preistorica locale, se ne trovano abbondanti tracce anche nel più meridionale e coevo giacimento di Villa Salvini, a Terracina.
12 A seguito dell'incuria e dell'abbandono delle opere di bonifica dei Romani nel territorio compreso tra Villa Adriana e Bagni di Tivoli (Tivoli Terme) le acque dei vari laghetti naturali, per mancanza di regolari operazioni di scolo e drenaggio, tracimarono rendendo le pianure circostanti paludose e malsane.
13Pigmento naurale tra il rosso e il marrone, estratto dall'ematite (ocra rossa) e dalla limonite (ocra gialla). Nel caso dei reperti della Grotta Polesini, non si trova mai in concomitanza con incisioni organizzate; non sono state rilevate macchie ben delimitate, strisce o altre forme geometriche delineate intenzionalmente (ma ciò potrebbe anche esser dipeso dalle parziali o scarse porzioni conservate, a seguito dell'immersione in acqua). Le incisioni sono suddivise tra zoomorfe e tendenti al geometrico: il primo caso sarà disaminato approfonditamente più avanti, mentre nel secondo troviamo figure quadrangolari (rettangoli, rombi campiti, rombi allungati e campiti), linee interrotte da trattini perpendicolari, una figura bifida campita e un groviglio indecifrabile composto da linee, parzialmente parallele tra loro. Alcuni ciottoli presetano lievi ma profonde incisioni di andamento trasverale lungo una o più porzioni del margine; alla decorazione con tacche si sovrappongono l'ocra, la picchiettatura e il cuneo in un caso, delle strie (fasci di sottilissime linee parallele, talora soggette a incrocio) in tre casi: il valore delle tacche appare, al momento, puramente decorativo. A riguardo dell'ocra, è stato dimostrato che una pelle fresca viene agilmente e rapidamente ripulita dai residui di sangue e grasso presenti al suo interno raschiandola con un ciottolo calcareo con aggiunta di sabbia: è dunque perlomeno plausibile ipotizzare anche questa funzione, per il pigmento naturale.
14 Il bulino o punzone è sia un sottile scalpello che un punteruolo utilizzato per la punzonatura e per particolari incisioni; diffuso sin dal Paleolitico Superiore, si otteneva asportando lamelle da una scheggia di pietra.
15 Il Bos Taurus Primigenius è un bovide oggi estinto, diffuso un tempo in Europa, in Africa Settentrionale, nel Medio Oriente, India, Asia Centrale e nelle Isole Britanniche, dal quale sono stati selezionati gli odierni bovini domestici. Gli Uri sono rappresentati in molte pitture rupestri europee del Paleolitico, come quelle che sono state trovate a Papasidero in Calabria, a Lascaux e nella grotta del Pech-Merle, in Francia. Alla loro forza vitale erano attribuite qualità magiche e sono state ritrovate anche antiche statuette raffiguranti la loro forma. Gli uri, impressionanti e pericolosi, sopravvissero durante l'età del ferro in Anatolia e nel Vicino Oriente e in tutta quest'area furono adorati come un animale sacro, il toro lunare, associato alla Grande Madre (degli Uri sono dipinti sulla Porta di Ishtar di Babilonia, ad esempio), data la peculiare somiglianza tra le suea testa e le Tube di Falloppio, e, in seguito, a Mitra, nella sua veste di ταυροκτόνος ("Uccisore del Toro", per approfondire è possibile consultare, dal medesimo autore, "ORIGINES – Le Origini del Natale", pgg 184-198), Di grandi dimensioni, misuranti mediamente al garrese 1,75 m (a confronto degli odierni 1,50 m riscontrabili nei bovidi domestici), l'ultima esemplare, una femmina, morì nella foresta di Jaktoròw in Polonia, nel 1627 della nostra era: il suo cranio venne sottratto dall'esercito svedese durante l'invasione della Polonia, tra il 1655 e il 1660, ed è attualmente di proprietà del Livrustkammaren di Stoccolma. Nel 1999, uno scavo a Peterborough, Cambridgeshire in Inghilterra, riportò alla luce il cranio di un Uro, la cui parte frontale era stata rimossa pur mantenendo le corna attaccate, chiaro segno di come fosse stato sottoposto a un atto rituale di tipo religioso.
16 Il nome viene dalle punte o dalle lame del tipo “La Gavette” dal nome della località francese che, per prima, restituì testimonianze di questa industria. Sono le prime punte di freccia, profondamente dissimili dalle cuspidi di freccia che siamo soliti concepire, ma delle lamette di selce aventi margine ritoccato in maniera erta tale da creare una sezione di forma triangolare; armi mortifere, perché non tagliano ma bucano: una preda colpito ad un'arteria da queste punte di freccia moriva dissanguato in breve tempo.
17 Ultimo periodo caldo e umido globale, o interstadiale, che avvenne poco prima della fine dell'ultimo periodo glaciale.
18Radmilli li classificò come appartenenti al tardo Neolitico, a cagione della presenza di piccole cuspidi di freccia, pur tuttavia non escludendo una frequentazione più antica dei luoghi.
19 Archeologo e antropologo italiano (Firenze, 2 novembre 1907 – Firenze, 1988). Accademico dei Lincei, è ritenuto fra i massimi studiosi ed esperti mondiali di arte preistorica europea ed africana.
20Il che risulta abbastanza comune, nell'arte mobiliare della Grotta Polesini.
21In provincia di Lecce.
22La famiglia degli erti è al 31,9% paragonato al 62,7% del Radmilli, i grattatoi sono al 34,1% contro il 25,7% dei vecchi scavi, i bulini sono al 7,7% nei nuovi scavi dove nel Radmilli si fermano al 3,2%; il substrato giunge al 26,2% mentre negli anni '50 non andò oltre il 6,7%.
23 Ugo Alberto Rellini (Firenze, 10 agosto 1870 – Roma, 15 giugno 1943) è stato un etnologo e paleontologo italiano, grande studioso della preistoria del nostro Paese.
24Sorta di grotticella di origine naturale.
25Frazione del comune di Fiumicino, in provincia di Roma.
26A tutte le culture neolitiche, eneolitiche e del Bronzo che seguiranno sarà dedicata un'ampia appendice, al termine dell'articolo, rappresentando un elemento necessario per un'ottimale comprensione degli argomenti qui disaminati.
27Le ceramica decorata a squame sovrapposte, talvolta con aspetto embricato oppure a listelli piatti sovrapposti o schiacciati irregolarmente, sta divenendo, nel corso degli anni e con il procedere delle ricerche, una delle testimonianze fittili più significative dell'Eneolitico italiano. La sua presenza appare, soprattutto negli insediamenti all'aperto, molto più numerosa e ramificata di quanto non traspaia dalle pubblicazioni.
28Per ulteriori approfondimenti, è possibile consultare "Culti & Dei nell'Antica Tibur, Pars Quinta – Il Culto dei Morti nell'Età del Ferro e la grande necropoli Tiburtina", in "Annales di ArcheoTibur – Volume 0", a cura del medesimo autore, pgg 39 – 50. ArcheoTibur – Quick Ebook Edizioni, Tivoli, 2018 – 2019.
29Illustre archeologo e padre della paleetnologia pugliese; studioso di Civiltà Preclassiche, originario di Torre a Mare, è stato docente di Paletnologia all’Università degli Studi Bari e successivamente all’Università di Roma II “Tor Vergata”.
30 Salvatore Puglisi, La civiltà appenninica, Sansoni editore, p.80.
31Archeologo italiano e accademico italiano (Napoli, 20 settembre 1868 – Celleno, 13 agosto 1951).
32 Dal tedesco Urnenfelder.
33 "La decorazione della ceramica mostra affinità settentrionali (Lusazia, Canegrate) e del resto il fenomeno protovillanoviano mostra qualche affinità con la civiltà transalpina dell'Età dei Campi d'Urne."
(Francesco di Gennaro, Protovillanoviano, Enciclopedia dell'Arte Antica (1996).
34Vedi, dallo stesso autore, "Le Origini del Natale", in "ORIGINES", pgg 184 - 198; ArcheoTibur – QuickEbook Edizioni, Tivoli 2020.
35 Archeologa (Vilnius, 23 gennaio 1921 – Los Angeles, 2 febbraio 1994) e linguista lituana. Studiò le culture del Neolitico e dell'Età del Bronzo dell’Europa Antica, espressione da lei introdotta. I lavori pubblicati tra il 1946 e il 1971 introdussero nuovi punti di vista nell'ambito della linguistica e dell'interpretazione della Mitologia; ne citiamo alcuni tra i più importanti, quali: "La Civiltà della Dea - Volumi 1 e 2", "Il Linguaggio della Dea – Mito e Culto della Dea Madre nell'Europa Neolitica", "Dee e Dei dell'Antica Europa", "Le Dee viventi", "Bronze Age cultures in Central and Eastern Europe".
36Antropologo americano.
37Archeologo danese, noto soprattutto per il suo contributo dato alla conoscenza degli studi inerenti all'Età del Bronzo in Europa; professore ordinario all'Università di Gothenburg, Västra Götaland County, in Svezia.
38 Archeologo italiano (Vienna, 16 dicembre 1930 – Roma, 4 maggio 2010), docente di Protostoria Europea alla Sapienza Università di Roma e autore di numerosi saggi e articoli.
39Comunemente detta "levigata" rispetto alla precedente "scheggiata".
40Per un esaustivo approfondimento circa le vie dell'ossidiana, consultare l'ampia bibliografia dell'ing. Pietro Ceruleo: "Le Vie dell'Ossidiana dalle Isole al Continente: approvvigionamento, diffusione e commercio. Il caso della Sabina e dalla Valle dell'Aniene.", "L'Ossidiana dall'Isola di Palmarola al Continente. Approvvigionamento e diffusione. Il caso dell'insediamento neolitico di Setteville di Guidonia.", "Nuovi elementi sulle vie dell'Ossidiana dalle Isole al Continente e sul caso della Sabina e della Valle dell'Aniene."
41Al quale è stato intitolato l'interessante di Guidonia Montecelio.
42Tranne che nei periodi di piena del potente Aniene, che rendeva il sistema di grotte disposte lungo il banco travertinoso del tutto inabitabile.
43 La Rivoluzione Neolitica o Rivoluzione del Neolitico, detta anche Transizione Demografica del Neolitico, Rivoluzione Agricola o Prima Rivoluzione Agricola, fu la transizione su larga scala di molte delle culture umane durante il periodo Neolitico da uno stile di vita di caccia e raccolta ad uno di agricoltura e sedentarietà, favorendo un incremento della popolazione umana: fu in queste prime comunità sedentarie che divenne possibile fare osservazioni ed esperimenti con le piante e su come nascessero e crescessero. Questo nuovo tipo di conoscenza portò alla coltivazione delle piante; i dati archeologici mostrano che la coltivazione di svariati tipi di piante ebbe inizio in luoghi diversi e separati in tutto il mondo nell'epoca geologica dell'Olocene, all'incirca 12.500 anni fa e fu la prima rivoluzione storicamente verificabile del mondo che riguardasse l'agricoltura. Secondo alcune correnti di studio aumentò a dismisura la varietà di cibi disponibile, portando come risultato un netto miglioramento nella qualità dell'alimentazione e della durata di vita per le genti dell'epoca, secondo altri, basandosi sui dati di analisi comparate effettuate sugli scheletri, determinò piutosto un forte peggioramento riscontrabile negli agricoltori neolitici rispetto ai cacciatori – raccoglitori Paleo ed Epipaleolitici: la stanzialità, l'aumento numerico dei gruppi umani riuniti negli insediamenti, il differente regime alimentare, i gravosi carichi di lavoro necessari per arare e curare la terra, determinaro nelle popolazioni neolitiche un aumento delle malattie infettive, della percentuale di mortalità e di patologie oseee. Recentemente, la scoperta di una focaccia risalente a 14.400 anni fa, in un sito archeologico relativo alla civiltà natufiana in Giordania potrebbe riscrivere la storia dell'alimento più famoso a livello mondiale: si tratta infatti della più antica testimonianza di pane mai scoperta sino a oggi, precedente di ben quattromila anni rispetto all'introduzione vera e propria dell'agricoltura su larga scala. Ciò potrebbe confermare che la produzione di pane, tramite l'utilizzo di cereali selvatici, spinse le antiche tribù di cacciatori – raccoglitori alla coltivazione di cereai, gettando così le basi per la sopramenzionata Rivoluzione Neolitica. Una squadra compasta da ricercatori dell'Università danese di Copenaghen, dell'University College di Londra e dall'Università di Cambridge ha studiato i resti di cibo carbonizzato trovati in un sito databile a 14.400 anni fa e localizzato a Shubayqa, nella zona desertica giordana nord–orientale: i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Essi dichiarano che: "Si tratta di una scoperta eccezionale che ci ha consentito di ricostruire le usanze 14.000 anni fa. I resti nella ricerca mostrano i cereali come l’orzo, il farro e l’avena, macinati, setacciati e impastati per formare focacce, le stesse scoperte in vari siti neolitici e romani tra Europa ed in Asia Minore. ll passo successivo è di comprendere se la produzione e il consumo di pane abbia in qualche modo influenzato la coltura delle piante”, ha dichiarato l’archeobotanica dell’Università di Copenaghen Amaia Arranz Otaegui, l’autrice della ricerca. A spiegare l’importanza della scoperta è l’archeologo Tobias Richter, che ha realizzato le ricerche a Shubayqa 1: “I cacciatori-raccoglitori natufiani rivestono, per noi, una grande importanza poiché hanno vissuto in un periodo di transizione durante il quale gli uomini hanno adottato nuovi stili di vita diventando più sedentari mentre la dieta ha cominciato a cambiare, come dimostrato dagli strumenti di pietra macinata scoperti in passato e dai resti del pane di Shubayqa 1". Il sito archeologico in esame è di matrice Natufiana: la cultura natufiana fu una cultura mesolitica che prosperò sulle coste orientali del Mar Mediterraneo nella regione del Levante e trae il nome dal sito dello Wadi el-Natuf (caverna di Shukbah) in Palestina: gli scavi furono condotti negli anni 1932 - 1942 da Dorothy Garrod. La datazione con il metodo del radiocarbonio colloca questa cultura alla fine del Pleistocene (tra 12.500 e 10.200 anni fa) e fu preceduta dal Kebariano (Epipaleolitico, 18.000 - 13.000 a.C.) Caratterizzata dalla creazione di insediamenti stabili prima dell'introduzione dell'agricoltura, è probabilmente da considerarsi l'antenata delle culture neolitiche della regione, ritenute allo stato attuale delle conoscenze le più antiche del mondo. Alcuni elementi permettono forse di riconoscervi il primo caso di coltivazione deliberata di cereali e certamente si faceva uso di cereali selvatici.
44Quali cani, ovinidi, capridi, equidi e bovidi.
45Archeologo italiano (Roma, 4 settembre 1934), etruscologo e studioso dell'Italia Antica, ispettore archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Etruria meridionale dal 1964 al 1972, cattedratico di Etruscologia e Antichità Italiche presso l'Università di Bologna, membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei e dell'Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, Professore Emerito presso la Sapienza Università di Roma e già Professore Ordinario di Etruscologia e Antichità Italiche nell'Ateneo romano dal 1980.
46Da un punto di vista cultuale e religioso, è possibile approndire l'argomento in "Annales di ArcheoTibur – Volume 0", pgg. 32 – 38, e in "ORIGINES", pgg. 352 - 367; ArcheoTibur – QuickEbook Edizioni, Tivoli 2018 – 2020.
47La cosiddetta "demonticazione".
48La cosiddetta "monticazione".
49Sede anche dei seguenti ritrovamenti, presso gli uliveti bordanti ambedue i lati della strada:
1 punta musteriana avente tallonne sfaccettato convesso e ritocco a scaglie;
8 schegge non determinabili.
50 Sciarretta F., 1966