A cura di Fabrizio Accadia, Consigliere del Direttivo di ArcheoTibur.
Orazio, Virgilio e Vario nella villa di Mecenate. |
Il 27 novembre dell’8 a. C. moriva a soli 57 anni, molto probabilmente a Tibur, il Poeta venosino Quinto Orazio Flacco.
Nacque a Venosa, nobile città molto più antica di Roma, situata tra la Puglia e la Lucania, l’8 dicembre dell’anno 689 dalla fondazione di Roma, sessantacinque anni prima dell’era cristiana, sotto il consolato di L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato.
Il nome di Quinto lo cita lui stesso nel secondo libro delle satire ma tutti lo chiamarono sempre Orazio come egli stesso si nominò nei suoi scritti. Plutarco, nella vita di Lucullo, lo definì Flacco, cioè orecchiuto, e lui stesso, nell’Epodo XV e nella prima satira del secondo libro, così si cognominò. Tale soprannome non indicava che avesse orecchie deformi, ma può riferirsi a quelli della sua famiglia, forse indicati con quel nomignolo.
Nelle sue vene scorreva sangue di schiavo, infatti il padre era un liberto, un ex schiavo liberato, un “servus pubblicus”, che prestava il servizio di riscossore delle tasse della città di Venosa, e di banditore. Ma non sappiamo come si chiamasse, Orazio nelle sue opere non citò mai il nome di suo padre né il nome e la condizione di sua madre, né il nome della città di Venosa.
Il lavoro del genitore dovette essere molto remunerativo se poté permettersi di lasciare Venosa (fino all’età di circa dieci anni Orazio frequentò la scuola del maestro Flavio, del povero Flavio, che non si sarebbe mai augurato di diventare celebre per l’eternità, vedendosi consacrato nel libro di Orazio) per trasferirsi a Roma e consentire al figlio di frequentare le migliori scuole insieme a tanti giovani figli di senatori e dell’aristocrazia romana.
Orazio gliene fu gratissimo e scrisse che se sarebbe rinato, e avesse potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto quello che gli diede la natura, non trovando altro uomo più coscienzioso, più perspicace, più amorevole di questo!
A Roma studiò sotto Lucio Pupillo Orbilio, beneventano (che morì centenario), a quell’epoca uno dei più celebri grammatici, e forse il più severo, pignolo e irascibile insegnante di lettere a Roma. Che aveva fama di applicare una disciplina ferrea, a volte anche con l’uso di una sferza. Orazio lo ricorda con satirica soddisfazione plagosum, fustigatore, anche se sotto di lui aveva conosciuto ed imparato la letteratura greca e la letteratura latina antica, Omero e Livio Andronico.
Terminati questi studi, i giovani romani cominciavano ad approcciarsi alla poesia, poi passavano alla filosofia, quindi all'oratoria e finalmente alla storia, ma a Roma non c’erano professori valenti, né un giovane aveva la possibilità conseguire un’istruzione completa. Fu così che, all'incirca diciottenne, si recò ad Atene, da sempre il domicilio della scienza e delle arti, dove si recavano da ogni luogo oratori e filosofi che professavano l’insegnamento. Nelle scuole ateniesi, nel giardino di Academo, Epicurei, Stoici, Platonici e Scettici si contendevano la palma, sostenendo ciascuno gagliardamente le proprie dottrine.
Orazio aveva seguito ora questa disciplina, ora quella, secondo ciò che più gli ispirava l’animo.
Era entusiasta della lingua greca, che lo aveva grandemente deliziato a Roma, e ad Atene aveva fatto notevoli e rapidissimi progressi, e in poco tempo era giunto a scriverla con facilità e eleganza.
Per sentirne tutte le finezze cercava la conversazione delle donne, perché nella loro bocca una lingua esprime tutta l’armonia, la flessuosità e la grazia di cui è capace, e si arricchisce di tutti quei rapidi giri, di quelle vive e pittoresche espressioni che non saprebbero dare le sensazioni meno delicate degli uomini.
Aveva composto anche dei versi in greco che però aveva distrutto, dopo che in sogno gli era apparso Romolo (Quirino), che gli aveva detto che era più saggio chi porta la legna al bosco che un romano che voglia ingrossare le fila dei verseggiatori greci.
Ma dovette interrompere i suoi studi. Ad Atene conobbe Bruto che lo arruolò nel suo esercito col grado di Tribuno militare e, proprio tra le file repubblicane, partecipò, seppur nelle retrovie, alla battaglia di Filippi dove, nella fuga dopo la disfatta, abbandonò lo scudo proprio come prima di lui avevano fatto altri due grandi poeti e dei quali, in seguito, ne avrebbe ripreso lo stile e la metrica: Archiloco e Alceo.
A causa delle confische tornò a Roma povero, proscritto, senza amicizie potenti, col marchio indelebile di essere figlio di uno schiavo, senza la guida del padre, non trovò altro aiuto che nello stilo e nelle tavolette. Il suo genio lo salvò, Orazio cominciò a dettare le sue immortali poesie!
Le satire furono le sue sfide che ne rivelarono l’ingegno, e ad esse aggiunse i lirici slanci delle prime odi, i primi tocchi della sua lira.
Svetonio racconta che comprò un ufficio di Scriba Quaestorius Sexprimi, forse coi suoi primi risparmi o con l’aiuto di Virgilio e di Quintilio Vario che aveva conosciuto e ai quali aveva sottoposto i suoi scritti, oppure ebbe quell’impiego quale indennizzo del posto di tribuno che aveva perso. Lo stesso Quintilio Vario che Eusebio sostiene essere di Cremona, quasi compaesano di Virgilio, che fu censore, giudice di poesie e poeta insigne. Vario aveva una splendida villa sul lato occidentale di Tivoli le cui vestigia sono ancora visibili, e che hanno dato il nome alla località e alla chiesa che tutt’oggi porta il nome di Madonna di Quintiliolo. Non lontano dalla villa di Mecenate e dalla villa dell’altro poeta, Plozio Tucca, anch’esso legato da amicizia con Vario e con Virgilio ed Orazio. Oggi in quel luogo si scorge un edificio rotondo come un piccolo Panteon, che viene chiamato tempio della Tosse, forse una corruzione di Tucca.
Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua residenza in Roma tra l’occupazione che gli offriva tale dignità onorifica e lucrativa e tra i diletti della poesia. E fu proprio mentre era occupato nell’ufficio di scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie che avevano già richiamato l’attenzione degli altri eruditi, che nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, ma fu solo dopo nove mesi di prove ed indagini che venne annoverato nel “Circolo di Mecenate”, che rese proverbiale l’etrusco, proteggendo e beneficiando i sommi letterati del suo tempo, tra cui Orazio, Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catullo, Marziale. Dopo nove mesi dal primo incontro con l’uomo più potente di Roma, dopo Augusto, ricevette l’invito di Mecenate ad accompagnarlo in un viaggio a Brindisi per affari di stato. Orazio ne fu entusiasta, anche perché lo fece in compagnia dei suoi più cari amici, Virgilio, Vario e Tucca. E pochi mesi dopo questo viaggio scrisse la satira quinta del libro primo che ne descrive scherzosamente il viaggio, le evoluzioni, gli incontri avvenuti ed altri fatterelli piccanti.
Da allora, fino alla morte dei due, il rapporto con Mecenate fu intimo, sincero e più che fraterno. Orazio conservò sempre una virile dignità, non fu mai un parassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte che li colpì, per strana fatalità, insieme.
Dalle regge di Mecenate, Orazio venne introdotto in quelle del sommo Augusto. Mecenate stesso, che aveva annoverato Orazio fra i suoi prediletti, Pollione ed altri personaggi strapotenti lo presentarono con lusinghiere manifestazioni al signore dell’impero. E Augusto era egli stesso letterato e protettore dei letterati e degli uomini di elevato ingegno. Il suo secolo fu il più fecondo di poeti, filosofi, oratori e scrittori insigni, un periodo d’oro per le lettere e per le scienze. Augusto scrisse a Mecenate che avrebbe avuto piacere di avere un segretario personale come Orazio, ma questi declinò la prestigiosissima offerta. Fu uno dei pochi che osarono dire di no ad Augusto.La villa di Orazio a Licenza
Nel 33 a. C. Orazio ricevette in dono da Mecenate una villa e un podere a Licenza, unico dono che gradì e che si confaceva al suo ideale epicureo e dove, secondo Svetonio, visse molti anni nel ritiro (in secessu) e nella quiete. Un poderetto in un luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della grande città, un tetto sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici protettori, ai quali dimostrava la sua riconoscenza. Tanto gli era non solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne ringraziava le divinità!
Mecenate ed Augusto potevano certo offrirgli più che un podere in Sabina, potevano delegarlo proconsole in terre lontane, dove sarebbe ritornato ricco come Lucullo, ma ciò sarebbe stato offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, un attendersi un deciso rifiuto, perché non erano questi i desideri del venosino.
Il fondo annesso alla villa si componeva di una selva cedua (dove al poeta successe il fiero incontro col lupo) ricca di alberi ghiandiferi che servivano ad alimentare le piccole greggi, un orto nel quale abbondavano prugne, susine e cornioli con diverse altre specie di frutta tra cui non mancavano gli ulivi. Le vite poi formavano la parte più ricca del fondo, e dalla quale Orazio distillava quel celebrato vinello che non disdegnava far gustare al palato di Mecenate. Nel mezzo del podere scorreva un rivolo di acqua freschissima, che formava una cascatella a pioggia e poi una fonte limpida e cristallina che chiamò Fonte Bandusia, forse ispirato da una fonte simile nel territorio di Venosa, e alla quale dedicò una splendida ode (Odi III, 13).
Poco distante dalla villa, verso Roccagiovine, c’era il tempio dedicato alla dea Vacuna, o alla dea della Vittoria, dove Orazio amava recarsi a passeggio e dove, al fresco delle piante che circondavano le rovine di quel sacro luogo, scrisse al suo amico e confidente Fusco Aristio una leggiadra epistola (Sat. II, 10). Il podere, inoltre, era protetto dai venti gelidi dal Monte Lucretile il quale dava anche refrigerio, con la sua ombra, dalla calura estiva, e attraversato dal ruscello del quale Orazio definì le sue acque gelide, il Digentia, l’attuale Licenza, che più a valle bagna Mandela, prima di gettarsi nell’Aniene.
Orazio non era un tipo mattiniero. Egli stesso ci dice che andava a dormire senza il pensiero di dover l’indomani alzarsi all’alba. Andava a dormire dopo avere assaporato una scodella di ceci e lasagne conditi con cipolla, oppure delle buone carni con lardo grasso, o dei raperonzoli o altri ortaggi con olio fine delle sue tenute, accompagnando a queste semplici vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggero. E non disdegnava, a volte, saziarsi con pane intinto in acqua, sale e olio. Orazio affermava che il vino rafforzasse l’estro poetico: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo. Da quando Bacco ha arruolato poeti tra i suoi Satiri e Fauni, le dolci Muse san sempre di vino al mattino”.
Questa sua morigeratezza, non gli impediva però d’invitare a convito amichevole, oltre ai suoi amici letterati, anche gente come Torquato, Settimio, Lollio, Quinzio Irpino, oppure delle allegre giovani avvenenti come Lagage, Gige, Clori, Barine, Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride, e anche il gran Mecenate. Non gli piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e buoni.
La villa di Orazio a Licenza. |
Gli piaceva andarsene a zonzo per la sua terra e dare un’occhiata ai filari di viti, curare gli innesti delle piante e degli alberi da frutta, fatto questo che suscitava curiosità nei mezzadri vicini che, conoscendo le frequentazioni di Orazio presso la corte di Mecenate, Augusto e di altri potenti, non si capacitavano del suo interesse per queste basse faccende rustiche. E dopo queste sue escursioni nel podere coltivava lo spirito scrivendo, leggendo, meditando.
Nei suoi spostamenti tra la villa sabina e Roma, Orazio percorreva la via Tiburtina a dorso di un mulo, e spesso faceva tappa a Tivoli, dove non aveva bisogno di una casa per pernottare, quelle di Vario e Tucca, oltre la sontuosa residenza di Mecenate, erano casa sua. Lo possiamo immaginare mentre decanta, nella villa dei Pisoni a Tivoli, la famosa epistola ad essi indirizzata (chiamata anche Ars Poetica, che deve ritenersi il suo capolavoro, e che può dirsi una lettera didascalica indirizzata ai fratelli Pisoni), oppure mentre nel giardino di Quintilio Vario consiglia al suo amico Munazio Planco di lasciar perdere le arti militari e ritirarsi in Tibur a coltivare le viti. O mentre, seduto all’ombra del tempio della Sibilla, traeva ispirazione nel rimirare la cascata e il sottostante panorama mozzafiato.
Il suo stato di salute si deteriorò negli anni, e agli gli acciacchi della vita trascorsa nelle fatiche mentali, nelle avventure e nei godimenti di Venere si aggiunse ad Orazio la malattia e la morte del suo Mecenate, che nel suo testamento scriveva ad Augusto, secondo Svetonio: «Prendete cura di Orazio Flacco come prendereste cura e terreste memoria di me stesso!».
Il colpo fu troppo violento e doveva riuscirgli fatale. La sua debole fibra non poteva resistere. Pomponio Porfirio dice che non gli conveniva più restare l’inverno nella sua cara villa nelle montagne della Sabina e che negli ultimi tempi usava svernare a Tivoli (ed egli stesso lo scrisse). Ed era a Tivoli che Orazio, infermo, desiderava morire. Così egli scriveva al fedele amico Settimio:
Tivoli, eretta dall’argèo colono.
Della vecchiezza mia fosse la sede,
Fosse riposo a me di terre e mari
E d’armi stanco!
......
E te quel loco e quei beati colli
Chiamano meco: là d’una pietosa
Lagrima spargerai la cener calda
Del vate amico.
Il dolore della perdita del suo più caro amico e protettore Mecenate (egli così amante degli amici e riconoscente) gli procurò un dolore tale da portarlo a una morte improvvisa dopo qualche settimana da quella di Mecenate. E il fatto che fu una morte improvvisa lo prova chiaramente il fatto di non avere avuto il tempo di tessere un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva assistito negli ultimi momenti, mentre lo fece con Virgilio e con altri. Non ebbe neppure il tempo di scrivere il proprio testamento.
Il suo cadavere venne trasportato, tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da nessun antico scritto il luogo preciso dove morì), e posto nella tomba della famiglia Cilnia, accanto al suo amato Mecenate. Il destino decise che Mecenate ed Orazio, uno di nobile stirpe etrusca e l’altro figlio di un liberto, dovessero incontrarsi, vivere più che amici e dormire insieme nello stesso letto l’ultimo sonno.
Giovenale lo indicò nella sua prima satira come: Lucerna venosina, che illuminar doveva il mondo. Una Lucerna che non si è mai spenta. E Orazio disse di lui stesso: Non omnes moriar, non morirò del tutto. Infatti la sua Opera immortale gli sopravvisse in eterno.
Del grande Poeta venosino sono state innumerevoli le produzioni letterarie che ne hanno decantato il nome, postillato e annotato ciascun verso o parola. Non c’è paese al mondo che non abbia offerto sull’altare del culto della poesia perfetta di Orazio il suo attestato di reverente omaggio. In Italia, in Germania, in Francia, in Inghilterra sono stati fatti studi sviscerati sulle opere del gran poeta italiano, e biografie e ricerche storiche molto approfondite su tutto quello che riguarda la sua vita, ed i luoghi ove visse.
A nessun altro mortale è stata concessa tanta venerazione da ricercarne con fatica e profondi studi il sito preciso dove passò i suoi giorni, come era situata la sua abitazione, come era esposta, come era formata.
In conclusione vorrei mandare una frecciatina allo storico Velleio Patercolo che non citò mai Orazio, mentre Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio, Giovenale, Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e cento altri, come un coro unanime, gridarono le lodi del gran venosino.
Inoltre, moltissimi eruditi si sono impegnati a studiare minuziosamente le opere di Orazio. Tra i più celebri ci sono Bentlej, Masson, Dacier, Sanadon, Passow, Kirckner, Franke, Weber, Grotefend, Hart, Milmon, Stalbaum, Weichert, Jahn, Mitscherlich, Dubner, Jacòbs, Leissing, Margestern, Walckenaer, Siringar, Manso, Orelli, Metastasio, Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari, Tommaseo, Cesarotti, Pagnini, Anton Maria Salvini, Pallavicini, Colonnetti, Bindi, Campanella, Rocco, Gargallo e molti altri scrittori di commenti, studi e saggi che si avvalsero degli antichi interpreti delle opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, Emilio e Terenzio Scauro.
Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta pubblicità, diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto Orazio Flacco. Basti pensare all’incredibile numero di edizioni delle sue opere. È qualcosa di inverosimile.
Da molti secoli, in Europa principalmente, le edizioni delle opere del gran poeta possono contarsi a centinaia. E ogni anno se ne pubblicano delle nuove, con nuovi commenti, opinioni e note. Soltanto la Bibbia ha prodotto un fenomeno maggiore.
Dalla nostra Italia, patria del poeta, fino ai più lontani angoli del mondo, troviamo la sua Opera in tutte le lingue tradotta e annotata.
Bibliografia
- Svetonio, Vita di Orazio.
- Dionisio Lambino, Q. Horatius Flaccus,
1565
- Q. Horatii Flacci, Venetiis, 1567.
- Metastasio, Dell’arte poetica, Epistola ai
Pisoni, 1729.
- Dacier, Ouvres D’Horace, 1733.
- R. P. Sanadon, Les Poesies d’Horace, 1761.
- Ludovicus Desprez, Quinti Horatii Flacci
Opera, 1776.
- Mollevaut, Art Poetique d’Horace, 1835.
- Tommaso Gargallo, Opera di Q. Orazio Flacco,
1838
- Antonio Frezzini, La Villa di Q. Orazio
Flacco, 1840.
- Ferdinando Gnesotto, Del contegno di Orazio
verso Augusto, 1884.
- W. Y Sellar, The roman poets of Augustean age, 1891.
- Diego Rapolla, Vita di Quinto Orazio Flacco,
1892.
- Viaggio con Orazio, Edizioni Due Emme,
1991.
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