A cua del dott. Stefano Del Priore
FREQUENTAZIONE PREISTORICA, FONTI CLASSICHE, CENNI STORICI, SCOPERTE E CARATTERISTICHE DELLE ACQUE ALBULE
Nell'esteso complesso planiziale insistente a nord di Bagni di Tivoli, oggi Tivoli Terme, e distante circa 1,6 km dalla via Tiburtina, troviamo i due ben noti laghi sulfurei denominati Della Regina e Colonnelle, quest'ultimo conosciuto anche come Delle isole natanti per via delle zolle galleggianti di terreno che lo caratterizzavano sulle quali era a volte persino possibile navigare, unici due susperstiti del vasto sistema lacustre solfureo, oggigiorno prosciugato, dei Laghetti dell'Inferno e Dei Tartari, assieme ad altre sorgenti. Stando alle descrizione fatta da Giovanni Maria Zappi1 (autore che avremo modo di incontrare nuovamente, in seguito) nel XVI secolo, la pianura travertinosa delle Acque Albule dovette apparire grossomodo simile anche in età preistorica2: data la sua natura paludosa, ben pochi sono gli insediamenti reperiti al suo interno, mentre se ne contano numerosi sulle colline circostanti. Allo stato attuale delle ricerche non si hanno testimonianze circa il Paleolitico Inferiore nell'area qui in esame, mentre nella limitorfa Palombara Sabina, nei dintorni dell'Osteria Moricone, sono stati trovati numerosi insediamenti risalenti al periodo poc'anzi indicato; i ritrovamenti più arcaci sono da ricondurre al Paleolitico Medio e alle frequentazioni dell'Homo Neanderthalensis il quale, seppur frequentando la zona, non vi ha lasciato significative tracce del suo passaggio, differentemente da altre zone del Lazio (forse anche a cagione della geomorfolofia intrinseca del luogo). Trascorrendo gli anni, i dati disponibili divengono ovviamente più numerosi e ricchi: per il Paleolitico Superiore abbiamo la Grotta Polesini, protagonista di un saggio in questa stessa pubblicazione, e della già menzionata e prospiciente Grotta Stella; alla medesima fase risalgono l'insediamento Epigravettiano del Laghetto delle Colonnelle e quello delle Caprine, la cui “lunghezza vitale” si protrae sino al Neolitico e all'Età del Bronzo: tra Neolitico, Eneolitico ed Età del Bronzo i siti sono piuttosto numerosi. Durante l'agosto del 1983 i lavori agricoli effettuati con i moderni strumenti da scasso intaccarono gli strati di travertino ponendo in evidenza manufatti litici risalenti a un periodo compreso tra il Paleolitico Superiore e l'Età del Bronzo, assieme a numerosi frammenti ossei: il materiale appare concentrato in un'area particolarmente ristretto ubicata a un centinaio di metri a Ovest rispetto al lago solfureo e non è assolutamente da escludersi che tale concentrazione abitativa vada a porsi in riferimento con lo sfruttamento delle sorgenti solfuree e l'abbondanza di acqua potabile che vi era nella zona. Il suo lungo sviluppo, oltre che per le ragioni di cui sopra, è certamente da porre in realazione anche alla posizione specifica occupata, posta medianamente tra i camminamenti inoltrantisi nella Campagna Romana e il transito obbligato nei pressi dell'attraversamento fluviale dell'Acquoria, ove si concentravano i transiti diretti verso l'Appennino attraverso Tivoli, una sorta di soglia per le montagne. Il bacino lacustre delle Colonnelle, plausibilmente, funse da ulteriore attrattattore per le antiche genti del luogo, forse dedite a un primevo culto delle acque anche in virtù delle proprietà guaritive intrinseche ai fluidi termali della pianura. I materiali litici constano alcune centinaia di manufatti provenienti dall'orizzonte archeologico, sconvolto dall'azione dei mezzi meccanici e oggi conservati presso il Museo di Sant'Angelo Romano: essi erano inclusi o comunque a stretto contatto con uno strato di travertino giacente a circa 50 cm al di sotto del terreno agricolo. Trattasi quasi esclusivamente di ciottoli di selce di buona qualità, assolutamente non dissimili da quelli rinvenuti dalla non distante Grotta Polesini: possono enumerarsi nuclei atipici, lame, bulini, punte a dorso, grattatoi prevalentemente di dimensioni contenute (circa 2 cm) talora subiscoidali o triangolari simili ai manufatti della Grotta Polesini, lamelle a dorso; presenti anche una coppia di punte di freccia, una sessile e l'altra peduncolata, una lamella di ossidiana, un'ascia levigata in diorite la quale presenta una frattura dovuta all'uso sul lato tagliente e un frammento di martello probabilmente del medesimo materiale, forse anch'esso in diorite. Escludendo questa cinquina di testimonianze chiaramente fuori contesto, il restante delle testimonianze appare in linea con i livelli Epigravettiani della grotta Paleolitica di Ponte Lucano, ovverosia tra i 12 e i 10mila anni fa e compresi nell'arco temporale in cui all'oscillazione temperata di Allerød3, tra gli 11.500 e i 10.800 B.P., fece seguito un clima umido e decisamente più rigido tra i 10,800 e i 10.370 BP., il quale mutò in continentale freddo e poi, via via, sempre più caldo. Il numero dei manufatti, sfortunatamente, è abbastanza esiguo e non consente di estendere il confronto comparato con altre realtà del nostro Paese ma il giacimento, a ogni modo, ha restituito anche frammenti ossei nei quali si riconoscono denti di cervidi e capridi: la presenza di ossa e manufatti concrezionati con la sottostante formazione travertinosa ci lasciano supporre di essere in presenza di un livello appartenente al Paleolitico Superiore in situ. Per quanto concerne il periodo Neolitico e l'Età del Bronzo, invece, in un'area in parte sovrapposta al giacimento Epigravettiano, non troppi anni addietro è stato scoperto un insediamento protattosi durante tutto l'arco dell'Età del Bronzo, con frammentazione fittile rinvenuta nello strato di terra lavorata, spesso circa mezzo metro, che ricopre il banco di travertino: la tipologia di ceramica in situ indica un periodo di frequentazione esteso dal Bronzo Antico sino al Finale: in totale possono essere conteggiati dodici diversi insediamenti, nell'area nei pressi del Bacino delle Acque Albule o quantomeno nelle sue immediate vicinanze, la metà dei quali di tipologia abitativa e i restanti 6 di stampo “aggregativo”: di seguito l'elenco completo redato da Mari e Sperandio:
Fosso delle Tavernucole: scarsa quantità di materiale ceramico attribuibile da un momento avanzato dell’età del Bronzo recente al protovillanoviano;
Laghetto prosciugato di Marco Simone: abitato dell’età del Bronzo medio e recente;
Fosso dell’Inviolata: abitato dell’età del Bronzo medio e recente;
Fosso dell’Inviolata e Fosso Capaldo: abitato dell’età del Bronzo medio e recente;
Colle Lepre: abitato dell’età del Bronzo medio. Si rinvengono anche resti di industria litica di età non ben definibile ma comunque compresa tra il Paleolitico superiore e l’età del Ferro;
Valle Stregara:materiali dell’età del Bronzo medio o recente ed industria litica;
Caprine: materiali fittili riferibili ad un abitato dell’età dei metalli;
Fosso Capaldo: materiali dell’età del bronzo recente (orizzonte subappenninico);
Fosso del Cupo: rinvenimento sporadico di parte di un orciolo probabilmente eneolitico, la stessa zona ha restituito abbondante industria litica databile al Paleolitico medio;
Colle a quota 103: materiali dal tardo neolitico all’antica età del Bronzo;
Collina compresa tra la Tiburtina ed il fosso delle Tavernucole: materiali dell’età del Bronzo antico;
Lago delle Colonnelle: la tipologia della ceramica fornisce indicazioni cronologiche relative ad un abitato con un lungo periodo di frequentazione. La maggior parte è riferibile ad età appenninica.
Negli anni '90 dello scorso secolo il Laghetto delle Colonnelle aveva un diametro di circa 50 metri, mentre quello della Regina, di forma ovoidale e allungata verso S, vantava un'estensione massima di 150x100 m: gli studiosi che ne analizzarono la natura, tra il XVII e il XIX secolo, concordarono nell'affermare che furono interessati da un progressivo restringemento a causa della massiccia crescita di vegetazione palustre e delle concrezioni solfuree, le quali ammanto gli elementi vegetali che depositatisi sulle acque e sospinte poi verso le rive; come anticipato, l'unione di più zolle concrezionate dava origine ad autentici “battelli” galleggianti sui quali era possibile traversare la distesa acquitrinosa e tale caratteristica ha fornito il caratteristico appellativo di “Isole Natanti” al più grande dei laghetti. L'acqua, che ha una colorazione bianca-azzurrina, contiene gran quantità di carbonato di calcio, anidride carbonica e acido solfidrico. La portata complessiva delle sorgenti è di mc. 3,5 in media, la temperatura, assai costante, di 23°,5-24°. L'origine dell'acqua, un tempo molto discussa, deve ripetersi con molta probabilità dalla ricca circolazione profonda nei calcari dei Monti Sabini, dai quali sfuggono a notevole profondità (onde la loro alta temperatura), travasando prima, attraverso qualche fessura la coltre di materiali vulcanici dei Monti Albani, poi la potente crosta travertinosa, che copre tutta questa zona. Il Kircher, antecedente al 1671, trovò il diamentro del lago maggiore pari a circa 477 metri4; un secolo dopo, Cabral e Del Re, osservarono il medesimo lago ovale, con i diametri di 188 e 94 metri. Il restringemento, ovviamente, non ha diminuito il perimetro degli alvei, le cui parete rocciose sono chiaramente visibili al di sotto del livello dell'acqua, quanto piuttosto quello della circostante zone acquitrinosa. I resti di materiale archeologico sono rintracciabili sin di fronte la moderna recinzione, ubicata a circa dieci metri di distanza dalle sponde. Il Lago delle Colonnelle, da Kircher descritto come “fossa profunditatis inscrutabilis”, fu stimato da Cabral e Del Re come profondo meno di 40 metri, circa 38.5 Le opere di bonifica dell'area iniziarono verosilmente in età romana, per quanto scarsissime testomonianze siano giunte a noi in merito, dato l'abbandono e conseguente nuovo impaludamento avvenuto in età medioevale, il quale è stato la causa di copertura di tutti gli insediamenti posti nella fascia S/O. Altrettante parche testimonianze si hanno a riguardo di un emissario scaricante le acque eccedenti nel vicino Aniene, parzialmente costruito e intagliato nella roccia, di cui ci danno notizia il Canina e il Bulgarini6; a ogni modo, oggigiorno non ne resta alcuna traccia visibile. Nella mappa di Eufrosino della Volpaia vi è testimonianza che già agli inizi del XVI secolo esso era caduto in disuso e non più funzionante, dato che a O della palude chiamata Le Sestine, bordante la zona compresa tra il Casale di Sant'Antonio e il Lago dei Tartari, è rappresentato un emissario di considerevoli dimensioni, tributario del fiume Aniene. Altra interessante menzione è quella di Joseph-Jérôme de Lalande, astronomo francese, in “Voyage d'un Français en Italie fait dans les années 1765 et 1766”:
“La Ninfa Albunea era la Sibilla Tiburtina, secondo Lattanzio. La Solfatara di Tivoli, acqua Zolfa, in latino aqua Albulæ è una sorgente la cui acqua biancastra ha l'odore e il colore dello zolfo, che gli ha dato quel nome, anche se è molto diverso da quello della famosa Solfatara di Napoli, che è una sorta di vulcano. L’Abate Nollet ne ha fatto una descrizione nelle Mémoires de l’Académie del 1750. L’Abate Mazeas che la aveva esaminata nel 1758 ne parla nel quinto volume delle Mémoires presentate presso l'accademia, come quella nei pressi di Viterbo. Infine, anche il signor Fougeroux ha descritto quella di Tivoli nelle Mémoires del 1770. Si trova a due miglia a nord, o verso sinistra dalla strada per Tivoli.
Quando siamo arrivati a due miglia da Tivoli, si passa un canale d'acqua azzurra; è un corso d'acqua di quattro o cinque piedi di larghezza e altrettanti di profondità e che il cardinale d’Este ha fatto scavare per condurre al Teverone le acque della Solfatara, e bonificare la palude: l'acqua scorre abbastanza rapidamente ed esala un odore di fegato e di zolfo che ha dato il nome d'acqua Zolfa. Questo odore epatico si estende tutt’intorno, abbastanza lontano, e sembra che il vento a volte lo porti fino a Roma; dipende da un fluido elastico, che i chimici moderni chiamati “gaz hépatique “, che fuoriesce dall’animo di zolfo terroso. Il vapore penetra gradualmente le pietre, e si divide in modo che la parte bassa della pianura tra il fiume e la montagna è stata corrosa e a giudicare dagli effetti fa su serio; la terra stessa ribolle in più punti e forma delle buche, da cui vediamo un vapore denso, e in cui sublimano effluvi di zolfo. Le grotte che si trovano sul lato del Teverone contengono inoltre incrostazioni uniche, prodotti dalle acque sulfuree. L'acqua Zolfa ha poco calore: il termometro dell’abate Nollet, che misurava allora sedici gradi all'aria aperta, arrivò solo fino a venti gradi in acqua; è molto diversa da quella che si trova ad una lega da Viterbo, e il calore non raggiunge la temperatura dell’acqua bollente; il ribollìo che si vede a Tivoli non proviene da fonti di calore, ma sono bolle di gas epatico che esalano. La sorgente è propriamente detta Solfatara, e si trova a due miglia dalla strada, è un piccolo lago di 30-40 tese (iarde) di diametro ed è estremamente profondo al centro. Mr. Fougeroux ha misurato più di settanta iarde appena vicino al bordo; vediamo molte piccole isole galleggianti assai singolari che sembrano essersi formate dal suolo che le acque hanno eroso, che si sono staccate dalla riva: se ne è parlato nel viaggio di Spon in Italia. C'è, in una sponda del lago, un luogo in cui a volte facciamo dei bagni per i reumatismi e la scabbia; si parla di queste acque in Galeno (Methodus medendi, L. VIII simpl. Medic.) Lì vicino si notano delle casupole, che gli antiquari (archeologi) credono essere state le terme di Agrippa, e che si chiama bagni della Regina. Vi sono state trovate due colonne di marmo antico. Quest’acqua non solo contiene zolfo, ma, secondo alcuni fisici, un po' di sale marino con una base terrosa, e anche parti di ferro; essa deposita e forma una incrostazione che è una vera e propria pietra da taglio; è il Travertino con cui è stata edificata Roma, che infatti odora di zolfo; la Cava di Travertino non è distante da lì. Ci sono in giro parecchie case di campagna degli antichi romani, in particolare quella del giureconsulto Regolo, dove ci sono ampi portici; se ne parla in Plinio e in due epigrammi di Marziale. Possiamo vedere lunghi dettagli su queste antiche dimore nel libro di Padre Volpi.
(Vulpius, Vetus Latium. Vedi anche Vetus Latium profanum et sacrum, Petri Marcellini Corradini. Romæ, 1704, 2. vol. in-4. Descrizione di Roma e dell'Agro Romano dal. P. Eschinardi, accresciuta dall'Abbate Venuti. 1750. Découverte de la maison d'Horace, par M. Chaupy, 1767. 3 vol. in-8.)”
Rimarchevole anche la testimonianza del prof. Schulze in un articolo datato al settembre del 1883 e contenuto "Deutsche Bauzeitung" (Figure 5 e 6), trattante il moderno stabilimento termale delle Acque Albule e alcuni cenni storici:
“1) Sale da pranzo
2) Grotta.
3) Camera
4) Infermeria.
5) Cucina.
6) Tavola calda.
7) 8) Riservato agli uomini.
9) Bagno Riservato.
10) Riservato alle donne.
11) Arrivo e Spogliatoio.
12) Bagni caldi.
13) Giardino chiuso.
14) Oratorio.
15) Aziende zootecniche.
16) Tettoie automobilistiche d. Ippodromo.
17) Lavatoi.
18) Negozi
Le solfuree Acque Albule di Tivoli.
Imponente scala di macerie in malta cementizia magra. Nella mia recensione sulla parte architettonica, nell'ultima mostra di arte romana (No. 72 d. Bl.) mi sono riservato di fare una comunicazione speciale sulle Acque Albule ed eccomi qui ad esaudire la promessa. Le planimetrie e le medie comunicate sono prese in prestito da "Ingegneria Civile e le Arti Industriali", mentre la mente attraversava la vasta Campagna che conduce direttamente allo stabilimento. Il complesso è diviso dal canale in due metà simmetriche, la cui parte destra è riservata al gentilsesso, mentre la sinistra rimane al cosiddetto sesso forte. Nel centro di tutto si erge la più alta costruzione, ci sono le sale d'attesa, le sale da pranzo, la cui prospettiva è facilitata dal mio disegno sul posto. Le Acque Albule (in latino Aquae Albulae) già apprezzate dagli antichi romani per la loro fama di santissime e poeti, storici e celebrità della medicina hanno sempre esaltato il potere miracoloso di queste acque sulfuree. A 20 km da Roma, vicino alla via Tiburtina e nei pressi delle stesse sorgenti che si versano in due bacini, il più grande “lago della solfatara”, l'altro più piccolo è chiamato “lago di S. Giovanni”; l’emissario, che proviene dal lago della solfatara, costruito da parte del cardinale d'Este nel XVI secolo, finisce ad alimentare le acque del fiume Anio (aniene). Oltre alle sorgenti, tutt’oggi sono ancora in piedi le rovine delle vecchie terme sulfuree e della vecchia scala di Agrippa. Il nuovo stabilimento balneare sorge sul punto in cui dove il canale interseca la vecchia via Tiburtina e la strada attuale del tram a vapore che parte dalla Farmacia di Porta S. Lorenzo, ci sono l’ufficio postelegrafonico coperto frontalmente, la sala ristorazione, sormontata da un ottagono mobile a cupola bassa, dal quale ci si affaccia su tutto lo stabilimento in tutte le direzioni come stare su un’alta piattaforma con una magnifica vista sulla Campagna e le catene montuose dei monti Albani, Sabini e Volsci, e godersi il mare. Ciò che circonda questi edifici, lo chiameremo il giardino, anche se gli abbondanti Eucalyptus piantati, i lontani salici piangenti e altri alberi sono senza prato, piantati su una terra cotta e riarsa dal solo, e fanno solamente il minimo di ombra necessaria di cui si sente la mancanza. In mezzo a questo giardino in questione con i suoi apparecchi per esercizi ginnici sparsi, ci sono voliere, poligoni di tiro, ecc, ci sono 4 grandi piscine con le loro cabine allineate intorno a grande arco da 200 cabine singole con lavabi in mattone da 0.90 a 1.30 mq. (scale escl.) e uno spogliatoio superiore; essi sono aperti ad anelli al giardino recintato e possono essere protetti da coperture di protezione da occhi indiscreti e dai fastidiosi raggi del sole. Le vasche portano circa 3 metri cubi di acqua, che si rinnova costantemente. Padiglioni, che seguono le strutture unicellulari che fungono da camere familiari per 6-7 persone e sono forniti velocemente da 3 metri cubi al secondo o 260 milioni di litri ogni 24 ore; una ingegnosa rete di canali che si distribuisce su tutta la superficie e consente nel breve lasso di 20 minuti, di svuotare tutte le piscine grandi e piccole e di riempirle nuovamente fino al livello più alto al massimo in 40 minuti. Ben equipaggiato, con ottimo gusto decorativo pompeiano è il vestibolo, con servizi igienici e spogliatoio, bagno privato, acqua corrente, anche con il riscaldamento per chi vuole fare il bagno durante la stagione invernale qui. Una grotta ricca di stalattiti serve anche come sala per inalazioni. La quantità di acqua che scorre attraverso le condutture dello stabilimento, serve anche alle esigenze del ristorante, per bere e cucinare, per la lavanderia, le docce fredde ecc., è acqua Marcia, che viene dalla bassa Sabina. Una grande vasca fuori dallo stabilimento è ad uso dei poveri e degli ammalati, disinteressatamente, e anche l'acqua del deflusso delle piscine, che si raccoglie in piccoli laghi provvisori, viene usata. I cani e cavalli vengono utilizzati per il divertimento. La vicina antica Tivoli, con la sua incantevole posizione vecchia, la sua aria fresca, la potente cascata dell’Aniene, i suoi templi e le sue ville sarebbe una magnifica residenza estiva per i bagnanti dello stabilimento, ma è il desiderio di un giorno alla Versailles Romana che si acquista, probabilmente per una convinzione devota nei miracoli. Gli stabilimenti balneari nella loro disposizione, mostrano comunque il marchio della grandezza. Sebbene la sua architettura non sia esattamente ortodossa, come spiega i motivi economici l'architetto Anderloni, il contraente del tutto è simultaneamente ovunque porre fine a … […]
Roma, settembre 1883. F. O. Schulze.”
(Testo e traduzione dalla collezione privata di Fabrizio Accadia, Consigliere di ArcheoTibur con Delega alle Pubblicazioni Scientifiche)
Figure 5 e 6 - Immagini tratte da “Deutsche Bauzeitung” del settembre 1883.
Concludiamo questa parte dedicata alla testimonianze storiche di rimarchevole interesse con la descrizione della pianura termale vergata da Don Stanislao Rinaldi, Arciprete della Basilica Cattedrale di San Lorenzo in Tivoli, contenuta in “Guida a Tivoli”7, datata alla seconda metà del XIX secolo: (Figura 7)
<<Quindi a sinistra apresi il lago de' tartari; le sue acque furono tali che ricoprendo ciò che veggetò intorno a loro vi formarono sopra un tartaro il quale divenne solido e fè poi corpo da sé, perito ciò che vi esisteva dentro di primitivo. Quest'acqua per sua indole si è chiusa da se stessa le vene, onde spicciava; però il lago al presente viene bagnato solamente d'inverno per gli scoli ma nella state è a secco. I tartari, de' quali anche ora vedesi ricco il luogo intorno intorno, sono di mille stranie guise e di vago ornamento. A quattordici miglia da Roma ed a poco meglio che quattro, secondo la nuova strada, da Tivoli il pessimo odore delle Acque Albule manifesta vicina la loro sorgente. Esse hanno origine in un lago volgarmente detto dell'Acqua Solfa, poco lungi dalla strada maestra. Il canale diritto e lungo due miglia, che trapassa la via romana e conduce quest acque a metter foce nell'Aniene, fu aperto dal Cardinale Ippolito d'Este Governatore di Tivoli sotto il Pontificato di Giulio III ché prima scorrevano largamente a danno delle campagne. Lunghesso il canale a sinistra nel 1852 furono scavati seni nella terra coperti sopra a capanne di frasche per servire di bagni; il concorso de' forastieri che di Roma e altronde vennero a valersene superò l'espiazione conceputa, è quel che è meglio se ne usarono con regola n'ebbero a vantaggio alla persona. Negli anni appresso vi furono costruite camerette di tavole provvedute di maggiori comodità, perciò non si dubita che sarà reintegrato a queste acque il primiero lustro, e di esse gli antichi Romani ebbero stima tale che le chiamarono “Sanctissimae” e fino prestarono loro cullo, lo stesso Imperadore Augusto se ne valse, come ne fan fede Svetonio e le sue magnifiche terme, se già non sono di M. Agrippa, come altri s'avvisano.>>
Figura 7 - “La campagna romana e i laghi sulfurei nei dintorni di Tivoli”, incisione di G. Gallieni, casa editrice Fratelli Treves, Milano, 1870.
Tornando alle opere di bonifica operate dai romani, esse dovettero iniziare con molta probabilità attorno al III secolo a.C., comprovato dalla numerosa frammentazione fittile di vernice nera, periodo in cui la zona ubicata a N della Via Tiburtina iniziò a popolarsi sino a raggiungere la massima densità abitativa tra il II e il I secolo a.C., periodo nel quale sono databili la maggior parte degli edifici di cui abbiamo, a oggi, resti tangibili. Possediamo numerose testimonianze di autori classici e post antichi8 (seppur delucidazioni di interesse topografico siano abbastanza rare) a riguardo delle virtù terapeutiche delle Acque Albule9, le quali erano considerate in possesso di capacità mediche e sanatorie, che vennero utilizzate in pieno con l'edificazione, ascrivibile all'età adrianea, delle cosiddette Terme di Agrippa: il geografo greco Strabone (Στράβων/Strábōn, Strabo; Amasea, pre 60 a.C.-Amasea, tra il 21 e il 24 d.C.), nel suo Γεωγραφικά-Geōgraphiká10, attesta la presenza di una vasta pianura paludosa da cui sgorgavano le medicamentose sorgenti, mentre M. Vitruvio Pollione (Marcus Vitruvius Pollio, Formia, 80 a.C. circa–post 15 a.C. circa) scrisse11 addirittura di un Flumen Albula, probabilmente riferendosi proprio all'emissario di cui sopra; Plinio il Vecchio (Gaius Plinius Secundus; Como, 23-Stabia, 25 agosto o 25 ottobre 79) si soffermò sulle proprietà medicamentose e fisiche delle acque12, mentre Marziale (Marcus Valerius Martialis; Augusta Bilbilis, 1º marzo 38 o 41-Augusta Bilbilis, 104) ne restituì una descrizione alquanta vaga (“Caaque sulphureis albula fumat aquis”)13. Altri autori latini le citarono, seppur indirettamente14, mentre è di estremo interesse la testimonianza di Gaio Svetonio Tranquillo (Gaius Suetonius Tranquillus, forse Ostia 69 circa-post 122), in cui ci viene tramandata sia la grande virtù terapeutica delle solfuree acque albule, di grande giovamento per la cagionevole salute del primo Imperatore di Roma, Ottaviano Augusto (Gaius Iulius Caesar Augustus, nato come Gaius Octavius Thurinus ; Roma, 23 settembre 63 a.C.-Nola, 19 agosto del 14 d.C.),15 sia l’amore che per esse nutriva Nerone, al punto tale da volerle mescolare all’acqua marina durante i bagni16. Delle Acque Albule tornò a parlarne il geografo Pausania il Periegeta (Παυσανίας/Pausanías; 110-180), soffermandosi sul peculiare fenomeno per cui le acque, fredde al primo contatto, divengono via via più calde con il passare del tempo trascorso in immersione17. Ulteriori attestazioni provennero da autorevoli medici e sapienti dall’età imperiale sino all’Alto Medioevo, quali Antonio Musa18, Archigene d’Apamea (Apamea, I secolo-Roma, II secolo)19, Celio Aureliano (Caelius Aurelianus; Sicca, floruit V secolo – Roma, ..)20, Galeno (Pergamo, 129-Roma, 201 circa)21, Isidoro di Siviglia, Paolo d’Egina (Egina, 625 ?-690 ?)22 e Aezio Amideno23(Aetius Amidenus/Αέτιος Αμιδηνός; Amida, seconda metà del V secolo–Alessandria d'Egitto, prima metà del VI secolo), questi ultimi due in particolare contro ulcere, dispepsie, emorragie e patologie della vescica, ognuno dei quali raccomandò bagni terapeutici nelle fonti solfuree per curare specifiche malattie24; ragguardevole è anche l’indicazione della stazione termale contenuta nella Tabula Peutingeriana25, denominata come Roma, Via Tiburtina, Ad Aquas Albulas XVI. Documenti e accadimenti concernenti la storia del luogo durante il Medioevo e l’Età Moderna sono il Possessio Sufuratarum26 fruttante un reddito di 66 solidi su di una superficie di 50 ettari, presso la Basilica di San Lorenzo fuori le Mura da parte dell’Imperatore Costantino (Flavius Valerius Aurelius Constantinus; Κωνσταντίνος ὁ Μέγας/Konstantínos o Mégas; Naissus, 27 febbraio 274-Nicomedia, 22 maggio 337) e lo scavo di un nuovo canale di deflusso dell’Aniene, avvenuto nel 1556 per volere del Cardinale Bartolomeo della Cueva, allora Governatore di Tivoli: all’opera d’ingegneria idraulica contribuirono finanziariamente anche il Cardinale Ippolito d’Este e il Comune della Città. Così come analizzato in “Culti & Dei nell'Antica Tibur – Pars Quarta”, le figure di Albunea e Albula27 furono chiaramente entità sovrannaturali distinte e profondamente differenti, così come è da ricercarsi in Servio Mario Onorato (Servius Marius Honoratus; floruit fine IV secolo; ... – …) nel suo Commentarii in Vergilii Aeneidos libros28, l’origine dell’errore poiché, nel descrivere gli scrupoli religiosi messi in atto dal Rex Sacrorum Latino, trasla l’Alta Albunea sulle vette dei Monti Tiburtini; forse sussiste una labile possibilità di ubicare l’Albunea virgiliana, da relazionarsi al significato di selva o zona boschiva, nelle circumvicinanze dei laghi solfurei (ne resterebbe ancora memoria topografica nel cosiddetto Bosco del Fauno). La grande creatività poetica di Virgilio (Publius Vergilius Maro; Andes/Mantova, 15 ottobre dle 70 a.C.-Brundisium/Brindisi, 21 settembre del 19 a..C) ha dato luogo a una serie di locazioni collegabili con le vicende del Re Latino, per quanto sarebbe forse geograficamente corretto collocare la descrizione specifica del Nemus nell’area paracostiera ubicata a meridione di Roma29: l’area delle Terme Albule è, in tal senso, però ricchissima di frammentazione fittile inquadrabile in un periodo compreso tra il Bronzo Medio e Finale, chiara riprova dell’ancestrale frequantazione umana del sito. In età romana, oltre alle iscrizioni propriamente riferibili alle Terme, rimarchevoli sono una dedica Herculi Sacrum30, l’epitaffio 390731e alla Magna Mater Cibele32; altre epigrafi raccontano di un Severo, un Umbreno e un Enelado che felicemente fecero uso dei bagni, tramandandocene testimonianza votiva.33
Figura 8 - Laghi della Solfatara di Pomezia, in provincia di Roma.
CRONISTORIA DEL SITO
Il sopracitato passo di Svetonio ci fornisce un inequivocabile inquadramento temporale circa la frequentazione, a scopi medici delle acque termali, perlomeno dall’inizio dell’età imperiale, con Ottaviano Augusto intento a corroborare la sua cagionevole salute attraverso bagni cum ligneo solio: probabilmente, è proprio da questo passo che la tradizione moderna, iniziata con l’autorevole parere del medico Andrea Bacci nel 1500, ha iniziato ad attribuire a Marco Vipsanio Agrippa (Marcus Vipsanius Agrippa; Arpino, 63 a.C. circa–Campania, 12 a.C.), il quale fu particolarmente attivo durante il suo periodo in fatto di edificazione di bagni salutiferi34, la costruzione dell’edificio termale ubicate sulle sponde a SO del Lago della Regina. Il primo a dubitarne fu il grande archeologo britannico Thomas Ashby (n. Staines, Middlesex, 1874-m. in treno, nel Surrey, 1931). il quale more solito trovò poco o affatto riscontro nei pareri degli eruditi tiburtini (evidentemente storicamente refrattari ad opinioni che, per quanto probanti, vanno contro ciò rappresenta il pensiero comune), nonostante fosse il fautore di un'imponente raccolta di letteratura archeologica e scientifica circa la cronistoria delle Terme, dagli scavi effettuati nel XVI secolo in poi; anche il Canina, per quanto riconobbe il valore dell’ipotesi di attribuzione ad Agrippa delle terme, ebbe a sottolineare che la tradizione non era sostenuta da nessuna prova tangibile e al quale dobbiamo riconoscere il merito di aver documentato a livello planimetrico le strutture murarie ancora esistenti. Da un punto di vista squisitamente archeologico, ciò che risulta l’analisi delle struttutre superstiti e dei bolli doliari, è che la fabbrica venne a impiantarsi in età adrianea, successivamente restaurata e modificata per ragioni legate alla staticità. Le evidenze monumentali iniziano con il primo ventennio del II secolo ma testimonianze più antiche sono comunque rintracciabili, al pari dello sfruttamento delle acque termominerali che iniziò secoli prima; a riprova di ciò, sussistono le accurate conoscenze mediche circa le loro proprietà benefiche, tali da averle rese famose e piuttosto note già agli albori dell'Età Imperiale dell'Urbe: questo risultato dovette sicuramente attraversare, ben conoscendo il Modus Cogitandi del mondor romano, un lungo processo di sperimentazione, grazie anche alla presenza degli insediamenti di epoca repubblicana sorti attorno alle propaggini dell'area sulfurea. Parallelismi probanti, in tal senso, possono essere facilmente individuati nei primi esempi a noi noti di fabbriche edilizie termali, localizzati nei pressi delle sorgenti atte a usi terapeutici e guaritivi, anche della tipologia sudatoria e laconica, indi per cui non esclusivamente legate alla natatio. Se dobbiamo rintracciare un punto zero relativamente all'affinamento e perfezionamento di queste terapie, è necessario spostarsi nell'area del litoale baiano-puteolano, in Campania, il quale può vantare una ricchissima quantità di calde risorgive d'origine vulcanica: proprio qui maturò la competenza tecnica necessaria all'invenzione delle balineae pensiles, il complesso degli ipocausta-suspensurae ideato, secondo tradizione, dal già menzionato imprenditore industriale Gaio Segio Orata nel I secolo a.C. e largamente utilizzato, poi, in epoca imperiale; in ambiente sabino, l'utilizzo delle solfuree Aquae Cutiliae è ascrivibile al termine del II - inizi del I secolo a.C., e tale resterà almeno fino alla tarda antichità, ovverosia fin quando le conoscenze idroingegneristiche, necessarie al corretto mantenimento delle funzionalità dei complessi termali, saranno opportunamente tramandate e conservate. Analogo situazione permarrà nella stazione ad Aquas Albulas, attiva fino al IV secolo d.C. circa seppur sulla Tabula Peutingeriana (Figura 9), a differenza dello stabilmente presente sulla Via Salaria, essa viene a mancare della caratteristica vignetta. Ulteriori indicazioni circa uno sfruttamento dell'area in età repubblicana non sono oggigiorno rintracciabili, poichè non presenti e quindi releganti la situazione a un utilizzo più artigianale oppure perchè non è stato ancora possibile portarle alla luce o individuarle con certezza.
Figura 9 - Le cosiddette Terme di Agrippa e le Acque Albule sulla Tabula Itineraria Peutingeriana - Tav. IV.
ANALISI DEI RESTI
I resti attuali sono racchiusi in un recinto murario di 44x30 m., delimitante un casale settecentesco formato dai corpi di fabbrica dalla dispozione a squadra, aventi i lati corti composti da una triade di imponenti piloni di Opus Caementicium. L'edificio termale si componeva, probabilmente, di un grande quadrato, diviso in 9 corpi (3 per lato), ai cui spigoli se ne innalzavano altri di forma circolare, donando alla vista esterna un'armonica alternanza di spazi vuoti e pieni. Tra il recinto del casale e i laghi corre una strada campestre, attraversante l'intera area archeologica: il terreno sito a N è costellato di materiale a uso edilizio delle tipologie più disparate, tra le quali spiccano spaccati laterizi, blocchi pavimentali con mosaico adagiato su Opus Signinum, lastre di travertino, minute cornici modanate, bipedali, mattoni tubolari, crustae marmoree di giallo antico, porfido e granito; lungo la strada che cinge il Lago delle Colonnelle si riscontrano anche poligoni stradali in basalto, forse da porre in relazione con il braccio N dell'antica Tiburtina Valeria. Per ciò che concerne i ruderi veri e è propri, l'ala rivolta a meridione è divenuta una sorta di casa colonica, mentre quella posta a ponente è in stato di forte abbandono e fatiscenza; l'intero perimetro del complesso termale è ovviamente molto più ampio e si estende sin quasi alle propaggini delle rive lacustri, ove si intravedono emergenze di resti murari in affioramento (e, purtroppo, spesso danneggiati dalle operazioni di aratura), con una copertura massima totale stimata in circa 6000 mq. Le restanti porzioni dell'area sono interessate solamente da scarsi e poco importanti ritrovamenti ceramici ed edilizi, con la sola presenza di un angusto passaggio quale struttura muraria. Il succitato recinto è diviso in due settori dai livelli sfalsati di circa 1 metro: il superiore, a meridione, dovrebbe essere grossomodo corrispondente a uno degli antichi piani pavimentali, mentre il secondo risente del forte inerramento degli ambienti posti più in basso. Le strutture a materiali aggreganti si trovano, invece, agli angoli del primo settore, con le due occidentali alte circa 8 metri internamente e rassomiglianti a torri dalla base quadrangolare, aventi uno degli spigoli surrogato da un ampio incavo dalla forma tondeggiante: quella posta a SE si presenta con piana rettangolare e oggigiorno risulta troncata, poiché vi sono state ricavate delle scale conducenti al piano superiore del casale. Tutte i bastioni sono costituiti da due differenti tipologie di muratura, una interna al recinto comprendente frammenti di Opus Latericium e l'esterna costituita invece di scaglie travertinose, incluse in un imprecisato ma successivo momento; tracce di un quarto pilone nell'angolo NE erano visibili sino agli anni '80 circa, ove sono ancora visibili i resti di un muro a secco in travertino. La parca quantità di porzioni in laterizio, rispetto al cementizio in scaglie, ci ha consentito fondamentalmente di vagliare ipotesi grossomodo attendibili su come dovette apparire l'edificio, i cui muri avevano uno spessore superiore ai 2 metri (2,10, per l'esattezza). Gli accenni della parete congiungente i muri, sulla sommità maggiormente isolata rispetto alla base e grazie a uno sgrottamento, lasciano intravedere un andamento decisamente curvilineo; la cortina risulta costituita da un compatto filare di laterizi triangolari, mentre il tratto rettilineo utilizza 4 ricorsi di bipedali, con distanza media di circa 1,35m; rimarchevole anche il cervello di un arco di scarico, facilmente individuabile dai sesquipedali di legamento, la cui funzione era di rinforzare il muro di fondazione. Dalla disposizione dei tratti in Latericum risulta il perimetro di una grande aula rettangolare con i lati lunghi dall'andamento rettilineo mentre quello corto, orientato a O, incurvato a formare un'abside mentre quello opposto, di cui sfortunatamente non resta alcuna traccia visibile, seguiva andamento quasi del tutto tangente al recinto, da cui era separato tramite il pilone; non è certo peregrino immaginare la presenza di un'altra abside speculare all'altra, seguendo uno spartito osservabile in analoghe strutture termali. Le dimensioni dei piedritti furono minuziosamente studiate per creare una struttura di sostegno a una copertura d'imponenti dimensioni, forse un'area di 27x12 m. (escludendo i settori curvilinei). Non possediamo abbastanza elementi per poter ipotizzare, invece, quale tipologia di volta coronasse la struttura, se fu a crociera oppure a botte continua35. La linea d'imposta dovette risultare sollevata di circa 6 metri, misura corrispondente ai piedritti superstiti e a quella di un colonnato rimosso nel XVI secolo, periodo in cui iniziarono le attività di scavo (o, per meglio dire, predatorie) dell'area; il pavimento dell'aula, ribassato di circa m. 1,60 rispetto al livello fin qui analizzato, è rivestito di Opus Tessellatum in tessere calcaree di media grandezza ed è in ottimo stato di conservazione. E' altresì plausibile la presenza di scalette perimetranti lo spazio attorno all'aula e sul lato settentrionale è possibile riscontrare la presenza di almeno quattro vani; gli ambienti posti sul lato lungo dell'aula ebbero la funzione di contraffortamento, così da neutralizzare (o quantomeno minimizzare) le spinte della poderosa copertura. Poco dopo la costruzione della stazione termale, a causa del naturale cedimento del terreno, il quale era attraversato in profondità dalla ricca falda acquifera solfurea, si rese necessaria un'opera di restauro statico allo scopo di preservare l'integrità della struttura, poiché l'imponente aula mostrò segni di chiaro dissesto dovuti all'indebolimento delle fondazioni con seguente inclinazione delle pareti, spinte verso l'esterno a causa della pressione eccessiva della volta. Venne inizialmente aggiunto un muro esterno: il restauro non alterò l'estetica del monumento ma neanche si ottenne l'effetto sperato, così che vennero innalzati i poderosi contrafforti angolari in Opus Camenticium, i quali si andavano a innestare sino alle reni della copertura. Il dissesto finale è, con elevata probabilità, proprio da attribuirsi alla scelta di questa tipologia di restauro, resasi indispensabile per contrastare la spinta della copertura: il peso eccessivo dato da quest'ultima e dai rinforzi messi in opera per limitarne l'azione, uniti alla preesistente cedevolezza del terreno zuppo di acqua nelle sue profondità, fecero inclinare l'intero complesso di circa 5° causandone il crollo. La forma dei contrafforti, costituiti da una coppia di tratti di muro ad angolo retto, è la medesima in uso sin dal periodo repubblicano negli angoli delle cisterne e nelle bases villarum ma migliorati grazie a una considerevole modifica architettonica, la quale sostituì l'angolo con una nicchia semicircolare a due piani. Il prospetto è ricostruibile con buona accuratezza, de facto, solamente nel lato NO, poiché meno interessato da distuzioni e alterazioni; l'ultimo pilone possiede una forma piuttosto funzionale, anziché di abbellimento, essendovi stato ricavato un minuto vano rettangolare coperto con volta “a collo d'oca”. Restano piuttosto misteriose le numerose cavità quadrangolari praticate nella porzione superiore dei contrafforti e ai 2/3 di altezza, essendo la loro funzione attualmente poco chiara, seppur non sarebbe azzardato vedere in esse delle bocche di aereazione il cui scopo era di facilitare il tiraggio di concamerationes probabilmente presenti nella volta dell'aula. Per quanto plausibile, però, tale ipotesi non è minimante suffragata da alcun rinvenimento di tracce riferibili a sistemi di riscaldamento e il numero di fori presenti sembra apparire davvero troppo elevato; a tal riguardo, possiamo invece ravvisare che la presenza di gradini, l'altezza delle pareti svettante sulle circostanti strutture e l'apparente (perlomeno, sino a oggi) assenza di impianti di riscaldamento lascerebbe piuttosto supporre a un Heliocaminus. Questa parola appare raramente nelle fonti latine, per la precisione due sole volte: nelle Epistole di Plinio il Giovane e nei Digesti, una compilazione di frammenti di opere di giuristi romani realizzata su incarico dell'Imperatore Giustiniano I. La parola di solito viene interpretato come “stanza esposta al sole”, o “stanza che serviva a raccogliere la maggiore quantità possibile di sole”, qualcosa cioè simile a un solarium, oppure un appartamento esposto al sole usato come dimora invernale; particolare notare che la voce non compare negli scritti di Vitruvio che, essendo architetto, avrebbe dovuto conoscerla. Nella lettera di Plinio il Giovane all’amico Gallo (Plinius, Epistularum, 17, Liber 2, 20) in cui descrive minuziosamente la villa che possedeva a Laurentum, nei pressi di Ostia. In questa descrizione egli accenna anche a un heliocaminus dicendo: “in hac heliocaminus quidem, alia xystum, alia mare, utraque solem [...]”, ossia descrivendo un bagno solare orientato da da un lato verso una terrazza (xystum) e dall’altro verso il mare, in modo da ricevere sole d'ambo i lati. Nella sua lettera, Plinio il Giovane descrive varie stanze e sale esposte al sole, ma solo per uno di questi ambienti usa la parola heliocaminus. Tutto ciò induce a pensare che l’ambiente in questione doveva avere una qualche peculiarità speicifica che lo contraddistingueva da tutte le altre, seppur egualmente orientate verso il sole. E' plausibile che il termine scelto da Plinio faccia riferimento alla forma architettonica dell’ambiente, dato che in latino un caminus è una fornace, ovverosia fornax. Essa era una costruzione in muratura destinata alla cottura di laterizio e terrecotte: le vecchie fornaci, qualche esemplare è ancora in uso presso alcuni artigiani, erano a pianta circolare con una cupola in alto e dotate di una piccola apertura dalla quale fuoriuscivano i fumi. Era riscaldata da sotto con un fuoco che veniva acceso in una camera di combustione collocata nelle porzioni inferiori della costruzione. Estremamente funzionale, distribuiva uniformemente il calore, lo manteneva più a lungo al suo interno e faceva risparmiare combustibile (legna o carbone di legna). La parola heliocaminus andrebbe pertanto tradotto come “forno solare” ed sarebbe riferibile a un ambiente particolarmente ben riscaldato, sia dal pavimento tramite ipocaustum, sia dal sole che penetrava da finestre vetrate esposte verso il quadrante sud. Non si tratta quindi di una stanza o di un appartamento esposto al sole e usato come dimora invernale, quanto piuttosto di un ambiente atto a svolgere funzioni assimilabili alle sudatione e solarium, ma con un'accezione squisitamente curativa; conobbe particolare fortuna e diffusione presso villae rusticae (queste sorgevano laddove vi era sufficiente spazio per costruire estesi complessi, allo scopo di poter conferire ad ogni tipo di locale l’orientamento più adeguato) e in età tardoimperiale, per quanto fosse già diffuso anche nei secoli precedenti. La seconda fonte in cui appare la parola heliocaminus è nei frammenti, componenti il successivo Digesto, di Enea Domizio Ulpiano, uno degli ultimi grandi giuristi romani dell’epoca classica. Nato a Tiro, in Fenicia, verso il 170 e morto a Roma nel 228 d.C. apparteneva, insieme al suo collega Paolo, al concilium del prefetto pretorio Papiniano; assunse poi la posizione di quest’ultimo e, nel 228 d.C. venne assassinato da un gruppo di pretoriani in rivolta. La sua attività di scrittore fu molto prolificia; compilò infatti circa 280 libri: estratti delle sue opere furono ampiamente impiegati nella redazione del Digesto di Giustiniano. In questa collezione di leggi, l’heliocaminus è equiparato al solarium, a un ambiente in cui si prende il sole, oppure riscaldato dal sole, ma in ogni caso a un luogo ove i caloriferi raggi dell'astro sono assolutamente necessari.
Ulpiano scrisse36:
“Si arborem ponat, ut lumini officiat, aeque dicendum erit contra impositam servitutem eum facere: nam et arbor efficit, quo minus caeli videri possit. Si tamen id quod ponitur lumen quidem nihil impediat, solem autem auferat, si quidem eo loci, quo gratum erat eum non esse, potest dici nihil contra servitutem facere: sin vero heliocamino vel solario, dicendum erit, quia umbram facit in loco, cui sol fuit necessarius, contra servitutem impositam fieri”.
Sostenendo
che un oggetto è disposto in modo tale da togliere il sole a un
heliocaminus
o ad un solarium,
bisognerà accertare che questo oggetto ombreggi veramente un luogo
che necessita di sole. Il passo si riferisce chiaramente a una
situazione urbana in cui è quasi inevitabile che un alto edificio
possa adombrare gli edifici adiacenti. Ciò che la legge citata da
Ulpiano
garantisce è il diritto al sole di edifici che hanno bissogno di
essere soleggiati, come, per esempio, i bagni pubblici e, in
particolare le aule con i bagni caldi (calidarium
e solarium),
i quali necessitano del giusto apporto solare per garantire adeguato
funzionamento. Sul lato Sud delle grandi terme di Roma erano pertanto
disposte ampie aree destinate a giardini e a campi sportivi, così da
garantire che la facciata meridionale di questi grandi edifici fosse
sgombera da elementi ombreggianti. Il diritto al sole non era un
diritto universale, così come odiernamente interpretato da alcuni
fautori dell’architettura solare, bensì una legge che riguardava
in primo luogo gli edifici pubblici e solo in alcuni casi gli edifici
privati. Tornando alla grande aula delle Terme
Albule,
le sue dimensioni potrebbero anche lasciar pensare a una vasta
natatio,
se non fosse per la totale assenza di malta idraulica e per
l'impossibilità di far confluire l'acqua lacustre al suo interno,
trovandosi a un livello di poco inferiore rispetto alle polle
solfuree; queste ultime, tra l'altro, potevano superbamente fungere
da piscine loro stesse, ovviamente utilizzando appositi apprestamenti
disposti lungo le sponde. Le costruzioni distrutte dall'avanzare dei
lavori agricoli proseguono anche lungo la riva del Lago delle Isole
Natanti e sono consistenti in una serie di muri perimetrali in
cementizio, verosimilmente da identificarsi con delle vasche: lambiti
dalle acque, in quelli ortogonali esse penetrano fino a una
profondità di 2 metri, com le pareti interne ricoperte di signino a
piccole scaglie formante una sorta di scivolo inclinato verso il
bacino. Le vasche si estendono brevemente anche lungo la sponda
orientale, a testimonianza dell'uso piuttosto intensivo che si fece
durante il periodo imperiale delle terme, le quali subirono restauri
e anche plausibili ampliamenti, lavori che si resero necessari al
fine di soddisfare la sempre maggire richiesta da parte dell'utenza.
Murati a S del casale, in marmo bianco, degni di menzione sono un
capitello con corona di foglie d'acanto alla base, echino a kyma
ionico
messo in risalto da un astragalo, avente balaustri di foglie lisce
cinte da un balteo a fascione37,
un capitello corinzio purtroppo abraso dalle esalazioni miasmatiche
delle acque solfuree, una soglia e una lastra di travertino collocate
presso la scala, frammenti di cornici modanate e di mosaico bianco
uniforme o a bande nere. Giovanni
Maria Zappi38
(Tivoli, 1519-Tivoli, 2 settembre 1596) e Andrea
Bacci39
(Sant'Elpidio a Mare, 1524-Roma, 24 ottobre 1600) descrissero lo
stato di conservazione della fabbrica nella seconda metà del XVI
secolo, già gravemente compromessa al pari di oggi, tranne che per
alcuni ornamenti e camere odiernamente non più rintracciabili. Il
Bacci
descrisse un imponente bagno centrale circondato da altri minori,
verosimilmente da identificare nella maestosa aula biabsidata,
menzionando per la prima volta il rinvenimento di un numero non
precisato (ma logico supporre fosse cospicuo) di colonne in marmo
verde antico, le quali furono oggetto delle particolari attenzioni di
Papa Giulio
III (al
secolo
Giovanni
Maria Ciocchi del Monte-Roma,
10 settembre 1487–Roma, 23 marzo 1555, 221º Pontefice della Chiesa
Cattolica),
che ne ordinò il trasferimento a Roma e le pose ad abbellire la
fontana del casino sulla via Flaminia; sembra che alcune furono già
recuperate sotto il pontificato del precedente Paolo
III (nato
Alessandro
Farnese;
Canino,
29 febbraio 1468-Roma, 10 novembre 1549)
e
collocate presso il finestrone della Sala Grande di Palazzo Farnese,
così come riferito da A.
Del Re40.
Nell' illustrazione dello Zappi
il dato che sicuramente desta maggior interesse è “il
theatro ricento intorno da un ordine di bellissime colonne di briccie
verdi”:
se tale riferimento è da intendersi come all'abside posto a
occidente, tutto ciò vale come autorevole conferme dall'importanza
architettonica dell'aula e dell'originario posizionamento delle
colonne (alte m. 6,70) le quali, risultando accostate alle pareti,
potevano fungere sia da elementi decorativi che statici al tempo
stesso; l'autore interpreta i fori quadrangolari nelle pareti come
stufe e annotò che altre quattro colonne furono reimpiegate presso
la Chiesa di Santa
Maria Maggiore,
nel 158741.
Gli scavi proseguirono anche nel XVIII secolo e portarono alla luce
delle iscrizioni, altre colonne, mosaici e la colossale statua di
Apollo
Liricine (Figura
10), alta m. 2,25, con il Grifone ai piedi, copia romana in marmo
greco dell'originale del IV secolo a.C. il quale varia,
arricchendolo, il modello dell'Apollo
Liceo di
Prassitele
(
Πραξιτέλης/Praxitélēs; Atene, 400/395 a.C.–326 a.C.)
oggi
conservata presso i Musei Capitolini: sono da attribuirsi al restauro
buona parte del volto comprendente parte del ciuffo ricadente sulla
fronte, il braccio destro a esclusione del palmo della mano,
l'avambraccio sinistro, l'estremità apicale della lira, la parte
ricadente del panneggio compresa tra gomito e plinto, settori sparsi
tra le porzioni anteriori e posteriori del corpo del grifone; alla
fine di questo secolo risale l'estrazione di due ulteriori colonne,
operazione della quale Cabral
e Del
Re stilarono
una breve ma brillantissima descrizione42
Figura 10 - Statua colossale di Apollo Liricine con Grifone – copia romana in marmo di orignale greco del IV secolo – Musei Capitolini, Roma.
Nel secolo successivo Ab. Uggeri si cimentò in una approssimativa rappresentazione del complesso dalla veduta N del Lago della Regina, nel 1806, e annotò la presenza di un antico condotto vicino al lago, la cui funzione era di recare le acque delle sorgenti nella struttura termale, mentre Filippo Alessandro Sebastiani, nel suo Viaggio a Tivoli: antichissima cittá latino-sabina, fatto nel 1825, narrò a riguardo delle strutture ipogee43 e ricordando anche il rinvenimento di una statua della Dea della Salute Ὑγίεια/Hygìeia (Figura 11), in latino Igea44, alta m. 1,83, anch'essa copia romana di un originale ellenico della fine del IV secolo; per quanto permanga incertezza se fu ritrovata nella struttura propriamente delle terme o nelle vicinanze dei laghi45 (Figura 12). Frutto del restauro sono la porzione superiore della testa, essendo un ritratto di epoca claudiana assolutamente non pertinente alla scultura, parte del collo e del braccio destro compresa la mano, la mano sinistra con patera e serpentello, il piede sinistro e la base; attualmente è custodita nei Musei Vaticani, precisamente nel Museo Chiaramonti galleria statuaria, dopo esser stata a lungo nel Museo Pio-Clementino.
Figura 11 - Statua di Igea, Dea della Salute, rinvenuta presso le cosidette Terme di Agrippa alle Acque Albule; copia romana in marmo di origine greco risalente al termine del IV secolo a.C. - Musei Vaticani, Roma.
Una prima ricostruzione planimetrica del complesso fu tentata da Pirro Ligorio46 (Napoli, 1513-Ferrara, 30 ottobre 1583) e, in essa, il dato realistico (ovverosia, i maestosi corpi angolari aventi le stondature già descritte, e interpretate come nicchie) si coniuga a quello squisitamente antiquario, con la notizia circa il rinvenimento delle colonne disposte in duplice fila ai bordi di una grande vasca centrale. Bisognerà comunque attendere l’opera del Canina per ottenere descrizioni maggiormente circostanziali, per quanto de facto errate nelle conclusioni finali, dato che la sua interpretazione del sito si articola in un quadriportico cinto da torrioni a due piani e delimitato da una quadruplice fila di pilastri. I corpi angolari, aventi pianta centrale e scatola muraria quadrata, furono suggeriti all’autore dalla nicchia di forma semicircolare dei contrafforti e interpretati come laconica47 basandosi sulle cavità presenti nelle pareti che, a partire dal plinto basementale e destinato all’ipocausto, avrebbero recato aria calda nella rotonda superiore. Posizionati al centro del cortile si individua la serie di vani ipogei, mentre sui lati E e O degli apprestamenti danti sul maggiore dei laghi e un’imponente piscina unita al canale connettente la coppia di bacini; da questo muove anche il condotto specifico delle terme: per quanto fascinosa, tale interpretazione non gode di alcun riscontro nei resti monumentali del complesso, perlomeno per come si conservano odiernamente. Il medesimo canale, che Ashby sostiene aver tagliato e defunzionalizzato strutture laterizie, dovette invece avere funzioni e struttura differenti: lo studio del Canina fece da timone maestro per la conoscenza del sito e si dovette attendere il 1856, con i nuovi risultati di Viale e Latini48, quando sotto Pio IX ripreso gli scavi nell'area, focalizzandosi soprattutto nell'area centrale. Ultime testimonianze di evidenze archeologiche sono datate al 1902, con il rinvenimento nella zona a meridione dei ruderi e presso il lago maggiore: emersero, tra i muri cementizi, due erme marmoree di cui una completa ritraente una figura femminile modellata in stile arcaico, mentre l'altra, acefala, sorreggente il busto di Θέσπις-Thespi49 (Attica, Ellade, VI secolo a.C - …, attore e tragediografo greco antico), una fistula plumbea del periodo adrianeo e un'iscrizione metrica frammentaria di tipologia votiva alla Limnìade Albula50 (= Inscr. Lat. 606); altre iscrizioni dedicatorie alle Acque Albule: CIL XIV 3908, 3912, 3909, 3910 e l'interessantissimo 3911, il cosiddetto testo poetico di Samis51 (Figura 13), rinvenuto nel 1773 e ora esposto al MAN. Composta di cinque distici incisi lievemente su di una lastra marmorea, possiamo leggere il ringraziamento del dedicante il cui cavallo, ferito da un cinghiale presso Rusellae (Rusel in etrusco, odierna Roselle in provincia di Grosseto), era stato guarito dalle “acque medicinali”: assieme alla dedica, venne donato alla Lympha anche un bassorilievo marmoreo, forse raffigurante il padrone sul destriero. Le ultime due strofe sono particolamente interessanti, poiché attestano la presenza di un luogo di culto del tipo sacellum52, orientato verso la città di Tibur e in vista della Villa Adriana, e di un sentiero che a esso conduceva, verosilmente da identificarsi con il tracciato a settentrione della Tiburtina o con il diverticolo delle terme. In conclusione di questo paragrafo, la datazione del complesso è facilmente desumibile dai marchi figulini, dall'analisi relativa alla tecnica costruttiva e, almeno in parte, dal modulo laterizio: quattro bolli, su sei ritrovati, risalgono all'età adrianea53, periodo in cui il complesso venne eretto utilizzando nel Coementicium anche mattoni più antichi, e due solamente ai successivi restauri apportati alla struttura durante il regno di Antonino Pio (138-161 d.C). Considerato anche quanto espresso nella nota 57, e vagliato quanto Adriano mise in opera circa il consolidamento, restauro e ammodernamento delle strutture balneari di tipologia termale, non è assolutamente escludibile che i Bagni Tiburtini, per come oggi appaiono i loro resti, siano effettivamente il frutto di un imponente rifacimento, al pari di quello relativo alle capitoline Terme di Agrippa, che ne modificò radicalmente l'aspetto a livello tensostrutturale, architettonico e planimetrico (da ambienti disposti irregolarmente attorno a un vasto corpo centrale a un'irragiamento più regolare e armonico) e, dunque, non ci sentiamo di escludere, per quanto manchi oggettivamente il riscontro della prova archeologica, una loro fase più antica ascrivbile al primissimo periodo imperiale, come vorrebbe la tradizione. Un parallelismo, limitato al solo aspetto strutturale e alla planimetria sin qui ricostruita con i dati a nostra dispozione, è possibile operarlo tra la grande aula e il vano convesso posto ai lati delle Piccole Terme della dimora adrianea e con il similare ambiente surriscaldato posto al centro del lato occidentale, seppur in ambo i casi le dimensioni risultano nettamente inferiori rispetto a quelle dell'ambiente preso in esame; ancora incerto il funzionamento intrinseco della struttura termale, ossia se avessero impianti di riscaldamento oppure se l'acqua fosse utilizzata alla sua temperatura naturale, circa 24°, dunque tiepida di per sé. La zona fu largamente frequentata sin dagli albori dell'età imperiale, sia per le virtù terapeutiche delle acque sia per gli aspetti religiosi a esse legate; provenienza e “natura” dei fruitori (persino animali!) fu particolarmente variegata, tale da lasciarci comprendere chiaramente l'importanza che questo “santuario” termale dovette assumere.
Figura 12 - I due laghi, Colonnelle e Regina e, in basso centralmente, i ruderi della cosiddette Terme di Agrippa – Immagine satellitare da Google Maps.
Figura 13 - Iscrizione inscritta in una tabella con lettere incise in modo dimesso, trovata nel 1733 nella campagna Tiburtina. Si tratta di un carme in distico elegiaco che racconta l’esperienza del cavallo Samo ferito da un cinghiale nel territorio etrusco di Roselle e risanato dalle Acque Albule dopo esservi giunto con il padrone. MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
L'archeologia, scienza del passato che guarda al futuro, ci fa a volte dono di inaspettate sorprese le quali serbano, a loro interno, innumerevoli collegamenti che riescono a generare ulteriori spunti di riflessione, come se d'improvviso, grazie alla scoperta di una piccola tessera, un enorme mosaico variopinto prendesse vita: nell'agosto 2020 lo scavo presso il Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Figura 14), in provincia di Siena, ha visto riemergere dal fango caldo le tracce dell’ingresso monumentale di un santuario romano in stato di rovina, probabilmente pinnacolo e centro sacrale delle rinomate Aquae Clvsinae, le odierne Fonti di Chiusi, luogo di frontiera ma meta prescelta di frequentazioni "internazionali" perlomeno sino al principato di Marco Aurelio54; rimase in fuzione probabilmente sino al V secolo, per poi venire lentamente abbandonato, forse a seguito di n terremoto che ne danneggiò le strutture idrauliche e all'incapacità di riparare gli ingenti danni. Sulla soglia era un altare in travertino, recante l'iscrizione “Sacro ad Apollo”, e dunque non sembrano esservi incertezze circ la Divinità sotto la cui tutela era posto il luogo. Le ultime campagne di scavo hanno chiaramente dimostrato che la fama di questi luoghi, posti alle pendici della montagna di Cetona, affonda le radici in epoche ancestrali, sin dal periodo etrusco e forse anche precedente, simbolo palese di antichissimi culti legati alle Dee Madri, alle acque guaritive, al Toro Sacro, alla maternità e agli infanti, con le ritualità che si plasmarono via via alle novità dettate dalle nuove esigenze religiose susseguitesi nell'area. Ulteriori scavi tra settembre e ottobre, condotti dagli archeologi immersi nell’acqua calda e con le ristrettezze imposte dal protocollo di contrasto della pandemia del COVID-19, hanno visto riapparire nello scavo stratigrafico di un orto abbandonato a pochi metri dalle polle pubbliche, ancora oggi in uso, i resti di un santuario romano (Figura 15) intatto, la cui sacralità era suggellata da are dedicate alla Fortuna Primigenia, a Isis, oltre che ad Apollo, e una statua in marmo raffigurante Igea. In soli due mesi di scavo è emersa con chiarezza parte della sequenza di vita del luogo di culto: l’impianto monumentale del santuario è ascrivibile all'età augustea, andatosi a impiantare al di sopra di un luogo sacro in epoca etrusca almeno sin dall’Ellenismo; in età augustea il santuario dovette assumere l'aspetto che ancora oggi connota le rovine, ovverosia di un edificio con copertura a compluvium55 su un bacino centrale circolare poggiante su quattro colonne tuscaniche e dotato di προπύλαια-Propileo56 di ingresso rivolto a sud e delimitato da due colonne aventi base attica. Un rovinoso incendio, scoppiato all'incirca alla metà del I secolo d.C., a cavallo tra età flavia e traianea, rese necessaria una ricostruzione con contestuale ampliamento del complesso; la deposizione nel Sancta Sanctorum del Santuario, in propinquità del bordovasca della sorgente calda (che sgorga a 42°) di tre Are in travertino, con dediche cultuali alla Fortuna Primigenia e Isis, è invece inquadrabile cronologicamente alla fine del II secolo d.C.57
Figura 14 - Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, resti del Santuario Termale – veduta aerea.
Figura 15 - Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Siena, ipotesi ricostruttiva del Santuario Termale.
Gli scavi in opera nella stagione scorsa, da giuno ad ottobre/novembre 2021, invece, hanno evidenziato ulteriori, preziose, testimonianze: durante la quarta campagni di scavi, diretta dal prof. Jacopo Tabolli Funzionario della Sopritendenza, ha portato alla luce delle straordinarie scoperte: migliaia di monete d'oro, d'argento, di oricalco (lega composta dal 90% di rame e il 10% di zinco, con piccole percentuali di nichel, piombo e ferro) di bronzo intatte, come fossero appena state deposte in acqua, il bassorilievo del muso di un toro (Figura 16) segnante il punto in cui l'acqua veniva fatta defluire, cinque bronzetti Ex Voto Suscepto, un putto del medesimo materiale dallo stile così simile ai Gesù Bambini che verranno ritratti oltre un millennio dopo durate il Rinascimento Toscano, una cinturina in lamina bronzea, fiaccole miniaturistiche tra le quali simulacri di bambini (Figura 17) in fasce e un seno in lamina di bronzo, una clava di Ercole e molte altre offerte votive: trattasi certamente di un ricco corollario di Ex Voto donati dai fedeli alle Divinità tutelari delle fonti, aventi lo scopo di richiedere intercessione benigna culminante con la guarigione da malanni e afflizioni. Data l'estrema importanza dei ritrovamenti, la Sopritendenza di Siena, Grosseto e Arezzo sta contestualmente predisponendo un importante progetto di paesaggio archologico, incentrato sulla tutela, valorizzazione e fruzione del sito, culminante con l'apertura del Santuario Termale al grande pubblico. Le monete sono state rinvenute al di sotto delle colonne abbandonate, poste in prossimità del muso del toro, in bassorilievo sul bordo della vasca, a oltre due metri di profondità: trattasi di conio celebrante la Pax Augustea, l'apogeo del periodo Flavio e le Res Gestae di Traiano (Figura 18), Adriano e Marco Aurelio: uno dei bronzetti votivi è uno splendido Πάν-Pan, Dio Fauno largamente associato a culti boschivi (e qui emerge un altro interessante parallelismo con le nostrane Terme, essendo il bosco che le circondava anticamente, come già analizzato, denonimato “Del Fauno”.) Per quanto concerne il putto (Figura 19), appare immediatamente evidente il richiamo al celebre Putto Graziani custodisto nei Musei Vaticani e, al suo pari, lungo la coscia destra si dipana un'arcana iscrizione, celebrante l'offerta al Santuario e alla Divinità ivi dimorante. Le sorprese, a ogni modo, non sono terminate con le scoperte dei doni sopra menzionati: accanto agli altari, gli scavi della superficie delle sacre vasche per le abluzioni hanno rivelato una serie di “orme” scolpite nel travertino, colmate di piombo e tracce di argento, stando ai risultati delle analisi preliminari in XRF58 condotte dall'Università di Siena, dipartimenti DBSSC e DBCF. Le “orme” sono riferibili a piedi di adulti, giovinetti e bambini, zoccoli taurini e orecchie: nella maggior parte dei casi i piedi risultano perfettamente conservati e risulta che calzavano eleganti sandali. Tenendo bene a mente che in archeologia bisogna sempre utilizzare la massima prudenza nell'interpretazione, è comunque possibile evidenziare che analoghe testimonianze sono spesso legate alle vestigia dei culti di Isis e Serapide e potrebbero rappresentare la testimonianza di un antico rito di venerazione nei pressi della sorgente, ove il fedele avrebbe potuto “percorrere” il cammino designato dalle orme e poggiare il proprio orecchio presso il bordo della vasca, tale da entrare in risonanza e connessione con le Divinità (il detto “Andarci con i piedi di piombo” significa infatti “procedere lentamente, con cautela”, proprio in virtù del passo lento e solenne del pellegrino, in cammino verso la fonte soterica e guaritiva). Un autentico universo di Divinità che, se associate ad Apollo, Asklèpios e Igea già conosciute dalle precedenti testimonianze provenienti dal Bagno Grande, compone un articolato quadro socio - cultuale di questo santuario: nel corso dell’anno passato, le ben mirate attività di scavo hanno portato alla luce non solo meri frammenti bensì ricchissimi resti di quello che sembra, anche per il ritrovamento degli altari e di un piccolo simulacro marmoreo, un santuario dedicato ad Apollo, Fortuna Primigenia e Isis. L’area del Bagno Grande è divenuta, a tutti gli effetti, il centro di attività multidisciplinari volte all’indagine non invasiva del terreno e all’individuazione di possibili nuove aree di scavo che possano donare concretezza alla tradizione dei grandi ritrovamenti di cui sono piene le pagine degli storici locali fin dal XVI secolo; in tal senso si è fatto largo uso delle più moderne ed efficaci tecnologie di remote sensing, quali la geofisica di ultima generazione e sensori speciali montati su drone. Il quadro emerso dal santuario termale del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni risulta particolarmente interessante non solamente per le peculiarità intrinseche dell'area ma perchè ci consente di operare un agile parallelismo con le cosiddette Terme di Agrippa nel suburbio tiburtino, la cui acque godevano (e godono tutt'oggi) di una nomea piuttosto altisonante: è altamente plausibile, dunque, che i ruderi oggi visibili presso i laghi della Regina e Colonnelle siano i resti di un complesso sacrale e medico di ben più ampio respiro rispetto a quanto supposto sino a oggi, un'area ove si coniugavano salute, medicina, sacralità divina, pellegrinaggi e offerte, da parte dei fedeli, volte al recupero del benessere psico–fisico perduto (Figure 20, 21, 22, 23 e 24). Le Divinità onorate e invocate risultano parimenti simili, quantomeno parzialmente59, e dove la figura di Albula è ovviamente relegata all'ambito della cultualità locale e alle proprietà intime delle acque solfuree tiburtine, è quantomeno singolare sottolineare che il santuario toscano risultava consacrata ad Apollo, mentre in quello locale appare la dedica Herculi Sacrum: nel mito, Apollo ed Herakle si affrontarono per il possesso del tripode di Delfi, sfida che vide il trionfo del Dio Musico e della Luce Solare, Patrono delle Arti, del Vaticinio e della Medicina. A tal riguardo, nel prossimo paragrafo, affronteremo più approfonditamente la figura di Albula le sue caratteristiche specifiche, ponendo in risalto l'aspetto cultuale, sanatorio e, forse, mantico.
Figura 16 – Bassorilievo di bucefalo su frammento marmoreo, Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Siena.
Figura 17 - Simulacro bronzeo, di tipo Ex Voto Suscepto, ritraente un bambino in fasce. Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Siena.
Figura 18 – Denarius in argento raffigurante, sul recto, l'Imperatore Traiano con corona raggiata. Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Siena.
Figura 19 – Putto votivo in bronzo, Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Siena.
ALBULA DALLE BIANCHE ACQUE
Sappiamo davvero poco, in realtà a riguardo di Albula e dell' ipotetico culto, se mai la sua venerazione si sia mai spinta al punto tale da renderla cultuale nel senso stretto del termine. Possibile Pegèa, ninfa delle sorgenti, o Limnìade, Ninfa dei laghi, presiedeva alle bianche acque solfuree originate dai laghi termali della Regina e di Colonnelle. Le polle a lei sacre sono tutt'oggi contraddistinte, seppur in modo assai minore rispetto al passato, da un color candido e lattiginoso, da cui il termine "Albulae" ossia "biancastre", da "albus", "bianco, e da un forte odoro solforoso, come di uova rancide. Il colore bianco, i vapori emanati, l'odore pungente, le proprietà terapeutiche e sanatorie devono aver instillato negli antichi abitanti del territorio, sin dal passato più remoto, la convinzione che tali acque fossero sotto la giurisdizione di un'entità soprannaturale, probabilmente in possesso di virtù profetiche: l'inalazione di massicce quantità di fumi solfurei e le conseguenti allucinazioni, così come per i gas rilasciati dalla faglia sotterranea presso l'Oracolo della Pitia in Delfi, possono esser la ragione di tale credenza divinatoria. Il bosco che circonda le sorgenti, ancora al giorno d'oggi, è denominato "Bosco del Fauno", il che si ricollega alla figura di Fauno e del suo oracolo, così come analizzato nelle altre pubblicazioni sul tema60. A tal riguardo riteniamo doveroso riportare la descrizione61 circa lo stato di trance mistico-estatica che pervadeva il Sacerdote deputato all'interpretazione degli oracoli del summenzionato Dio il quale, coricatosi di notte su velli di agnello distesi in terra, vedeva ombre sinistre e ultraterreni simulacri volteggiare nell'aere scuro, entrando a colloquio con le ctonie Divinità che presiedevano le tetre rive del fiume Acheronte e le immote distese di Ade, ricevendo vaticini circa avvenimenti futuri:
“[...]
huc dona sacerdos
cum tulit et caesarum ovium sub nocte
silenti
pellibus incubuit stratis somnosque petivit,
multa
modis simulacra videt volitantia miris
et varias audit voces
fruiturque deorum
conloquio atque imis Acheronta adfatur Avernis”
Le facoltà mediche e sanatorie delle acque solfuree devono esser state individuate empiricamente in un periodo antico, estremamente arcaico e pertanto non facilmente inquadrabile da un punto di vista cronologico ma, crediamo di poterci sbilanciare, perlomeno contestualizzabile sin dall'Età del Bronzo: facile dunque immaginare come Albula, e i vari teonimi e titolature che dovette assumere via via nel corso del tempo, e i suoi poteri siano stati oggetto di preghiere, offerte rituali e votive, di richieste concernenti il recupero del benessere a seguito di deficit psico-fisici: i ruderi del complesso archeologico oggi osservabili devono giocoforza intendersi come l'ultima fase monumentale di un processo cultuale lungo millenni, i cui resti, sia a causa della particolare natura acquitrinosa del terreno che delle invasive opere di alterazione e distruzione agricola, predatoria ed edilizia, faticano a essere individuati con precisione. Nonostante ciò, le peculiarità intime di questa figura sovrannaturale la catapultano energicamente nel passato più remoto di queste terre, la cui memoria è ancor oggi ravvisabile, seppur labilmente: nel 1983, nei pressi del minore tra i due laghi (Colonnelle), vennero alla luce reperti litici e ceramici nonché ossei, risalenti a un periodo compreso tra il Paleolitico Superiore (approssimativamente fra i 40 mila ed i 10 mila anni fa, in questo caso con focus sulla cultura Epigravettiana) e il Neolitico (convenzionalmente, tra il 10000 e il 3500 a.C). Come precedentemente riportato, lo storico Svetonio scrisse a riguardo dell'Imperatore Augusto, il quale soffriva (anche) di gotta e viaggiava in lettiga fino alle sorgenti Albule, tale da trovarvi ristoro con bagni lenitivi quando le sue precarie condizioni di salute lo richiedevano: tradizioni attualmente non confermate dalla riprova archeologica, come abbiamo avuto modo di approfondire, sostengono che le apprezzò al punto tale da richiedere la costruzione di terme presso i due laghetti solfurei, affidando il compito a M. Vipsanio Agrippa, sullo stile delle omonime romane; Nerone (Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus; Anzio, 15 dicembre 37-Roma, 9 giugno 68) e Adriano (Publius Aelius Traianus Hadrianus; Italica, 24 gennaio 76-Baia, 10 luglio 138), invece, si racconta che ne canalizzarono il corso sfruttando gli acquedotti per far si che rifornissero le loro gargantuesche residenze imperiali, con il primo che sfruttò, sembra, i condotti dell'Aqua Marcia per irrorare con le preziose acque i bagni della Domus Aurea sul capitolino Colle Oppio. A causa dell'errata interpretazione del passo dell'Eneide virgiliana62, Albula e Albunea furono a lungo creduto la medesima entità sino a quando, alla metà del XIX secolo, tale malinteso venne finalmente smentito con forza: le due figure sovrannaturali non furono collegate, tantomeno si trattò della stessa manifestazione sovrannaturale.
Figura 20 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme); ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati© .
Figura 21 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme); ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati© .
Figura 22 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme); ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati© .
Figura 23 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme): pianta del piano terra. Ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati© .
Figura 24 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme)pianta del primo piano. Ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati©
Figura 25 - Ipotesi ricostruttiva 3D delle cosiddette Terme di Agrippa in località Bagni di Tivoli (Tivoli Terme): prospetto e sezione con probabili materiali edizi utilizzati. Ing. Christian Doddi - ArcheoTibur 2021, Tutti i Diritti Riservati©
FONTI BIBLIOGRAFICHE:
CLASSICHE E MEDIEVALI
- Naturalis Historia, Plinio il Vecchio.
- Epistularum, Plinio il Giovane.
- Eneide, Publio Virgilio Marone.
- De Architectura, Marco Vitruvio Pollione.
- Digesta, Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano.
- Geographika, Strabone.
- Silvae, Publio Papinio Stazio.
- Punica, Tiberio Cazio Asconio Silio Italico.
- Epistualae, Gaio Sollio Sidonio Apollinare.
- Epigrammi, Marco Valerio Marziale.
- Vita dei Cesari – Vita di Augusto, Gaio Svetonio Tranquillo.
- Periegesi della Grecia, Pausania il Periegeta.
- De Herba Vettonica Liber, Antonio Musa.
- Geschichte der Chirurgie, I, Berlino 1898. Gurlt, Archigene d'Apamea.
- Genetia, Celio Aureliano.
- Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Servio Mario Onorato.
- Digesto, Enea Domizio Ulpiano.
- Originum sive etymologiarum libri XX, Isidoro di Siviglia.
- De Re Medica, Paolo d'Egina.
- Βιβλία ἰατρικὰ ἑκκαίδεκα /Biblìa iatrikà ekkàideka - Sedici libri di medicina, Aezio Amideno.
- Possessio Sufuratarum, in Aquae Patavinae - Il Termalismo Antico nel comprensorio Euganeo e in Italia; Atti del I Convegno Nazionale, a cura di M. Basani, M. Bressan, F. Ghedini - Padova, 2010.
- Tabula Itineraria Peutingeriana - Primum Aeri Incisa et Inedita. A Franc. Christoph. De Scheyb. Lipsiae MDCCCXXIV, curavit Mario Serra, ristampa anastatica, Edizioni Magna Grecia, 2019.
MODERNE E CONTEMPORANEE
- Annales di ArcheoTibur, Volumi 0, I e II – ArcheoTibur & Quickebook Edizioni, Tivoli, 2019-2021.
- ORIGINES, ArcheoTibur & Stefano Del Priore, Quickebook Edizioni, Tivoli 2020.
- Corpus Inscriptionum Latinarum, volume XIV.
- Codice Topografico Tiburtino, cfr. con Documenti inediti sugli scavi di Pio VI in Tivoli, R. Lanciani, 1922.
- Forma Italiae – Tibur Pars Prima; Cairoli Fulvio Giuliani, De Luca Editore, Roma, 1966.
- Forma Italiae – Tibur Pars Quarta; Zaccaria Mari, Olschki Editore, Firenze, 1993.
- Guida Archeologica di Roma, Filippo Coarelli, Mondadori Editore, 1994.
- Viaggio a Tivoli, Franco Sciarretta, Tiburis Artistica Edizioni, Tivoli, 2001.
- Tivoli nel Decennio, Sante Viola.
- Bibliografia di Tivoli, G. Cascioli.
- Delle ville e dei più notabili monumenti antichi della città di Tivoli, Stefano Cabral - Fausto Del Re, 1779.
- Sulle Acque Albule presso Tivoli – Analisi Chimica, Roma, B. Viale & V. Latini, 1877. QuickEbook Edizioni, Tivoli, 2015.
- Latium. Id est, Nova e Parallela Latiium Veteris tum Novi Descriptio, Athanasius Kircher, 1669 - Amsterdam, Johannes van Waesbergen, 1671.
- Notizie storiche antiquarie statistiche ed agronomiche intorno all'antichissima citta' di Tivoli e suo territorio, Francesco Bulgarini, Tipografia Giovanni Battista Zampi, Roma, 1848.
- Voyage d'un Français en Italie fait dans les années 1765 et 1766, Joseph-Jérôme de Lalande.
- Vetus Latium - Vetus Latium profanum et sacrum, Petri Marcellini Corradini. Romæ, 1704, 2. vol. in-4. Descrizione di Roma e dell'Agro Romano dal. P. Eschinardi, accresciuta dall'Abbate Venuti. 1750. Découverte de la maison d'Horace, par M. Chaupy, 1767. 3 vol. in-8, Padre Volpi.
- Deutsche Bauzeitung - Le solfuree Acque Albule di Tivoli, F. O. Schulze, settembre 1883.
- Guida a Tivoli, Tivoli, 1853 c.ca; Don Stanislao Rinaldi. Curavit ArcheoTibur – QuickEbook Edizioni, Tivoli, febbraio 2018.
- Annali e Memorie di Tivoli. Cronaca del secolo XVI, Giovanni Maria Zappi, Roma (?), 1572.
- De Aquis Albulis, Andrea Bacci, Roma, 1568.
- Scavi della Storia di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Rodolfo Lanciani.
- Antichità Tiburtine capitolo V, A. Del Re, Roma 1611.
- Viaggio a Tivoli: antichissima cittá latino - sabina, fatto nel 1825, Filippo Alessandro Sebastiani.
- “Guida del museo lateranense profano e cristiano”, O. Marucchi, Roma, 1922.
- Il Santuario Ritrovato. Nuovi Scavi e Ricerche al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli, “Sillabe” Edizioni, 2021.
NOTE:
1 [“... ricettaculo di diversi ed infeniti animali come cervi, porci, caprii, lopi, goldi et altri simili animali et anchi di molte sorte di augelli come cigni, grue, anetre et di molti altri augelli stravacanti...”] - “Annali e Memorie di Tivoli” di Giovanni Maria Zappi, “Studi e Fonti per lo studio della regione tiburtina”, Volume I, Atti & Memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte, 1920, pag. 68.
2 Il Rellini vi raccolse un esemplare di Leone Speleo (Panthera Leo Spelaea).
3 Ultimo periodo caldo e umido globale, o interstadiale, che avvenne poco prima della fine dell'ultimo periodo glaciale.
4Latium, pgg. 204-206, mappa dopo pag. 142 “Lacus Albuneus, vulgo di 16 barchette”, alludendo per l'appunto alle zolle galleggianti: “Quae vel minimo conti, aut arundindei etiam baculi, cum ad litus appulerint, impulsa, a se invicem separatae fluctuant”.
5 Cfr. anche con Sulle Acque Albule presso Tivoli – Analisi Chimica, di B. Viale e V. Latini, Roma, 1877-QuickEbook Edizioni, Tivoli, 2015; rimandiamo a questo interessantissimo testo per una approfondita analisi chimica, qualitativa e quantitativa delle acque (pp. 19-46 ), non essendo essa stessa pertinente con la trattazione qui presa in esame.
6 Notizie storiche antiquarie statistiche ed agronomiche intorno all'antichissima citta' di Tivoli e suo territorio, Francesco Bulgarini, Tipografia Giovanni Battista Zampi, Roma, 1848.
7 “Guida a Tivoli”, ArcheoTibur – QuickEbook Edizioni, Tivoli, febbraio 2018.
8 Vedi anche “Culti & Dei nell'Antica Tibur – Pars Quarta”, di Stefano Del Priore, in Annales di ArcheoTibur Volume 0, ppg. 27-38; ArcheoTibur - QuickEbook Edizioni, Tivoli, 2019.
9 Un esauriente approfondimento sarà dedicato a questo aspetto, in questo medesimo saggio, analizzandone anche la matrice religiosa e cultuale.
10 Geōgraphiká V, 3, 11. Dalla sua testimonianza, sembra che all'epoca le acque avessero libero corso verso il fiume Aniene: “Planitiem illa per quam delabi Anienem diximus, albulae etiam perfluunt”.
11 De Architectura, VIII, 3, 2: “Ci sono anche sorgenti fredde cui odore e sapore sono cattivi. Questi sorgono nei luoghi sotterranei inferiori, poi passare attraverso i distretti caldi, e poi continuando il loro corso per una distanza considerevole, sono freddo quando salgono in superficie, e di un gusto, odore, colore e viziata. Tale è il fiume Albula, nel modo tiburtina: tali sono le fontane fredde terre di Ardea, sia di un odore simile, che è come lo zolfo: così, anche, si trovano in altri luoghi. Ma questi, anche se freddo, sembra, tuttavia, a bollire: per, passando da un luogo elevato su di un terreno riscaldato, e si concentrano sul dall'incontro dell'acqua e del fuoco, si precipitano insieme con grande violenza e rumore; e, a quanto pare gonfiato dalla violenza dell'aria compressa, esse rilasciano bollente dalla sorgente. Tra di loro, tuttavia, quelli il cui corso non è aperto, ma ostacolata da pietre o altri impedimenti, sono, per la forza dell'aria attraverso i pori stretti spinti fino alle cime delle colline”.
12 Naturalis Historia, XXXI, 6, 10: “Vicino a Roma le acque Albule curano le ferite, temperate queste, invece le Cutilie fra i Sabini freddissime aggrediscono con un certo succhio i corpi, quasi che possa sembrare un morso, molto adatte per lo stomaco, i nervi, il corpo intero”. Plinio narra di come, di ritorno dalle battaglie, i soldati romani fossero condotti alle sorgenti Albule, al fine di poter beneficiare con bagni guaritivi delle virtù delle "aquae sanctissimae” (“Iuxta Romam Albulae aquae vulneribus medentur; egelidae hae.” Rimarchevole l'iscrizione a noi giunta, così recitante:
“AQVIS ALBVLIS SANCTISSIMIS VLPIA ATHENAIS M, VLPII AVG. LIB. AB EPISTOLIS VXOR LIBENS D.D”.
13Marziale, Epigrammi, Liber I, 12, 1–2: “Sulla strada che reca alle erculee rocche della gelida Tivoli, ove la bianca Albula diffonde il fumo dalle sue acque di zolfo, la quarta pietra miliare della vicina città indica i campi, il bosco sacro, i terreni dalle Muse tanto amati. Qui un rustico portico offriva, d’estate, ombra – portico che, per poco, non provocava, ahimè, un disastro. Crollò infatti all’improvviso mentre, trasportato dal carro trainato da due cavalli, Regolo passava sotto l’imponente costruzione. Il Destino provò certo timore del nostro odio. Anche il disastro, ora, serve a qualcosa, il rischio aveva un senso: il portico non avrebbe infatti potuto provare l’esistenza degli Dei.”
14 Stazio, Silvae (I, 3, 75), Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, Punica (X, 364), Gaio Sollio Sidonio Apollinare, Epistualae, I, 5, 8.
15 Svetonio, Vita di Augusto, 82, 2: “In inverno portava spesso, sotto una toga, quattro tuniche, una camicia, una maglia di lana e delle fasce attorno alle cosce e alle gambe; d’estate dormiva nella sua camera con le porte aperte, e spesso sotto il portico a fianco di un getto d’acqua e con uno schiavo che gli faceva vento. Neanche in inverno riusciva a sopportare il sole e persino nel cortile di casa passeggiava indossando il cappello. Viaggiava in lettiga quasi sempre di notte, lentamente, a piccole tappe, impiegando due giorni per raggiungere Praeneste o Tibur; se poi qualche luogo potyeva esser raggiunto via mare, preferibilmente navigava. Tuttavia con molta attenzione riusciva ad aver cura di una salute così malandata, per prima cosa lavandosi con moderazione, si faceva spesso frizionare e sudava vicino al fuoco, poi si immergeva in acqua tiepida o scaldata lievemente ai raggi del sole. Ma tutte le volte che le sue condizioni nervose gli imponevano i bagni di mare o le cure termali di Albula, si accontentava di sedersi su di uno sgabello di legno che egli, utilizzando un termine iberico, chiamava “duretam”, e di agitare mani e piedi con alterni movimenti.”. Tale proprietà calmante delle acque albule è menzionata anche nell’Epistularum di Plinio il Giovane, XXXI – XXXII.
Testimonianza epigrafica a tal riguardo, recita:
“AD AQVAS ALBVLAS... CAESAR AVGVSTVS EX S.C. … P. CCXL.
16 “Balineae marinis et albulis fluentes aquis”.
17 Pausania IV, 35, 11.
18 Medico e botanico, (Floruit I secolo a.C.), l'episodio più celebre che lo vide protagonista fu la guarigione dell'Imperatore Augusto, caduto gravemente ammalato al fegato dopo aver sottomesso la Cantabria in Hispania (attuale penisola spagnola): dopo aver fallito con le fomentazioni calde, sperimentoò quelle fredde (“Quia calida fomenta non proderant, frigidi curari coactus auctore Antonio Musa”) e salvò la vita al sovrano il quale, estremamente grato, gli fece erigere una statua e la pose di fianco a quella del Dio medico Esculapio nel proprio altare privato (“Medico Antonio Musae, cuius opera ex ancipiti morbo convaluerat, statua aere conlato iuxta signum Aesculapi statuerunt”). La fama e la nomea di Musa crebbero ovviamente a dismisura, facendolo divenire il medico più importante del suo tempo e le sue terapie a base di abluzioni fredde raccolsero schiere di proseliti quali, ad esempio, il poeta Quinto Orazio Flacco, che si recò presso la località termale di Baiae per poterne usufruire; i bagni freddi di Musa, però, non furono utili nel salvare Marcus Claudius Marcellus (Roma, 42 a.C.-Baia, 23 a.C.), primo marito dell'unica figlia di Augusto, Giulia Maggiore, e nipote di quest'ultimo. Antonio Musa è ritenuto uno dei primi sperimentatori dell'idroterapia a bassa temperatura e l'autore del trattato De herba vettonica liber, dedicato a Marco Vipsanio Agrippa.
19 Egli le raccomandò in caso di inappetenze e lassezza di stomaco: “Caeterum naturales aquas experiri non inutile fuerit aluminosas videlicet, sulphurentas et consimiles, quales sunt albulae.” La sua prescrizione consisteva nel bere le acque solfuree dopo aver passaggiato al mattino, aumentando via via la quantità somministrata: da tre mine il primo giorno, la dose avrebbe dovuto raggiungere le cinque/sei quotidiane. Le acque avrebbero avuto il potere di purificare il sangue, l'intestino e la vescica ne avrebbe tratto sicuro giovamento.
20 Ne decantò le virtù medicamentose contro paralisi, artrite, profluvi seminali, leucorrea, e podagra: “Etenim albae sivi albulae, quae sunt appellatae, quod, sint frigidae virtutis solutione laborantibus vel fluore quorumlibet officiorum naturalium a veteribus sunt approbatae. Item usus adhibendus aquarium naturalium calidarum tum frigidarum, quae sunt appellatae albulae, vel cutiliae.” Aureliano fu il primo a fornire descrizione sistematica delle patologie, ponendo l'accento sulla problematica della diagnostica differenziale, fu il primo a menzionare l'angina pectoris e si occupò anche delle malattie mentali, proponendo di abbandonare i coercitivi metodi della sua epoca, caldeggiando piuttosto l'utilizzo dell'idroterapia.
21 Galeno ne caldeggiò l'uso se affllitti da ulcere e flussi: “Aquae quiam etiam aluminosae, quales sunt in Italia, vocatae albulae, cum aliis ulceribus idonae sunt, tum vero quaecumque fluxionibus tentantur, ea perfacile dessiccant.”
22 Le raccomandò per problemi ginecologici, aborti, menorrea, malattie di stomaco e vomiti ematici.
23 Aezio Amideno, in particolare, si soffermò a indicare tempi e modi circa la somministazione e l'utilizzo tramite bagni: “Conferunt itaquae aquae albulae, si adsint, et consimiles post matutinam deambulationem trium heminarum mensur prime die potae, deinde usque ad quinque et sex heminas perveniendum: ad hoc enim quod intestinum eluunt, aer etiam ipsarum fulignosus vesicam ad doloris tensum percipiendum habetat, et humoribus segregatis puriorem ac lucidiorem sanguinis vaporem reddit; quin et ipsae aquae ulcera utiliter repugant, et cum voluptate in ea subeunt; atque adeo nil aegro sanando efficacius deprehendi possit. Hora autem calidior ad eas recipiendas apta est.”
24 Ognuno di questi autori raccomandava bagni terapeutici nelle sorgenti termali (vedi “APPENDIX” al termine di questo saggio”) e cfr. anche con Sulle Acque Albule presso Tivoli -Analisi Chimica, di B. Viale e V. Latini, Roma, 1877 – QuickEbook Edizioni, Tivoli, 2015 e Le Acque Solfuree di Tivoli, Bagni di Cesare Augusto, N. Allegri, Roma, 1917.
25 La Tabula Peutingeriana è una copia del XII-XIII secolo di un'antica carta romana mostrante le vie stradali dell'Impero romano, dalle isole britanniche alla regione mediterranea e dal Medio Oriente alle Indie e all'Asia Centrale; la sua sezione più occidentale è oggi perduta. Un Sera maior, talvolta interpretato come Impero cinese, appare all'estremo Oriente, senza tuttavia che siano segnati i corrispondenti territori. La Tabula è verosimilemente una copia di un modello di età carolingia, a sua volta risalente all'originale di una carta stradale romana: è costruita come una rappresentazione schematica e le condizioni geografiche, a eccezione di sparuti dettagli, risultano fortemente distorte. Forniva, pur tuttavia, ai viaggiatori tutte le informazioni rilevanti sulla posizione delle città più importanti e dei luoghi di sosta (mansio) della rete stradale dell'impero romano, così come la serie delle tappe giornaliere sulle principali rotte di viaggio. I territori vengono rappresentati da fasce orizzontali, separate dal mar Mediterraneo e dall'Adriatico. Le città sono indicate con icone di edifici; più è grande il simbolo, più è importante la città. Le tappe giornaliere vengono raffigurate attraverso la segmentazione di linee rosse. Le indicazioni degli antichi toponimi e le distanze in miglia romane costituiscono il fondamento per la ricerca scientifica sulle strade romane. La carta è oggi una delle più importanti fonti per la classificazione e l'identificazione degli antichi toponimi. Il presunto originale della carta stradale della seconda metà del IV secolo (ca. 375 d.C.) contiene una rappresentazione grafica del mondo conosciuto allora, nella quale le strade erano rappresentate come linee di collegamento fra le singole tappe dei percorsi. L'originale tardo antico può essere ricondotto a diversi possibili carte precedenti, tra i quali una carta del mondo preparata da Marco Vipsanio Agrippa; anche altri precedenti prendono in considerazione l'Itinerario Antonino (stradario del III secolo in forma di testo) e molte altre rielaborazioni di una carta stradale antica dell'impero romano la carta originale venne sicuramente terminata dopo il 330, poiché mostra già la città di Costantinopoli, fondata in quegli anni, mentre per altre indicazioni (come ad esempio nella Pars IV - Liguria di Levante) potrebbe essere antecedente al 109 a.C. data di costruzione della Via Emilia Scauri, che non vi è indicata. Non è neppure indicato il collegamento viario tra Pisa e Luni, considerando che tale tratto appare occupato dalle Fosse Papiriane (le estese paludi che occupavano l'attuale Versilia indicate come Fossis Papirianis). Evidentemente la Tabula, in principio, dovette esser concepita "per blocchi" di osservazione e non doveva essere più stata aggiornata, poiché anche le città di Pompei, Ercolano, Oplontis e Stabiae erano ancora indicate, le quali dopo l'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. erano stato distrutte e non erano più state ricostruite. Inoltre, erano segnati alcuni luoghi della provincia della Germania inferiore, che erano stati distrutti nel V secolo. La carta stradale di epoca tardo imperiale è stata conservata solo in una replica medievale del XII secolo. L'umanista Conrad Celtis (conosciuto come Konrad Bickel, 1459-1508) scoprì la calligrafia e la consegnò nel 1507 al suo amico Konrad Peutinger. Risulta ignoto di come Celtis sia giunto in possesso di questa copia e nemmeno dove sia stata redatta: come possibili luoghi di creazione sono stati ipotizzati Worms, Spira, Colmar, Tegernsee e Basilea. Dopo la morte di Peutinger, un altro autore è stato incaricato per conto di un membro della famiglia di redigerne una copia; dopo di questa Abramo Ortelio pubblicò nel 1598 ad Anversa un'edizione completa.
26 Liber Pontificalis, p. 182, edizioni L. Duchesne, Parigi, 1955: l’autore individuerebbe nel sito della Possessio i terreni delle Acque Albule.
27 Su quest’ultima torneremo più in là, dedicandole un ampio approfondimento al termine di questo saggio.
28 VII, 81–84: “At Rex sollicitus monstris oracula / Fauni, / Fatidici genitoris, adit Iucosque sub alta / Consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro / Fonte sonat saevamque exhalat opaca mephitim. Sub albunea in Albunea. alta quia est in Tiburtinis altissimis montibus. et Albunea dicta est ab aquae qualitate, quae in illo fonte est: unde etiam nonnulli ipsam Leucotheam volunt. Sciendum sane unum nomen esse fontis et silvae. Sacro fonte nullus enim fons non sacer. Mephitin mephitis proprie est terrae putor, qui de aquis nascitur sulphuratis, et est in nemoribus gravior ex densitate silvarum. alii Mephitin deum volunt Leucotheae conexum, sicut est Veneri Adonis, Dianae Virbius. alii Mephitin Iunonem volunt, quam aerem esse constat. novimus autem putorem non nisi ex corruptione aeris nasci, sicut etiam bonum odorem de aere incorrupto, ut sit Mephitis dea odoris gravissimi, id est grave olentis.”
29 Forse una selva insistente nel territorio prospiciente l'antica Lavinium, odierna Pratica di Mare, nel comune di Pomezia, ove è particolarmente nota la Solfatara. (Figura 8).
30 CIL XIV, 3905 (=CIL VI, 262, Inscr. Ital. 597).
31 (= Inscr. Ital. 603).
32 CIL XIV, 3534 (= Inscr. Ital. 34).
1) “C. CLAVDIVS TI. F. QVIR SEVERVS“
2) “AQVIS ALBVLIS SA... G. VMBRENVS LAVICAN PRO. SAL. S.V.S.L.M.”
3) “[A]LBVLIS. D.D. ELADVS AVG. LIB.”.
34 La quale ebbe il suo climax con l’inaugurazione delle omonime thermae romane nel 25 a.C, ricostruite poi dall’Imperatore Adriano nel II secolo d.C. Situtate nella zona subito a nord del Largo Argentina, tra Corso Vittorio Emanuele e Via di Santa Chiara, erano le più antiche terme pubbliche di Roma, la cui edificazione iniziò per l'appunto nel 25 e terminò grossomodo nel 19 a.C., quando entrò contestualmente in funzione l'Aqua Virgo (ancora oggi attivo); un primo restaturo che le vide protagoniste avvenne sul finire del I secolo d.C, precisamente nell'ultimo ventennio (80), a seguito del rovinoso incendio che scoppiò, e successivamente subirono rimaneggiamenti sotto Adriano, il quale intraprese opere di consolidamento anche del Pantheon e di tutta la zona nei pressi. Ultimi interventi sono da annoverarsi durante il principato di Costanzo e Costante nel 344–345. Le dimensioni dell'edificio furono certamente ragguardevoli, contando 80-100 metri di larghezza e 120 di lunghezza: sue testimonianze ci sono giunte da un frammento della Forma Urbis Marmorea di età severiana e da vari disegni di epoca rinascimentale; per quanto concerne la struttura in pianta, possiamo constatare la sua arcaicità progettuale, sul medesimo stile delle terme pompeiane, con un corollario di ambienti che si dispongono irregolarmente attorno a una vasta aula centrale, la quale aveva un diametro misurabile in 25 metri. Metà di quest'ultima è ancora conservata ma sezionata, de facto, dalla Via dell'Arco della Ciambella; numerose e pregiate sculture ornavano i bagni, come l'Apoxyómenos di Lisippo (dal participio greco “ἀποξυόμενος”, ovverosia "colui che si deterge" scultura bronzea databile al 320-300 a.C e oggi a noi nota solo per una copia di età claudiana, in marmo pentelico, esposta al Museo Pio-Clementino ai Vaticani). Al loro fianco, e precisamente ubicato tra Via Corso Vittorio Emanuele e Via dei Nari), sorgeva lo Stagnum Agrippae (anch'esso rappresentato, seppur parzialmente, nella Forma Urbis Severiana), bacino artificiale alimentato dall'Aqua Virgo, e dunque non è assolutamente da eslcudersi un suo utilizzo come grande natatio collegata al complesso termale prospiciente (Nerone, in particolar modo, lo sfruttò per la realizzazione di sontuose feste acquatiche, con zattere trainate a rimorchio da barche). Un canale, denonimato Euripo, si allontanava dal bacino e, dopo aver attraversato l'intero Campo Marzio, terminava il suo corso gettandosi nel Tevere, all'altezza dell'attuale Ponte Vittorio Emanuele (un tratto ancora visibile è osservabile negli ipogei del Palazzo della Cancelleria).
35 Questa seconda ipotesi, a ogni modo, risulta maggiormente plausibile grazie a un dettaglio tecnico rilevato: l'aggetto visibile nella porzione sommitale del muro curvilineo a SO, nel quale è possibile ravvisare un gradino di rinforzo collocato ai reni della botte, tale da indirizzare in modo perpendicolare ai piedritti la linea di forza. Nelle volte a crociera, i cui punti di scarico sono invece posti alla base dei pennacchi, un accorgimento simile sarebbe risultato come del tutto pleonastico.
36 Digesto 8, 2, 17.
37 Venne disegnato dal Canina, assieme alla base ionico con toro modellato a tondini sul quale poggia.
38 In Annali e Memorie di Tivoli. Cronaca del secolo XVI, Roma (?), 1572.
39 De Aquis Albulis, Roma, 1568;
“Nelle terme ancora vi si veggono li vestigii di un grande portico in quadro, con i suoi bagni ordinati d'intorno intorno, et grande passeggiatoi: a uno, et commodità di quei che la bevevano elevati con un'ordine di bellissime colonne di marmo verde mischio, che domandavano i Latini Tiberiaco, le quali pochi anni son, sendo tutto il luogo rovinato, fra le dette ruine ritrovò la felice memoria di Papa Giulio III et le pose per ornamento della sua fontana, nella vigna fuori la porta Flaminia, che sono tenute di un valore inestimabile.Vi si vede tra le altre meraviglie un bagno appartato tutto lastricato di mischio bellissimo, con pareti et volta di un bellissimo mosaico. Et in mezzo il bagno il bagno pubblico da potervisi bagnare mille persone insieme, et d'intorno altri bagni particolari, , et stufe, che nel levar via quelle ruine, ultimamene ha fatto discoprire il magnifico M. Vincenzo de Tivoli; dell'una e l'altra legge dottore, et dignissimo restauratore di detti bagni.
Per quanto concerno le spese di scavo e trasporto delle sopracitate colonne, si può consultare Rodolfo Lanciani, Scavi della Storia di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità II, p. 109, III, pp. 18–19.
40 Antichità Tiburtine capitolo V, Roma 1611.
41 Il quadro circa la “Discrittione delle Acque Albule” è impreziosita da una ricca narrazione opulenta di particolari:
“Quella magnanima et regal fabricha fatta Cesare Imperatore Augusto la quale si ritrova discosto alle dette acque di cinquanta passi; cosa rara, regia et maravigliosa a crederlo; le acque passavano dal luogho ove risorgono per acquidotto sotto la terra e si conducevano al detto luogho regale et maraviglioso per li bagni ordinati con gran disegno et artefitio con le sue stufe et schali de diversa fattura, con pavimenti di mosaicho odorni, con un theatro ricento intorno da un ordine di bellissime colonne di briccie verdi le quali sono tanto in prezzo, con statue di marmo diverse, le colonne sono da trenta palmi alte, grosse proportionatamente, di ordine toschano con i suoi bellissimi capitelli et sue base, et acciò si habbi da credere che le dette colonne siano di valore et bellissima natura, la felice memoria di Papa Giulio terzo ne hebbe notitia di queste colonne vaghe, però subito ordinò che dovessino andare a Roma, delle quali se ne servì per lo adornamento della sua vigna vicina al palazzo del Papa che oggiedì si chiamare la Vigna del Papa Giulio ma dopo che le forno polite et imbronite le forno apprezzate mille et cinquecento scudi l'una; delle medesime colonne si ne ritrovano anchi quattr'altre in la Chiesa di San Pietro della città nostra di Tivoli della medesima natura et bellezza, similmente grosse et alte, si ritrovorno in lo modesto luogho di bagni, per il moderno adornamento,vi si ne ritrovano anche in detto luogho di molti altri pezzi rotti per terra, ma son cotti et consumati dalla antiquità del tempo e dal focho nel tempo che forno disfatti gli adornamenti diversi dalli Godi, quando possedettino la Italia […]
Si ritrovano anche in detto luogho di bagni muraglie grosse più di vinti cinque palmi con li suoi seggi ordinatamente per le comodità di coloro che dovevavano prendere li bagni, in dette muraglie si vedono acquidotti et credo che servivano per sfumaori delle stufe,perchè altro effetto non potevano fare per ritrovarsi così alte in dette muraglie più di ottanta palmi”.
E' di età medioevale, e da collocarsi nelle vicinanze dei laghi, il toponimo “plumbariola”, il quale può verosi essere derivato dalla presenza nella zona di condutture idriche in piombo.
42 “Di bagni si nobili pochi ruderi rimangono sopra terra, fra i quali si osservano due gran pilastri di 25 palmi l'uno di grossezza. Dovevano questi con altri due, che mancano [sic!], sostenere la volta di un vastissimo cenacolo, il pavimento del quale copriva molte stanze sotterranee, fatte per uso di bagni, dove si conduceva l'acqua per condotti di piombo sotterranei, alcuni de' quali sono stati moderatamente cavati dalli Monaci Camaldolesi”.
43 “Si va in quattro camerelle bislunghe ad uso di bagni, molo basse, con pavimenti presso che interi di mosaico bianco piuttosto ordinario, ad all'interno in ognuna, girano due ordini di gradini di cemento, per aadagiarvisi. L'acqua sulfurea vi s'introduceva per mezzo di fistole di piombo, trovate non a molti anni da monaci Camaldolesi proprietari in allora del casale”.
44 Il suo nome era a significare “Salute”, “Rimedio”, Cura” o “Medicina” e fu una Dea originaria del Pantheon ellenico. Ritenuta figlia di Ἀσκληπιός-Asklēpiós e della principessa di Κῶς-Kos, Ἠπιόνη-Ēpiònē, essa sovrintendeva all'igiene e alla salute ed era invocata al fine di prevenire malattie, malanni, danni fisici. Il suo culto era intimamente correlato a quello del padre, rappresentandone de facto un aspetto peculiare, e nella sua adozione nella sfera cultuale romana assunse anche i titoli di Salus e Valetudo. Le sue rappresentazioni canoniche la videro ritratta come una giovane donna dalle forme generose, la quale sorreggeva una patera in cui si abbeverava un serpentello, oppure assisa su di uno scranno, con la mano sinistra sorreggente un'asta e con la destra offrente una patera ricolma di liquido a un serpente; quest'ultimo, lambendo la coppa, si innalza sinuoso da un'ara posta dinnanzi alla Dea.
45 Ashby concordò con il Marucchi (O. Marucchi, “Guida del museo lateranense profano e cristiano”, Roma, 1922), il quale sosteneva che la statua di Ἀσκληπιός-Asklēpiós, nel XVI secolo adornante residenza Tiburtina della famiglia Cesi, fu rinvenuta, molto probabilmente, nei pressi delle Acque Albule; attualmente la statua è nel Nuovo Museo Gregoriano profano, inv. 9910). Tale scultura, già oggetto di analisi in “Culti e Dei nell'Antica Tibur – Pars Tertia” (Annales di ArcheoTibur, Volume 0, PPG. 19-26), fu in realtà scoperta nel suburbio a ovest di Tivoli, in località Acquoria. Stando al carteggio dello stesso Ashby, s'informò Giovanni Damiani, in data 25 ottobre 1861, che presso l'orto di Sestili Antonio venne alla luce una “statua di marmo greco” alta di 1,55 metri, sepolta a circa 1,20 m. di profondità e in propinquità di un ambiente reticolato e ipogeo. Il reperto venne inizialmente acquistato dal Ministero, poi ricomprata dai Musei Pontifici al costo di 1200 scudi, assieme a una maschera comica da teatro proveniente dalla stessa zona. Gli scavi, ripresi successivamente dal Sestili, fruttarono delle cornici marmoree e cinque porzioni di fistule plumbee bollate CIL XIV, 3702 (= CIL XV, 7903, Inscr. Ital. 618). Prestando fede a tutto ciò, si deve supporre che la statua fosse originariamente ubicata presso le Terme e successivamente, in un momento non precisato, venne spostata e in quello che divenne l'orto del Sestili; oppure, viceversa, essa fu semplicemente ritrovata in situ in località Acquoria (il che non dovrebbe comunque stupire, dato l'ambito divino specifico in cui operava Asklèpios e le proprietà terapeutiche dell'Aqua Aurea, odiernamente chiamata Acquoria.
46 Cod. Ligor. Torin, nota descrittiva in Storia degli Scavi di Roma II, p. 109, R. Lanciani, a riguardo degli scavi operati da Papa Giulio III nel 1522:
“Del piano di Conche et del Bagno di Cesari […] Hadriano vi fece un palazzo mirabilmente ornato di colonne del marmo verde per la parte di dentro del colonnato, et per la parte di fuori vi pose colonne di granito biggio […] le quali furono trasportate dopo la sua rovina in Tivoli et fu di essere fabbricata la chiesa di San Pietro, et parte ne sono state condotte in Roma nella villa di Papa Julio terzo.”
Particolare da notare è l'attribuzione delle terme all'Imperatore Adriano, curiosamente esatta (per quanto a oggi in nostro possesso, a livello di conoscenze del complesso) ma del tutto ignorata nelle successive pubblicazioni, da parte di altri studiosi, circa il tema in esame; l'archè potrebbe ricercarsi nell'interpretazione del passo di Trebellio Pollione (III – IV secolo, seppur la sua esistenza è tutt'oggi oggetto di dibattito), uno degli storici che composero l'Historia Augusta, a riguardo della possessio della Regina Zenobia (oggetto di disquisizione in un altro saggio, in questa stessa pubblicazione, a cura della dott.ssa Ottavia Domenici) e alla sua presupposta vicinanza con la residenza adrianea. A ogni modo, per casualità, fortuna o perizia, l'attribuzione delle Terme Albule a maestranze adrianee, da parte di Ligorio, si rivelò corretta.
47 Ambiente delle terme romane per i bagni di sudore, con aperture sulla volta.
48 Riportiamo la nota concernente questo passo specifico:
“Nelle escavazioni, che si fanno in quest'anno […] apparisce ivi fosser condotte mediante un canal di muro le acque del lago delle Colonnelle, perchè superiori di livello di m. 0,85 a quello delle Isole Natanti. Collo sgomberare poi le macerie […] si sono rinvenuti gli stanzini terreni destinati a' bagni co' loro pavimenti lavorati o di mattoni accoltellati, o di pezzuoli di marmo bianco e colorato, e qua e là frammenti di rosso antico […] e inoltre molti quadroni di terracotta”
I bolli doliari in questione sono rintracciabili in CIL XV, 617, 702, 1019, 1081, 1500.
49 Così come recitante la scritta in greco ( = Inscr. Ital. 608).
50 Il testo, in distici elegiaci, consta di un marito offrente all'Albula Lympha un'icona in metallo della moglie, augurandosi che quest'ultima potesse recuperare la salute perduta. E' logico supporre, quindi, che il complesso delle terme dovesse possedere anche una favissa ove immagini cultuali e offerte del tipo Ex Voto Suscepto venissero raccolte e, probabilmente, anche un'area appositamente dedicata al culto rituale vero e proprio delle Divinità (quali Apollo, Asclepio, Igea, etc.) e figure sovrannaturali (quali Albula, appunto, come vedremo a breve) che soprintendevano il luogo, alla cui funzione ricreativa dei bagni era chiaramente coniugata quella medica e curativa intrinseca alle virtù terapeutiche delle Santissime Acque. Possiamo dunque configurare uno scenario molto simile a quello di un Santuario vero e proprio e non, semplicemente, di solo bagni termali. L'Ashby, inoltre, assegnò al luogo anche il titolo erculeo in CIL XIV, 3541 ( = Inscr. Ital. 9).
51 Inscr. Ital. 596
“Debilis Albuleo steterat qui gurgire Samis / articulum medicis et tenuaret aquis / dente quod Aetrusco T(u)rgebat saucius apro / et Rusellano forte solutus erat / hinc (graciles) ubi iam nervi tenuisque cicatrix / et celer accepto currere coepit ecus / dat tibi pro meritis sem(e)t de marmore (d)onum / qua media(m) ga(u)dem, Lymfa, subire viam / Tiburis adversae dominus qua despicit aedem / frontibus et pictis Aelia villa (v)idet”.
52 Piccolo recinto circolare o quadrato, con un altare, che nell'antica Roma si dedicava, specialmente da privati, a Divinità o figure soprannaturali protettrici. Da ciò se ne potrebbe evincere che il “culto” di Albula non divenne mai così importante da assumere connotati tipici dei Sacra Publica, restando relegato a una dimensione più modesta, intima, legata a fattori particolari e specifici.
53 I sopracitati bolli oscillano dai primi agli ultimi anni del principato adrianeo (117 – 138 dell'Era Cristiana).
54 Marco Aurelio Marco Aurelio Antonino Augusto (Marcus Aurelius Antoninus Augustus; Roma, 26 aprile 121 -Sirmio o Vindobona, 17 marzo 180), meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio. Imperatore, filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato nel 138 dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale; regnò dal 161 sino al 180, data della sua morte.
55 Apertura presente nel tetto degli edifici romani, spesso abitazioni private, in corrispondenza della vasca detta impluvium, allocata nel pavimento con la funzione di raccolta dell'acqua piovana.
56 Porticato antistante l'accesso a un tempio, di un palazzo o, in macroscala, di una città: sovente avevano anche la funzione di mitigare la forte pendenza presente nelle vie di accesso cittadine. I Propilei più celebri sono certamente quelli ancora oggi ammirabili in Atene, risalenti al 500 a.C. circa, per quanto vi siano tracce monumentali di un precedente ingresso, datato ad almeno 70 anni prima.
57 I risultati degli scavi sono illustrati nel volume “Il Santuario Ritrovato. Nuovi Scavi e Ricerche al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni” (272 pp.), edito da “Sillabe” e a cura di Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli. Il volume, in italiano e con capitoli in inglese, funge da compendio circa gli studi di più di trenta autori sui risultati dello scavo al Bagno Grande.
58 Le analisi condotte in Spettrofotometria (X-ray fluorescence spectroscopy o X-ray fluorescence), tecnica di analisi non invasiva o distruttiva, la quale permette di determinare la composizione elementale di un campione attraverso lo studio della radiazione della fluorescenza X. Questa radazione è emessa dagli atomi del campione in esame, a seguito di eccitazione (che può generare anche effetto fotoelettrico) ottenuto irraggiandolo con raggi X e Gamma ad alta intensità. Tale tecnica conosce ampio utilizzo nello studio dei beni culturali, oltre che in geologia, biologia, medicina, fisica dell'atmosfera, chimica analitica, tecnologie alimentari e metallurgia.
59 Le dediche a Isis e Κυβέλη-Cibele forniscono una testimonianza piuttosto probante circa la multietnicità degli Dei onorati presso queste strutture (come è d'altronde logico attendersi da complessi romani); ambedue Grandi Madri Divine dal potere egemone, vennero però introdotte in Roma in periodi abbastanza distanti tra loro: Cibele il 4 aprile del 204 a.C., mentre la Dea Egizia oltre due secoli più tardi. Le iscrizioni in onore di Cibele, rinvenute in propinquità delle terme tiburtine, lascerebbero inoltre intendere la presenza di una struttura cultuale a lei dedicata sita nelle circumvicinanze.
60 Annales di ArcheoTibur Volume 0 e ORIGINES, rispettivamente ppg. 27-38; 69-75 e 373-416.
61 Eneide, Liber VII, 86-91.
62 Vedi nota 58;