"Mosaico
del Gladiatore", Roma, circa 320 d.C., Galleria Borghese.
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I
Gladiatori, figure d'insondabile fascino che per millenni hanno
ispirato la fantasia di scrittori, artisti, storici e archeologi. Le
gesta di alcuni di loro animano ancora l'immaginario comune quali
eroi che, sfidando morte e sofferenze nell'arena, si guadagnarono la
libertà; altri ancora, come il leggendario trace Spartacus,
arrivarono persino a dar luogo alla terza e ultima Guerra
Servile(*1),
tra il 73
e
il 71
a.C., radunando un possente esercito di ribelli, schiavi, reietti e
osando sfidare la grande potenza della Repubblica Romana. I
Gladiatori, e gli anfiteatri luoghi delle loro gesta, sono
inscindibilmente legati all'immaginario comune di Roma, un
palcoscenico che troppo spesso è stato frutto d'interpretazioni
errate volte ad esaltare la crudeltà e la spietatezza del popolo
romano
intento
a godere del suo passatempo prediletto, i Ludi
(“giochi”)
Gladiatorii.
I più antichi combattimenti gladiatori avvenivano nei Fora,
le piazze cittadine cuore dei principali avvenimenti pubblici e vi si
poteva assistere prendendo posto su costruzioni temporanee in legno,
chiamate Maeniana,
una sorta di balconate lignee antesignane delle tribune posizionate
sopra le botteghe: i munera
(
dal termine munus, ovverosia “offerti
in dono”)
in onore di Giunio
Bruto Pera,
i primi celebrati a Roma, si svolsero nel Foro
Boario,
dunque l'area destinata agli scambi commerciali nei pressi del
fluviale Portus
Tiberinus,
voluti dai suoi figli Marcus
e
Decimus
durante il consolato di Appio
Claudio Cieco.
Inizialmente i munera
gladiatori
ebbero prevalentemente un significato magico-religioso, indirizzato
alla soddisfazione dell'anima del defunto al quale erano offerti,
come superbamente testimoniato dai primi giochi organizzati in Roma
di cui abbiamo poc'anzi fatto menzione: tra la tarda repubblica e dal
primo periodo imperiale in poi questa specifica funzione venne meno e
iniziarono i giochi gladiatori per come ancora oggi li intendiamo,
con la funzione di spettacolo ludico offerto da un ricco patrono al
pubblico. Occorre, però, fare un poco di chiarezza su quanto
poc'anzi premesso e affermare che nonostante la tradizione
gladiatoria romana risalga all'anno 264
precedente
all'era cristiana, tradizione di probabile origine campana risalente
al IV
secolo a.C e mutuata poi dagli Etruschi
che
dovettero trasmetterla ai romani, i primi anfiteatri non comparvero
se non tra la fine del II
e
il principio del I
secolo a.C. in Campania, per l'appunto.
Il
più antico anfiteatro sorse forse a Capua,
seguito da quello di Pozzuoli,
passando poi per
Cuma,
Paestum,
Nola
e Pompei,
quest'ultimo de
facto il
più antico di cui si abbiano tracce archeologiche tangibili. La
costruzione pompeiana, databile circa al 70
a.C.,
venne chiamata all'epoca Spectacula
giacché il termine “Amphiteatrum”
non era ancora stato coniato: Spectacula
è
il primo nome che venne utilizzato per classificare questa tipologia
di strutture, derivandolo dalla funzione dell'edificio ovverosia un
luogo dal quale si “guardava” uno spettacolo. La forma ellittica
dell'anfiteatro romano rispose, fondamentalmente, all'esigenza di
offrire la miglior visuale possibile essendo un luogo dove ci si
recava per “osservare” qualcosa, in qualsiasi punto ci si
trovasse: con i suoi lati curvi tale espediente risolse in gran parte
la necessità sopracitata; la distanza limite calcolata dagli
architetti romani era di circa 60
metri,
ossia quanto un occhio umano può tollerare per avere una visione
sufficientemente nitida. Fu durante l'epoca dell'Imperatore Ottaviano
Augusto
che la parola Amphiteatrum
comparve
per la prima volta, nel De
Architectura di
Vitruvio datato circa all'anno 27
antecedente
l'era cristiana.
La parola Amphiteatrum
possiede
radici greche ma la sua origine è indubbiamente romana, non essendo
attestata se non nel I
secolo a.C.:
è composta da Amphì,
“tutt'attorno”,
e Théatron,
“luogo
in cui si guarda [uno spettacolo]”.
L'anfiteatro sarebbe dunque “l'edificio
che corre tutto intorno all'arena”
e divenne sinonimo di struttura ove poter assistere a giochi, lotte,
rievocazioni di miti e famose battaglie, condanne capitali e
supplizi. Il prestigio che derivava dall'organizzare giochi
gladiatori, spesso utilizzati come potente strumento politico volto
ad agevolare l'ascesa al potere, fu anche la causa scatenante di
situazioni particolarmente spiacevoli e spinose: Tacito,
nei suoi Annales,
narra di come durante il principato di Tiberio,
notoriamente poco amante dei ludi,
ci furono pochi controlli in merito e si spianò la strada agli
speculatori. Nell'anno 27
dell'era cristiana, a Fidene,
accadde una vera e propria tragedia poichè in occasione di munera
organizzati
da un libertinus
di
nome Attilius
l'anfiteatro ligneo, costruito evidentemente con materiali e
manovalanza di livello scadente e sovraccarico rispetto alla sua
capienza massima, crollò prima verso l'interno e poi rovinò verso
l'esterno, causando tra morti (20mila)
e feriti circa 50mila
vittime.
A seguito di ciò il Senato pose rimedio legislando che
da quel momento in avanti nessuno potesse finanziare uno spettacolo
di gladiatori se non possedesse una rendita di almeno
quattrocentomila
sesterzi;
inoltre, fu stabilito che non si costruissero anfiteatri se non su un
suolo di provata solidità.
Attilius, ovviamente, fu esiliato.
Ruderi dell'anfiteatro di Bleso, Tivoli, II secolo dell'era cristiana. |
Forme di combattimenti tra uomini e bestie
Le
Venationes, i combattimenti tra
gladiatori e belve feroci atte a rappresentare simulazioni di caccia,
erano certamente una componente importante nei munera che
venivano offerti al pubblico: a tal riguardo abbiamo, nella nostra
città, un'importante testimonianza epigrafica attualmente custodita
nell'androne di Palazzo San Bernardino, la sede comunale, databile al
24 luglio del
184 d. C.
(9 giorni prima delle
calende di agosto), dove
si testimonia che M. Lurius Lucretianus
pagò il finaziamento di una Venatio e
di incontri di 20
coppie di gladiatori (*2)
Prima di divenire, però, una componente inscindibilmente legata ai
ludi gladitorii
nel
senso proprio del termine, le lotte tra uomini e bestie
attraversarono un lungo percorso: gli elefanti, a esempio, denominati
inizialmente buoi
lucani e
incontrati la prima volta nel 280
a.C durante le battaglie con Pirro,
Sovrano dell'Epiro, furono oggetto di prime cacce nei circhi e
venationes dal
252
in poi; i circhi, solitamente, ospitavano le corse dei carri di cui i
romani erano letteralmente innamorati ed erano strutture
dalla forma allungata, lati paralleli, estremità ricurve delimitanti
una pista con al centro la spina, l'asse divisorio longitudinale
intorno al quale si svolgeva la corsa. All'estremità della spina due
pilastri, le Metæ,
segnano il punto di svolta dei carri, con le quattro squadre
principali denominate rossa, bianca, verde e azzurra. Nell'anno
167
antecedente l'era cristiana il console Lucio
Emilio Paolo Macedonico istituì
l'esecuzione capitale ad
bestias per
punire i disertori stranieri tra le fila dell'esercito romano in
occasione della battaglia di Pidna,
in Macedonia (*3);
nell'anno 55
presso il Teatro
di Pompeo,
il primo a esser costruito in muratura nella storia della città, i
romani poterono ammirare una lince, un rinoceronte, una renna e un
gorilla: Gneo
Pompeo Magno
fu duramente ingiuriato e insultato, anziché acclamato, per la
crudeltà mostrata verso gli sfortunati animali. Nel
46,
invece, in concomitanza del Quadruplice
Trionfo di Cesare,
si poté osservare una giraffa, chiamata Camaleopardis
(il Cammello Leopardato, poiché essendo una specie del tutto nuova
non si capì come classificarla esattamente) o Ovisfera,
la “Pecora Selvaggia”: sgraziata, poco aggressiva e dalle strane
fattezze non fu mai amata dal popolo romano.
Alle Venationes
era
riservata l'esibizione mattutina, sia con combattimenti e simulazioni
di battute di caccia che vedevano le fiere opposte ai Bestiarii
sia
con esibizioni con animali ammaestrati cimentantisi in giochi
circensi; per catturare le belve senza ferirle era utilizzata la
pedica dentata,
una sorta di tagliola priva di denti atta a immobilizzare l'animale
senza lederlo.
Mosaico raffigurante combattimenti tra Bestiarii e fiere, Damnatio ad Bestias e lotte tra bestie l'una contro l'altra, I secolo dell'era cristiana, Tripoli, Libia, dalla villa di Dar Buc Ammera. |
Le
condanne capitali possono essere intese come antesignane di ciò che
poi divennero i giochi gladiatori negli anfiteatri: come analizzato
in precedenza, le strutture precedenti alle arene erano denominate
Spectacula e
ospitavano una molteplicità di eventi e rappresentazioni. Le
esecuzioni erano riservate a criminali che si erano macchiati di
reati estremamente gravi, eticamente ripugnanti, definiti “infami”,
e non punibili se non con la morte e si svolgevano durante l'ora di
pranzo: incendi dolosi, omicidi, disconiscimento del Mos
Maiorum,
sacrilegi. I cristiani furono spesso soggetti a tale punizione
poiché, nella mentalità romana, erano rei di tradimento e orribile
profanazione, rifiutandosi de
facto di partecipare
alla vita pubblica religiosa e disconoscendo la natura divina
dell'Imperatore; la pubblicità dell'esecuzione, la quale avveniva
sotto gli occhi di migliaia di persone, aveva lo scopo di umiliare il
condannato e fungere da deterrente per tutti coloro i quali
calcassero il suo medesimo sentiero. Un sistema utilizzato per le
esecuzioni era quello della tunica
molesta, un tipo di
indumento imbevuto di sostanze infiammabili indossato dal condannato
e al quale si appiccavano le fiamme, lasciando il malcapitato a
“danzare” sino alla totale combustione. Una tipologia di condanna
piuttosto in voga era la Damnatio
ad Bestias, nella
quale i criminali erano introdotti nell'arena e costretti a
cimentarsi in una lotta impari con belve feroci oppure a inscenare
drammatici racconti mitologici nei quali i protagonisti degli stessi
perdevano la vita a seguito di scontri con creature bestiali. Non di
rado erano costretti a combattere privi di addestramento e senza
speranza di vittoria poiché avrebbero continuato a battersi sino a
quando non sarebbero stati uccisi: tale tipologia era denominata
munera sine missione,
equivalente a “giochi senza resa”. A tal riguardo, la celebre
espressione “Ave
Caesar, Morituri te Salutant”,
intesa oramai al giorno d'oggi quasi al pari di una frase rituale
presente in ogni ludus
gladiatorio, è
attestata solamente una volta nell'anno 52
dell'era cristiana in
occasione della Naumachia
volta a celebrare la
costruzione del canale atto a bonificare e prosciugare le acque del
lago Fucino:
i criminali, condannati a morte, la pronunciarono prima d'iniziare la
battaglia navale dinnanzi all'Imperatore Claudio.
Passiamo
ad analizzare la figura vera e propria dei gladiatori, chi erano e
quali furono le ragioni che portarono degli uomini a combattere
dinnanzi a migliaia di persone in visibilio. Il termine Gladiatore
trae la sua origine
dal Gladius,
la celeberrima spada romana, e gladiatori erano coloro i quali che a
seguito di schiavitù, prigionia di guerra, condanne per crimini più
o meno gravi o talvolta persino uomini liberi oberati da debiti o
attratti da ricchezze e gloria, perdevano la loro libertà divenendo
a tutti gli effetti degli strumenti umani atti a intrattenere il
pubblico all'interno di quelle strutture denominate anfiteatri. C'è
da sottolineare come, nonostante la popolarità di cui godessero, i
gladiatori erano ritenuti al pari di reietti e chi decideva
d'intraprendere tale cammino era considerato un infamis
a livello legislativo; se avesse ottenuto successo, però, sarebbe
stato coperto di onori, gloria, fama, invitato a banchetti
altolocati, oggetto del desiderio delle più ricche matrone romane e
pagato più di un generale dell'esercito.
Con l'Auctoramentum
si designava quella
categoria di uomini giuridicamente liberi che decidevano di mettere
sé stessi ai servigi di un Lanista,
il titolare di una palestra gladiatoria: da quel momento, seppur
mantenendo una sorta di qual indipendenza, godevano di ciò che
possiamo definire “libertà attenuata”; nel linguaggio giuridico
erano considerati “auctoratus
meus”, riferibile
dunque a proprietà vere e proprie, e la loro sottrazione al titolare
era classificabile come furto. Il Lanista
era un impresario
dedicante la sua professione ai Ludi
Gladiatorii,
proprietario di una Schola
Gladiatorum e di
numerosi gladiatori formanti la sua Familia
i quali venivano
acquistati, spendendo cifre più o meno dispendiose, da schiavisti e
professionisti del settore. La prima scuola gladiatoria sembra sia
sorta nell'anno 105
antecedente l'era cristiana a Capua,
condotta dal Lanista
Caio Aurelio Scauro,
i cui gladiatori sembra addestrassero per conto dello Stato i soldati
impiegati nelle milizie regolari. Gli schiavi acquistati venivano
condotti all'interno delle palestre dove, sotto i rigidi insegnamenti
del Doctor
(solitamente un celebre ex gladiatore oramai ritiratosi dalle scene
dell'arena), trascorrevano le loro giornate in intensi ed estenuanti
allenamenti, nella speranza di poter un giorno guadagnarsi nuovamente
la liberà a seguito di eroiche azioni negli anfiteatri ottenendo la
rudis,
la spada di legno simboleggiante lo status di uomo libero.
A seguito
di un periodo di ambientamento più o meno lungo, il Lanista
assieme al Doctor
e al Medicus valutavano
le potenzialità del Tiro
(il novizio), le sue
caratteristiche intrinseche, la sua abilità sul campo e lo
destinavano alla classe a lui più congeniale, curandone la forma
fisica, la massa muscolare e seguendone l'alimentazione: a tal
proposito, la Sagina
(dieta) dei gladiatori
sembra fosse prevalentemente composta di legumi, cipolle, aglio,
cereali, frutta, frutta secca, semi di finocchio, poca carne,
latticini, miele, vino e olio, focacce d'orzo speziate con miele,
infusi di fieno greco o di frutta fermentata, ritenuti bevande
corroboranti ed euforizzanti. Un gladiatore oramai libero, definito
rudiario,
poteva optare se persistere nella sua carriera per fini economici ma
ciò avvenne raramente poiché il più delle volte sceglievano il
mestiere di istruttori nelle palestre gladiatorie oppure di guardie
del corpo mercenarie. Taluni, i migliori, conobbero una fama tale da
far apparire i loro nomi sui graffiti cittadini e divennero l'oggetto
del desiderio del pubblico femminile il quale li appellava con
vezzeggiativi come suspirium
puellarum. Una classe
particolare, denominata Cubicularii,
erano utilizzati per lo più in eventi privati dove allietavano i
commensali con combattimenti corpo a corpo o come guardie del corpo.
Acquistare, addestrare e nutrire un gladiatore era una spesa notevole
e quindi si può ben dedurre come i bagni di sangue rappresentanti da
film e descritti nei romanzi siano per l'appunto un'esagerazione
volta a drammatizzare la figura dei combattenti dell'area: il
pubblico amava i suoi beniamini e, se non in rare occasioni segnate
da comportamenti particolarmente vigliacchi, non desiderava la loro
morte poiché, giudicandoli benevolmente, avrebbero potuto ammirarne
nuovamente le gesta. A tal riguardo occorre sottolineare di come,
sembra fino all'epoca domizianea, il giudizio finale sulla sorte di
un gladiatore spettasse all'Editor
(organizzatore)
dei ludi:
lo sconfitto poteva chiedere la missio
(la grazia) alzando la
mano sinistra, solitamente sorreggente lo scudo ergo quella deputata
alla difesa (tranne che nel caso degli Scaevae,
gladiatori mancini amati dal pubblico per il loro stile
imprevedibile) e, nel qual caso fosse stata accettata, egli sarebbe
divenuto un missus,
un graziato.
Di rimando, il Lanista
(la cui origine del
termine sembra derivare dal peggiorativo di Lanius,
ovverosia “macellaio”) che avesse visto crescere in fama e
importanza i suoi atleti avrebbe contestualmente migliorato la
propria posizione sociale e aumentato il prestigio correlato a essa:
facile dunque comprendere come, per tutti gli i soggetti coinvolti
nella grande azienda dei Ludi,
fosse conveniente lasciare in vita i gladiatori migliori. Ogni
lottatore era tenuto a prestare un solenne giuramento denominato
sacramentum gladiatorum
il quale recitava: ”Uri,
vinciri, verberari, ferroque necari”,
traducibile con “Sopporterò
di esser bruciato, legato, morso e ucciso per [onorare] questo
giuramento”; alcuni
di loro, al di là delle terribili parole insite nel loro voto, non
combattevano se non due o tre volte l'anno e ottennero un prestigio e
ricchezze tali da poter esser equiparati ai migliori aurighi del
tempo. Fu in epoca augustea che i munera
assunsero i caratteri
tipici che li resero ciò a che noi è pervenuto dal passato: in
periodo repubblicano furono giochi bellici volti a onorare lo spirito
di parenti defunti, con i combattenti chiamati Bustuari
poiché pugnavano
attorno alla pira del morto. Già a partire dal II
secolo antecedente
l'era cristiana iniziarono a connotarsi come spettacoli ludici;
durante il principato di Ottaviano
divennero una pratica agonistica di elevato livello con l'Imperatore
che ricoprì il ruolo di “inauguratore” di tali giochi; negli
anni del primo impero, cominciarono a differenziarsi ed evolversi i
combattenti e il loro equipaggiamento. Inizialmente bardati ed armati
sul modello militare dei soldati, nel corso del tempo svilupparono
uno stile proprio soprattutto nell'elmo: anticamente aperto e privo
di visiera, chiuso, altamente protettivo e riccamente decorato in età
giulio-claudia. La gladiatura, meccanismo poi perfezionato dai
successivi imperatori, divenne un superbo strumento di propaganda
politica dell'opulenza imperiale e il termine munera
divenne sinonimo di “dono
offerto al popolo”,
oramai del tutto avulso dal significato legato ai giochi funebri che
ebbe nel passato. Le palestre gladiatorie più famose e rinomate
sorsero a Roma,
Ravenna,
Capua
e Pompei.
Quello
delle combattenti donna è un tema piuttosto misconosciuto e ancora
oggi soggetto a interpretazioni erronee: iniziamo subito con
l'affermare che esistettero e dovettero essere anche uno spettacolo
non raro né così fuori dalla norma, se ci basiamo sull'iscrizione
rinvenuta a Ostia
Antica menzionante un
certo Hostilianus,
probabilmente un editor,
il quale si gloriava d'esser stato il primo a portare le gladiatrici
in città. Nell'anno 19
dell'era cristiana
durante il principato di Tiberio
venne emanato un senatus
consultum di Larinum
conosciuto come Tabula
Larinas (*4)
poiché ritrovata incisa, seppur incompleta, su di una tavoletta
bronzea, vietante a parenti e consanguinei di senatori ed equites
battersi all'interno
di un'arena pena il conseguimento della stato giuridico di infamis.
Tale senatus
consultum rimandava a
sua volta a un decreto messo in atto 8 anni prima, nell'11,
de facto proibente
alle giovani al di sotto dei 20
anni di esibirsi
nell'anfiteatro: ciò ci lascia chiaramente comprendere come la
professione della gladiatura fosse considerata disdicevole per
determinati ceti sociali, che se si era percepita la necessità di
vietare la gladiatura per le giovani al di sotto dei 20
anni erano esistiti
dei precedenti e che comunque non lo si proibiva dai 20
in poi. Grazie alla testimonianza di Svetonio
nelle Vite dei Cesari,
di Marziale e
di Stazio
sappiamo che l'Imperatore Domiziano
offrì ludi notturni
alla luce delle torce con combattimenti sia tra uomini sia tra donne,
aggiungendo a volta dei nani che pugnavano contro le gladiatrici,
secondo Cassio Dione;
Petronio,
nel suo Satyricon,
narra invece di una donna essedarius
combattente su di un
carro di stile celtico forse ispirantesi alle gesta della potente
regina guerriera Boudicca.
Le gladiatrici dovettero combattere a torso nudo al pari di amazzoni
e non indossanti alcuna protezione per il capo, qualunque fosse la
classe alla quale appartenessero. Durante
il principato di Nerone, in uno dei munera offerti dall'Imperatore al
popolo, apparvero sull'arena sia donne che uomini di rango
senatoriale, nella veste di gladiatori e bestiari mentre nell'anno
66,
in occasione dei ludi organizzati dall'editor
Patrobio
a Puteoli in
onore di Tiridate I di
Armenia,
vennero fatti esibire persino donne e bambini provenienti
dall'Etiopia:
sembra che delle gladiatrici presero parte ai combattimenti
inaugurali dell'Anfiteatro Flavio.
Non tutti gli Imperatori, però, amarono questo genere di gladiatura:
Settimio Severo,
ad esempio, tentò di bandire i combattimenti con le gladiatrici
attorno al principio del III
secolo dell'era cristiana ma inefficacemente, come testimoniato da
un'epigrafe rinvenuta a Ostia
Antica e successiva al
bando severiano. L'indizio più probante concernente la loro
esistenza, seppur ancora scatenante accesi dibattiti tra i
professionisti del settore, è il famoso rilievo marmoreo di
Alicarnasso
attualmente custodito presso il British
Museum di Londra: su
di esso sono rappresentate, con elevata probabilità, due gladiatrici
intente a darsi battaglia. Sono raffigurate a torso nudo con i seni
esposti, come le mitiche Amazzoni,
indossanti le tipiche protezioni da gladiatura come gli Cnemides
(schinieri), la Manica
(corazza imbottita di
vari materiali e cuoio) e il Subligaculum
(perizoma) fissato dal
Balteus (la
cintura di tipo militare); imbracciano Scutum
rettangolare e
brandiscono un Gladius.
I loro nomi di battaglia vengono enunciati come Achillia
e Amazon
e, poiché
combatterono ambedue con onore e bravura, ottennero la missio.
Il cosiddetto bassorilievo delle gladiatrici, Alicarnasso, I-II secolo d.C., British Museum. |
(*1)
La rivolta capeggiata dal
gladiatore ribelle Spartacus il Trace (109-71
a.C.), che scoppiò nel Ludus
Gladiatorius a Capua
condotto dal Lanista Quintus
Lentulus Batiatus portò
alla deflagrazione della Terza Guerra Servile,
sedata solo dopo lunghe, costose e spesso infruttuose campagne
condotte dai romani contro l'esercito di schiavi, contante decine di
migliaia di unità.
(*2)
Per
ulteriori approfondimenti al riguardo è possibile consultare
l'articolo “L'Anfiteatro
di Bleso”
pubblicato dalla nostra associazione e reperibile sul sito internet
“www.archeotibur.org”
alla sezione “Articoli-
Storia e Patrimonio Artistisco e Archeologico dell'area Tiburtina”
(*3)
A tal riguardo, va menzionata la Lex
Petronia de Servis che
legislava su come uno schiavo non potesse esser condannato a morte
dal proprio padrone se prima non vi fosse stato un regolare processo
con sentenza di un giudice. Precedentemente al principato di Tiberio
non fu così.
(*4)
Testo
della Tabula
Larinas:
“Ordinare che
alcuno presenti sulla scena il proprio figlio, la figlia, il nipote,
la nipote, il pronipote, la pronipote di un senatore, né uomo [il
cui padre o nonno] paterno o materno, o il cui fratello, né alcuna
donna di cui il marito o padre o nonno paterno o materno o il
fratello abbiano avuto mai il diritto di assistere agli spettacoli
dai posti assegnati ai cavalieri, alcuno li presenti sulla scena
tanto meno li faccia combattere dietro auctoramentum.”
Fonti bibliografiche:
-“Atti&Memorie
della Società Tiburtina”, M.
C. Leotta, 1993-1997-1998-1999;
-”Atti&Memorie
della Società Tiburtina”,
Riccardo Frontoni, 1997, pp.121-135 e tavv. XXV e XXXIX
-”Satyricon”,
Petronius, 117;
-Epistulae
morales ad Lucilium”, Lucio
Anneo Seneca
-Corpus
Inscriptionum Latinarum I, 590
82593
45, 46, 81 594 80
-"Morte
nell'Arena. Storia e leggenda dei gladiatori",
Federica Guidi, Mondadori editore, 2009
-"Naturalis
Historia",
Plinio il Vecchio
-"La
Vita Quotidiana a Roma",
Jerome Carcopino, Universale Laterza, 1971
-"V.
Maximi Factorum et Dictorum Memorabilium",
Valerio
Massimo,
II, 3, 2
-"Historiae",
Publio Cornelio Tacito, II,
88, 2-3
-"Saturae",
Decimo Giunio Giovenale, III 35.37, XI, 20
-”Romaikà”,
Cassio Dione
-”De
Vita caesarum”,
Gaio Svetonio Tranquillo
-Epigrammaton
Libri XII”,
Marco Valerio Marziale
-”Silvae”,
Publio Papinio Stazio
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