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Suonatore
di flauto, vaso Attico in ceramica a vernice rossa, V secolo a.C.
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Questo approfondimento narrerà la storia antica dei tibicenes o suonatori di tibia, che per protesta politico-religiosa contro lo Stato romano decisero collegialmente di andare in esilio volontario presso la nobile e arcana Urbe tiburtina; tuttavia, nel corso della millenaria storia evolutiva umana, i flauti hanno avuto sempre un ruolo centrale negli accompagnamenti musicali: i suddetti furono tra i primi strumenti realizzati dalla specie sapiens sapiens sin dal loro primigenio luogo d'origine.
La loro semplicità nella
realizzazione e fabbricazione, in origine tramite materiali legnosi e
ossei, portò ad un precoce utilizzo e ne sono testimonianza le prime
rappresentazioni su sculture delle “vetuste”
culture mesopotamiche di Sumer
e Akkad.
Nei
sacri testo ebraico-semitici,
specificatamente
nel libro della Genesi, si accenna per la prima volta a
rappresentazioni musicali, sviluppate in un'epoca che si aggira tra
il 3300
e il 3200
a.C., in cui si descrive Iubal
o Jubal
figlio
di Lamec
e
Ada,
descritto come il “padre di tutti quelli che
suonano la cetra e il flauto..”.
I flautisti spesso erano anche associati a banchetti, o festività
religiose e politiche, e lo si riscontra anche nella cultura
Medio-Orientale dell'Assiria,
dove i flautisti accompagnavano solenni processioni rituali al fine
di propiziare la fertilità agraria, la magnificenza e la potenza del
Regno, per tramite dei feroci e cerimoniosi Re di Assur
.
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Bassorilievo
Assiro, con suonatori di strumenti musicali, Ninive, VII a.C.
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Anche
nei faraonici e millenari regni d'Egitto la musica era strettamente
connessa alla religiosità e costituiva una vera e propria forma
d'arte. La divinità preposta ad essa sembrerebbe essere stata la
grande Dea Madre Hator.
Essa venne vista e rappresenta come una Vacca Sacra custode di tutto
il “Cielo”,
ma anche come Dea
della gioia, danza, musica, dei musici e dell’ebbrezza. Fra gli
strumenti a fiato il più diffuso era il doppio
flauto,
che si distingueva tra due tipi, dove la misura poteva variare da
venticinque centimetri sino ad un metro. Il flauto corto veniva retto
e suonato dal musicista davanti a sé in orizzontale, mentre il
flauto lungo veniva utilizzato in obliquo, per dirigere il soffio
d’aria sul bordo di una della estremità. Spesso veniva realizzato
in giunco con bocchino di papiro.
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Suonatrici
di strumenti musicali. Valle dei Re, Tomba di Thutmosis IV, 1411 a.C
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Nel
mondo Greco, il flauto è uno dei simboli di alcune entità immortali
come per esempio Pan, un satiro Divino metà capra e
metà umanoide, con corna, orecchie a punta e pizzetto, tipica figura
del mondo silvestre e boschivo, grande suonatore di
questo strumento utilizzato anche per incantare ed irretire i
viandanti. Tuttavia il suddetto flauto di Pan, chiamato anche
siringa o zampogna, è un aerofono
a fiato costituito da più canne il cui numero può variare,
di lunghezza diversa e legate o unite tra loro, dove il suono si
ottiene tramite il soffio trasversalmente sulle aperture superiori
delle canne.
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Pan
che suona la stringa
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Pindaro
afferma che la Dea dagli occhi splendenti, Atena,
volesse trovare uno strumento che imitasse il sibilo e il suono
lamentoso del vento quando precede l'uragano; prese l'osso cavo di un
cervo lo forò con una serie di buchi, soffiando dalla canna,
otturando ora un buco ora l'altro, cosi che la dea ottenne quello che
voleva facendo nascere il flauto. Un giorno, mentre stava suonando al
cospetto degli altri Olimpici, si accorse che l'Urania
Afrodite e la Tritonia Hera sorridevano
maliziosamente, pensando che fosse per lei e non per la sua
invenzione, cosi che Pallade si offese. In realtà le
due sorridevano per una questione di mera estetica perché, per
soffiare nel flauto, ad Atena si gonfiavano le gote, donandole un
aspetto grottesco. La Tritogeneia lasciò l'Olimpo infuriata
ed arrabbiata, raggiunse un ruscello dove, stanca, si mise a suonare
il suo strumento sulla riva ma, tuttavia, specchiandosi nell'acqua,
capi il motivo di quelle risate, pensando che le Dee, da sempre sue
rivali per la bellezza, celebre fu l'episodio della mela con di
Paride/Alessandro, non avessero tutti i torti. Da quel
giorno la Divina Elmata non suonò più il flauto, anzi, lo
disprezzò e lo gettò via. Lo strumento venne poi raccolto dal
satiro Marsia che lo utilizzò per sfidare il
divino Gemello Apollo
in una gara di abilità musicale, che pur tuttavia
perse finendo scorticato vivo.
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Apollo
e Marsia, G.S. detto Il Montalto 1665.
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Tuttavia
gli antenati più illustri dei flauti romani furono gli
aulòs
o in greco
αὐλός.
Essi
erano, come il flauto di Pan, strumenti, aerofoni a
fiato formati da un tubo di canna di legno, oppure d'osso o avorio,
con imboccatura a bulbo e relativa ancia. Spesso lo si vede
raffigurato nella forma a due tubi divergenti, in qual caso viene
detto διαυλός o diaulòs, cioè
“doppio aulòs”. L'aulos veniva utilizzato nelle
tragedie e nei riti simposiaci, comastici e funerari con il fine di
creare un forte impatto emotivo tra il pubblico stante. Secondo il
grande filosofo Aristotele di Stagira l'αὐλός
non doveva essere usato in situazioni aventi scopo educativo, mentre
era consigliato nei riti purificatori. Proprio per la sua capacità
di suscitare forti emozioni, era spesso collegato ai culti del credo
dionisiaco. Tuttavia dai greci fu molto utilizzato anche in guerra
dove lo troviamo sulle triremi, per ritmare la cadenza dei remi, con
un apposito addetto, denominato il τριηραυλής
o trièraulès.
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Suonatrice di aulòs, vaso Attico a figure rosse, V secolo a.C. |
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Aulòs in osso, Paestum. |
Tra
tutte le culture italiche antiche, vediamo massicciamente
usato il flauto in ambito Etrusco. I Tusci ne
erano affascinati e adoravano spassionatamente la musica, danza,
spettacoli e caccia, solendo accompagnare con esse gran parte delle
attività giornaliere. Il flautista soffiavi nei beccucci per
ottenere suoi acuti o bassi, a secondo dell'esigenza, ma poteva
soffiare contemporaneamente in entrambi per ricavare una sinfonia
melodica. Il suono dei flauti in generale, ma specificatamente nella
variante Tirrena, assomigliava a quello di una
cornamusa, dopo anni e anni di esercitazione.
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“I
tre musici”, Tomba dei Leopardi, V secolo a.C., Tarquinia.
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Il
Mondo romano ereditò a piene mani sia le tradizioni musicali dei
vicini ed illustri Etruschi
che,
per tramite di altri popoli italici, le melodie greche e magno-greche
perfezionandole al massimo. I Preposti suonatori di flauto nell'Urbe
erano detti Tibicines
(“Suonatori
di Tibia”)
e
formarono
una corporazione o collegium
fin
da epoche arcane. Alcuni erano al servizio dello Stato; i più a
disposizione di chi richiedesse il loro intervento in cerimonie
religiose e non, di carattere privato e pubblico. La loro opera si
esplicava in modo particolare nei funerali e sulla scena, con
l'accompagnamento musicale dell'azione. Alcuni fra i suonatori
di tibia
eccelsero
nella loro arte divenendo famosi: raggiunse alta rinomanza, al tempo
dell'Imperatore Ottaviano Augusto, il tibicen
Princeps
mentre sotto il Principato di Nerone
e Galba
grande fu la fama del Choraule
Canus
di
Rodi.
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“Musici”,
mosaico romano dei Verdiales, Pompei.
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La
storia che stiamo raccontando pone due protagonisti principali: i
suddetti tibicines
e il popolo della trimillenaria Tibur.
Ci fu un fatto, nel 331
a.C.
che destò molto scalpore, a proposito di questioni religiose
nell'Urbe.
I
suonatori
di flauto
reagirono aspramente alla decisione presa dai censori Gaio
Plauzio Venoce
e Appio
Claudio
detto il Cieco
(alla
sua opera si deve la costruzione del primo acquedotto Romano, l'Aqua
Appia e
la
Via
Appia,
detta
anche Regina
Viarum)
che
proibiva ai tibicines
di
tenere, nel tempio di Giove
Capitolino sul
Colle
Campidoglio,
un banchetto accompagnato dalla musica e danza di antichissima
tradizione Regia. Per protesta essi se ne andarono in massa nella
città di Tibur
mentre
nella Caput
Mundi
non rimase nessuno in grado di accompagnare con il flauto e la musica
i sacrifici religiosi.
La Curia Romana,
allarmata, fu presa da scrupoli religiosi e, a questo proposito,
inviò degli ambasciatori nella città tiburtina, nel tentativo di
dissuadere i flautisti dal loro esilio e farli tornare ad
amministrare il loro lavoro giornaliero. Ben
volentieri i tiburtini si prestarono, persuasi dalla ragion
di Stato
causa della loro cattività e sudditanza, ma quando essi convocarono
i suonatori nel Senato
tiburtino,
orientativamente collocato sotto l'attuale Piazza
del Duomo,
tentando di persuaderli a tornare a Roma, non riuscirono in alcun
modo a convincerli, seppur con preghiere e giuramenti e suppliche.
Allora i tiburtini ricorsero ad un espediente che
sembrava fatto apposta per l'indole di quella gente girovaga, senza
legge, non curante dello svolgimento delle festività religiose: cosi
Tito Livio descrive i tibicines, quasi
fossero nel livello più basso della società romana. Nel giorno di
festa alle Idi di giugno li invitarono, chi in una casa chi in
un'altra, con il pretesto di voler rallegrare il banchetto con la
loro musica. Il piano dei tiburtini consisteva nel far ubriacare i
tibicines con il vino, di cui sapevano essere avidi e
ghiotti. Dopo che i flautisti si furono addormentati di un sonno
profondissimo, provocato dell'ingente quantitativo assunto di nettare
degli Dei, li caricarono su dei carri coperti per trasportarli
in Roma, d'accordo con i romani, a loro insaputa.
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Carro
da viaggio romano, bassorilievo da riutilizzo nella Cattedrale di S.
Maria Saal, Klagenfurt (Austria).
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I
suonatori non ripresero conoscenza se non quando furono colpiti dalla
luce del giorno, mentre ancora stavano, frastornati dalla sbornia,
sui carri abbandonati nel Foro
Romano:
immediatamente accorse una moltitudine di persone,
cercando in tutti i modi di convincere i tibicini a rimanere
in città. Il Senato deliberò di concedere ai tibicini
festeggiamenti, in giro per la città indisturbati, per tre giorni
all'anno, vestiti a loro modo, da accompagnarsi con canti; fu infine
ripristinato il diritto di banchettare nel tempio per coloro i quali
accompagnavano con la musica i sacrifici, i “suonatori
di tibia”.
Fonti Bibliografiche :
Brian
M. Lavelle:
Hippokleides
the Dance, and the Panathenaia,
in Greek,
Roman, and Byzantine Studies,
vol.
54, nº3, 2014, pp.313-341.
Tito
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Ad
Urbe Condita,
libro
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Antico
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libro
IV, capitolo 21.
A.
Howard:
The
aulos or tibia,
in Harvard
studies in classical philology,
IV
(1893),
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X.
A.
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Zur
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Zurich 1890.
Tillyard:
Musical
instruments in the time of the Romans,
in Journal
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1907,
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Th.
Reinach,
in Daremberg-Saglio:
Dictionnaire
des antiquités grecques et romaines,
V,
p. 331, s. v. Tibia.
Le
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De Agostini, Novara, 1965,
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pag.
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.
Robert
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The
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Saskatoon, Greenwich-Meridian, 1981.
Tintori,
Giampiero:La
musica di Roma antica,
Akademos, Lucca 1996.
Comotti,
Giovanni:
La
musica nella cultura greca e romana,
Torino, EDT, 1991.
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