Benvenuti nel sito ufficiale dell'A.P.S. ArcheoTibur di Tivoli (RM).NUOVO ANNALES VOL. III ANNO IV DISPONIBILE

I Lemuria

 A cura del dott. Stefano Del Priore



Un altro aspetto dei morti si manifestava, nel mondo romano, attraverso la celebrazione dei Lemuria nei giorni 9, 11 e 13 di maggio1: secondo tradizione gli antenati, sottoforma di Lemures ovverosia di spiriti della notte, sorgevano dai rispettivi luoghi dell'eterno riposo e, ben più aggressivi che in febbraio durante i Parentalia, tornavano a visitare le dimore ove avevano trascorso la loro vita mortale. L'origine di tale cerimonia sarebbe da ricondurre all'ecista Romolo, il quale la istituì al fine di placare lo spirito inquieto ed errabondo del fratello Remo da lui stesso assassinato nell'atto di fondazione della città: Ovidio ci parla infatti di Lemuria Remuria. Tale "sortita" parentale dall'aldilà, come potete ben immaginare, non rappresentava certamente la più gradita delle riunioni familiari e dunque venivano messi in atto gestualità e cantilene ben precise allo scopo di allontanare dalla propria magione questi sgraditi, e sgradevoli, ospiti: generalmente sotto questa categoria rientravano, seppur la questione è nebulosa e non di facile interpretazione, i morti di morte violenta e per tale ragione nel mese di maggio era assolutamente sconsigliato celebrare matrimoni; le Vergini Vestali, seguendo anch'esse dettami appartenenti a concezioni magico – sacrali antichissime, preparavano la mola salsa utilizzando il primo grano della stagione2. Ancora Ovidio (Fasti, V, 429 – 444) ci fornisce una dettagliatissima descrizione di quanto era costumanza potesse accadere durante questi Dies Nefasti:


"Verso la metà della notte, quando il silenzio favorisce il sonno, quando i cani e gli uccelli diversi tacciono, l'uomo che non è immemore degli Antichi Riti e che teme gli Dei, si alza. Ha i piedi scalzi. Facendo schioccare le dita con il pollice segnala la sua presenza, perchè un'ombra leggera potrebbe sorgere dinnanzi a lui se egli camminnasse senza produrre rumore alcuno. Per tre volte egli si lava le mani nell'acqua di una fontana; si gira e mette in bocca delle fave nere che poi sputa dietro di sè esclamando: << Io getto queste fave! Con queste fave riscatto me stesso e i miei!3>> Ripete dunque questa formula per nove volte, senza voltarsi: si ritiene che l'ombra accetti l'offerta e, invisibile, lo segua. Nuovamente egli tocca l'acqua, fa risuonare un vaso in bronzo e prega l'ombra affinchè prenda commiato dalla dimora. Per nove volte dice ancora: <<Mani dei miei Padri, uscite!>>Solo allora si volta, certo di aver compiuto minuziosamente i riti dovuti."


Da questa descrizione percepiamo chiaramente che lo spettro doveva esser attirato dal Pater Familias tramite l'utilizzo della faba nigra fungente da esca della quale era ghiotto, scagliate all'indietro al di sopra della spalla, al fine di evitare che potesse trascinare con sè i vivi nelle lande della morte: la precisa ed esaustiva enunciazione delle regole seguite può farci ritenere come assolutamente genuina la testimonianza recataci da Ovidio, seppur le formule dovettere subire una sorta di qualche manipolazione tale da farle rientrare nelle rigida schematicità metrica dell'originario testo latino, dunque non possiamo affermare con assoluta certezza che nell'esortazione finale gli spiriti fossero appellati come Manes exite Paterni. Per quanto concerne la ratio celata nell'utilizzo delle fave, dobbiamo operare un collegamento esterno per comprenderne la ragione dato che il legume, in questo caso, funge da vero e proprio sostituto dell'anima umana: perchè? Per rispondere esaustivamente occorrerebbe un libro a parte, pertanto ci limiteremo in questa sede a spiegarne le linee principali: nelle discipline pitagoriche e nell'orfismo, movimento religioso sorto in Ellade nel IV secolo a.C. circa dal quale il cristianesimo attinse moltissimo in termini di dottrina e ideologia escatologica4, era fatto divieto assoluto di cibarsi di fabaceee5 quali le fave o altre leguminose poichè la forma del "fagiolo" rassomiglia moltissimo a quella di un feto rannicchiato, ergo mangiarne rappresentava un atto profondamente amorale in quanto tale frutto sorgente della terra e avente aspetto antropoformo era a tutti gli effetti un'ipostasi dell'uomo nel suo ciclo eterno di vita, morte e rinascita6: i pitagorici citavano testualmente una strofa attribuita direttamente al leggendario cantore Ὀρφεύς – Orfeo il quale scrisse che cibarsi di legumi equivarrebbe a mangiare la testa dei propri genitori; al musico, d'altronde, era attribuita la capacità di creare melodie non solo in grado di incantare animali e fiere ma persino la Ψυχαγωγία – Psychagogia (dal greco ψυχή, "anima" e αγωγία, "guida", ergo "Guida dell'Anima") in grado di evocare le anime dall'Ade e di placarne la rabbia. I morti, gli antenati e gli spiriti dei defunti, al pari degli appartenenti al mondo vegetativo, abitavano e risiedevano nelle regioni ctonie del mondo materiale, le lande subterranee sede della morte dalla quale sorgeva però la nuova vita che si rinnovava ogni anno, a patto di rispettarne i dettami e le prescrizioni.



Ὀρφεύς - Orfeo e i Traci in un kratēr attico vernice nera a figure rosse risalente al V secolo a.C, attribuito al cosiddetto "Pittore di Londra E 497", odiernamente custodito presso Metropolitan Museum of Art di New York – Ph credit Creative Commons Attribution 2.5 Generic









La formula recitata dal capofamiglia possedeva uno scopo ben preciso, ovverosia di riscattare se stesso e i suoi cari da eventuali colpe commesse ai danni degli antenati, come ad esempio la mancata osservanza del Mos Maiorum nel non averli onorati a sufficienza o non averli seppelliti seguendo alla lettera i riti dovuti. Possiamo dunque supporre che tale festività servisse in parte allo scopo di placare gli spiriti dei defunti tale da rabbonirne le turbolenze tramite l'utilizzo di offerte propiziatorie (le fave nere), in parte a evocarne la presenza al fine di servirsi della loro sapienza (e, in questo caso, intendiamo soprattutto officianti del sinistro culto della terrificante Dea Ἑκάτη - Hecate, Signora di Spettri e Fantasmi) in quanto depositari di conoscenze poste al di fuori della sfera umana. La prima festa veniva celebrata nel pieno della notte e in assoluto silenzio, con le porte dei templi che venivano sbarrate e l'accesso ne risultava interdetto; i luoghi di culto di Cerere, Proserpina ed Hecate venivano però decorati con ramoscelli di mirto e nastri colorati, mentre successivamente venivano organizzati riti pubblici e banchetti nella sfera privata, una sorta di contraltare per esorcizzare la paura derivante dalla morte e dal ritorno dei suoi araldi: sovente era possibile ammirare processioni di celebranti sorreggenti ceri e lungo le strade, sia cittadine che rurali, erano posti dei lumi. Ai lati delle porte delle abitazioni erano poste delle torce e, sembra, anche delle offerte in cibo (per lo più dolci) per i defunti che a breve avrebbero visitato i luoghi un tempo sede della loro esistenza. I Lemures caratterizzanti questi rituali apotropaici in maggio non devono esser identificati con le Larvae, le quali tornavano parimenti nel mondo dei vivi in momenti imprecisati dell'anno ma non con lo scopo di visitare bensì di tormentare i viventi come riscontrabile in Tito Maccio Plauto per bocca del medico dei Menechmi, ad esempiom, poichè esse riuscivano talvolta a possedere gli uomini, arrecando danni notevoli ai loro spiriti: il medico della sopracitata commedia afferma infatti "Quid esse illi morbi dixeras? Narra senex, num larvatust aut cerritus? Fac sciam num eum veternus aut aqua intercus tenet?", ponendo così la larvatio in concorrenza della diagnosi al pari della letargia e l'idropsia. Allo stesso modo il "posseduto da Cerere" (cerritus) e il "posseduto dalle Ninfe" (lymphatus) dovevano presentare analoghi sintomi e ciò sta a significare che non si può assolutamente tentare di circoscrivere la nozione romana di larvae, le quali sembrano abbracciare un insieme piuttosto vasto di incubi, spiriti maligni e spettri dalla sconosciuta natura non legati ai vivi da alcun legame parentale o affettivo. In conclusione all'analisi di questa celebrazione, come già avuto modo di analizzare nel capitolo dedicato alle Origini di Halloween, il giorno culminante dei Lemuralia venne forzatamente fatto coincidere con la commemorazione romana della Dedicatio Sanctae Mariae ad Martyres risalente al 13 maggio del 609 o del 610, anniversario della trasformazione del Pantheon, il Tempio dedicato a tutti gli Dei, in chiesa cristiana, ad opera di Bonifacio IV (Valeria, 550 circa – Roma, 8 maggio 615, 67° Pontefice della Chiesa Cattolica dal 25 agosto del 608 sino alla data della sua morte), per poi traslare tutto al 1° novembre nella Festa di Ognissanti, oggigiorno mondialmente nota con il termine anglofono di Halloween. Fra i Mani dei morti e i Genii dei vivi il rapporto non venne stabilito se non tardivamente dato che, nei tempi antichi, nulla ci lascia poter presupporre che i secondi si mutassero in Divi Parentum: la concezione del morto era paragonabile a quella di un essere ancora completo seppur svuotato della sua sostanza materiale, anonimo e mescolato assieme ad altri in un Mare Magnum di entità a lui simili. A Roma, sin dai primordi della storia capitolina, abbiamo potuto assistere a una certa mescolanza nell'uso dei riti funerari, tanto d'incinerazione quanto d'inumazione: solitamente, la prevalenza di una pratica sull'altra è denotante una determinata concezione della vita post mortem e ciò influenzava per l'appunto il modo in cui si disponeva delle spoglie dei defunti, così come un brusco e repetino mutamento dei costumi rituali funebri solitamente sta a indicare un mutamento nelle credenze o avvicendamenti di tipo etnico: ciò, però, per quanto sia in generale una linea di pensiero in buona parte verificabile, non è regola immutabile. Plinio (Naturalis Historia, VII, CLXXXVII) ci fornisce un'analisi estremamente lucida e pragmatica sulle molteplici cause che poterono intervenire circa l'espletamento delle pratiche rituali connesse agli usi e costumi funerari:


"Bruciare i corpi non è, a Roma, un'istituzione estremamente antica. In un primo tempo, i cadaveri venivano seppelliti. La costumanza d'incinerarli si affermò quando i Romani si accorsero, in occasione di guerre oramai appartenenti a epoche remote, che le tombe non rappresentavano sempre dei sacri asili. Molte famiglie, tuttavia, preferirono mantenere immutati gli antichi costumi. Il Dictator Silla fu il primo della Gens Cornelia a esser bruciato, avendone impartito egli stesso l'ordine poichè, avendo fatto disseppellire egli stesso le spoglie di Mario, temeva grandemente di poter incorrere nel medesimo fato."





Allegoria della vita umana, mosaico proveniente da Pompei, simbolismi forse ispirati dai precetti di Seneca, I secolo d.C., Mueseo Archeologico Nazionale di Napoli




Questo interessante episodio mostra chiaramente che dietro la decisione sillana non ci furono nè mutamenti di pensiero circa la concezione dell'aldilà, tantomeno cambiamenti di tipo etnico nella classe sociale dominante ma, molto semplicemente, la paura che il suo cadavere potesse esser dissacrato. Circa la figura di Orcus, fugacemente menzionato da Plauto e Cicerone, non possediamo nozioni più approfondite ma, tristemente, solo velati accenni: essere divino, presso il quale ci si deve recare dopo questa vita e che ha il potere di accettare o respingere i candidati al suo regno: non si può escludere che la sua figura abbia subito cambiamenti, evoluzioni e alterazioni nel corso dei secoli, dato che Plauto lo equipara a Plutone quale Infero Sovrano dell'Acheruns. Le nostre informazioni al suo riguardo terminano qui, essendo la figura di Orcus del tutto ignorata tanto nel Sacra Privata quanto nei Sacra Publica: unica aggiunta a quel (poco) che è stato riportato la dobbiamo a una nota di Festo, il quale scrisse "Quietalis ab antiquis dicebatur Orcus", il che non aiuta di certo a compenetrarne l'enigmatica natura.




Lares e Genius Loci, affresco proveniente da Pompei, insula VIII-2, lararium, quarto stile pompeiano, 69-79 d.c., Museo Archeologico Nazione di Napoli





Fonti bibliografiche:


- Ovidio, Fasti;

- Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, De Mortibus Persecutorum

- George Dumèzil, La Religione Romana Arcaica, BUR Biblioteca Universale Rizzoli;

- Pietro Tacchi Venturi, Storia delle Religioni, UTET, 1954;

- Tito Maccio Plauto, Menechmi;

- Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Universale Scientifica Boringhieri, 1976;

- Henri - Charles Puech “Storia delle Religioni”, Universale Laterza, 1978 ;

Il mondo classico

Il cristianesimo delle origini

- Sir George James Frazer, “Il Ramo d'Oro” - Studio sulla magia e sulla religione, Newton Compton 2006 ;

- Vittorio Macchioro, Orfismo e Paolinismo, Edizioni Bastogi, ristampa anastatica giugno 1982;


Note:


1 Secondo Ovidio (Fasti, V, 426 - 426) anche in questa festa era previsto recarsi presso le tombe degli antenati e porgere delle offerte.

2 Per comprendere appieno le motivazioni insite in queste gestualità dobbiamo rammentare che, in ere remotissime, alla prima mietitura delle messi corrispondeva spesso un sacrificio umano (per un esempio probante si consiglia lo studio del mito ellenico di Lino) la cui linfa vitale avrebbe "pagato" il tributo e "ricaricato" le energie della Dea Madre: nell'iconografia tradizionale, la Morte è rappresentata armata di falce, strumento agricolo legato alla raccolta delle messi, e il suo principale appellattivo è "L'Oscura Mietitrice": trattasi di fossili iconografici oramai privi dell'ancestrale valenza che abbero in un passato remotissimo, dove Umanità e Creato erano legati da regole e costumanze forse spietate, ai nostri occhi, ma sicuramente più sincere, autentiche e reali di quanto non siano nei giorni odierni.

3 "Et nigras accipit ante fabas aversusque iacit: sed dum iacit. Haec ego mitto, his – iniquit – redimo meque meosque fabis" (Ovidio, Fasti, V, 436 - 438)

4 La figura di Orfeo sembra esser collegata a quella di un pellegrino ellenico che perse la vita in terra di Tracia nel tentativo d'instaurarvi il culto apollineo e le sue caratteristiche intrinseche la pongono in un periodo antecedente a quello in cui i Maestri Orfici ne adottarono l'essenza al fine di renderla il fulcro di un movimento religioso mosso da una duplice necessità: da un lato il voler continuare a perpetrare il concetto della "divina possessione" propria delle ideologie religiose dionisiache, mentre dall'altra la volontà di "purificare" corpo e anima così come previsto nei Misteri Eleusini sacri a Demetra e Persefone. Questo sincretismo dette vita ai due dettami alla base della dottrina orfica, ovverosia la fede nelle Divinità e nell'immortalità dell'anima e la necessità, al fine di preservare l'integrità di quest'ultima, di condurre un'esistenza terrena dedita alla purezza e all'immacolatezza, concetti che fungeranno da cardine dell'ideologia religiosa cristiana molti secoli dopo.

5 Prima della scoperta del continente americano e l'introduzione del Phaseolus Vulgaris o fagiolo comune, in Europa era diffusa la coltivazione delle Fabacee o leguminose del genere Vigna alla quale appartengono numerose specie quali i fagioli azuki, il pisello di terra, il fagiolo indiano nero, fagiolo dell'occhio, fagiolo chicco di riso et similia.

6 Medesima ragione, seppur con sfumature differenti, del perchè in età preistorica le ossa degli animali cacciati non venivano spezzate, nonostante contenessero midollo ricco di preziosi nutrienti utili alla sopravvivenza di uomini la cui principale fonte di sostentamento era la cacciagione, in quanto era convinzione che seppellendole con cura da esse sarebbero sorti nuovi animali "reincarnazione" di quelli cacciati e macellati.