Benvenuti nel sito ufficiale dell'A.P.S. ArcheoTibur di Tivoli (RM).NUOVO ANNALES VOL. III ANNO IV DISPONIBILE

La Bona Dea e il suo Culto Misterico

A cura del dott. Stefano Del Priore.

Statuetta votiva della Bona Dea in marmo, metà, del III secolo d.C, con epigrafe dedicatoria alla base recitante "Ex visu iussu Bonae Deae / sacr(um) / Callistus Rufinae n(ostrae) actor”, traducibile con “Callistus, schiavo alle dipendenze di Rufina in veste di actor (ossia avvocato o tesoriere), ha dedicato questa statua alla Bona Dea, in seguito a una richiesta della dea stessa, che gli è comparsa in sogno”.



Statuetta votiva della Bona Dea in marmo, metà, del III secolo d.C, particolare dell'epigrafe dedicatoria alla base 


Il culto di questa ancestrale divinità, radicata anche nel territorio tiburtino, merita sicuramente un approfondimento particolare. Epigrafi attestanti la sua presenza sono state trovate ben al di fuori dell'urbano abitato, esattamente ai poli opposti l'un con l'altra: la prima nei pressi dell'attuale Marcellina, mentre quella qui in esame alle pendici di Monte Sant'Angelo in Arcese (I. Barbagallo, 1981), o nei dintorn San Gregorio secondo alcuni, recitante:


BONAE DEAE SANCTISSIMAE CAELESTIS. L.PAQVEDIUS FESTVS/ REDEMPTOR OPERVM CAESAR(IS)/ ET PVPLICORVM. AEDEM DIRITAM/ REFECIT. QUOD ADIVTORIO EIVS/ RIVUM AQVAE CLAVDIAE AUGVST(AE)/ SVB MONTE AEFLANO CONSVMMA/ VIT. IMP.(ERATORE) DOMIT(IANO) CAESAR(E) AVG(VSTO) GERM(ANICO)/ XIIII CO(N)S(VLE) V NON(AS) IVL(IAS)"


la quale tradotta risulta


Alla Santissima Bona Dea, Lucius Paquedius Festus, appaltatore dei Lavori Pubblici e Imperiali, ha ricostruito il Suo (di Lei) Santuario in rovina poichè con il suo aiuto egli ha potuto completare il condotto dell'acquedotto imperiale claudiano sotto il monte Eflano, durante il 14° consolato dell'Imperatore Domiziano Cesare Augusto Germanico, il 3 di luglio ([ante diem] quintus nonas iulias)” (anno 88 dell'era cristiana)."


A questo punto sono necessarie delle considerazioni: l'iscrizione riporta che Lucius Paquedius Festus restaurò il “santuario in rovina” della Dea fornendoci una chiara indicazione temporale, ovverosia il 3 luglio dell'88 d.C., attestando quindi che il complesso sacro era diruto già nel primo periodo imperiale e che, al tempo stesso, il luogo doveva comunque esser abbastanza noto da non necessitare ulteriori specificazioni circa la sua ubicazione. Con il Santuario della Bona Dea si identificano oggi le rovine presenti su Monte S. Angelo in Arcese, un tempo mons Aeflanus nei pressi dell'oppidum di Aefula, adibite già nel VI secolo d.C a monastero dedicato a San Pamphilo1, come costumanza voleva durante quel secolo di seguire la moda di santi e martiri d'origine orientale. La prima fase edilizia accertata con gli scavi risale alla prima metà II secolo a.C., con Opus Quadratum, la seconda al I secolo d.C., con Opus Reticolatum, ambedue di tufo nero mentre l'ultima fase è inquadrabile tra il II e il III secolo dell'era cristiana. Ancora al giorno d'oggi sono ben visibili gli imponenti blocchi di Opus Quadratum, dalle ragguardevoli dimensioni, che appartennero alla piattaforma terrazzata del tempio repubblicano e che vennero riutilizzati successivamente in età medievale. La struttura risulta essere quadrangolare, divisa in due settori ben evidenti, dalle dimensioni di 35 x 33 metri circa: il primo orientato a S / O, di pianta rettangolare misurante 33 x 16, senza suddivisioni, il secondo di 33 x 11 presentante vari ambienti. Le caratteristiche architettoniche del complesso si mostrano in linea con similari luoghi di culto dedicati alla Bona Dea (così come con le villae rusticae medio - repubblicane, seppur l'assenza di terreno coltivabile e di macchinari atti alla lavorazione dei prodotti agricoli lascia immediatamente ben intendere la destinazione d'uso), non templi stricto sensu ma luoghi polifunzionali con la possibilità di ospitare stabilmente il Collegium composte dalle Ministrae, preposte al culto della Divinità, e le Adeptae in occasione dei riti misterici; presenti e ben riconoscibili sono il portico di stile atrium corinthium però privo della cisterna per la raccolta delle acque meteoriche in prossimità dell'impluvium, la culina - cucina o un balneolum, connotabili grazie alla presenza di tubuli per il riscaldamento e ai frammenti di un imponente dolio, un τέμενος – Temenos, il recinto sacro invalicabile, un sacello e il cortile: semplice nella prima fase edilizia, con canaletta per lo scolo delle acque reflue e affacciantesi su di un terrazzamento, dotato di tetrastylon (quattro pilastri o colonne) nella seconda.




L'epigrafe marmorea attestante i lavori di restauro effettuati da Lucius Paquedius Festus nell'anno 88 dell'era cristiana presso il Santuario Tiburtino della Bona Dea su Monte Sant'Angelo in Arcese.





Dunque sin dall'alba dell'Impero il santuario era oramai relegato a un contesto totalmente avulso dal centro abitato, distante dalla vita pubblica e sacra dell'antica Tibur. In passato, però, deve esser stato un fulcro religioso di estrema importanza posto tra Tibur, Trebula Suffenas e Praeneste, dominante l'Ager Tiburtinus e Praenestinus dall'alto della sua posizione sopraelevata e strategica; un motivo di richiamo e aggregazione per le vicine popolazioni con la funzione di santuario confederale di antichissime tradizioni cultuali italiche. I nuclei protoabitativi dovettero esser stati arroccati sulla cima del monte e precisamente sul versante meridionale, al di sopra di una grotta, probabilmente molto antica. Qualche studioso, come Giovanni Colonna, ha affacciato l'ipotesi che questo villaggio d'altura, al pari di quelli dell'area etrusca, denotasse condizioni di insicurezza, che spinsero le comunità, in vista del pericolo, ad abbandonare momentaneamente le più agevoli sedi di pianura. Fu a causa di una qualche incursione da parte di un gruppo straniero, militarizzato e dalla connotazione fortemente gerarchica che ciò accadde? Nel nostro caso specifico, il monte S. Angelo in Arcese veniva a costituire una rocca di notevole valore strategico e difensivo, come in effetti sarà anche nei secoli successivi, e fin quasi ai nostri giorni.



Ruderi del Santuario della Bona Dea sul Monte Sant'Angelo in Arcese; in primo piano gli imponenti blocchi di Opus Quadratum in tufo nero, un tempo formanti la piattaforma terrazzata ove si ergeva il tempio di età repubblicana e successivamente oggetto di riutilizzo in età medievale con l'edificazione del monastero dedicato a San Pamphilo, nel VI secolo d.C






Con il culto della Bona Dea, un epiteto, o teonimo, poiché il nome della Dea era troppo sacro e non poteva essere nominato impunemente, si identifica ragionevolmente una variante italica del culto misterico di Δημήτηρ - Demetra e Περσεφόνη – Persefone / Κόρη - Kore, due aspetti della Grande Dea Madre della natura, della vegetazione, della fertilità della terra, degli animali, degli uomini e delle donne. Nella sua versione ancestrale essa venne percepita come sorella, figlia o moglie di Fauno, arcaico Dio della Pastorizia e dei Boschi, e perciò definita Fatua Fauno2, abile in tutte le faccende domestiche, riservata al punto tale da non uscire dalla propria camera e non vedere altro uomo che suo marito. Fauna3 è poco più di un nome che acquisisce consistenza solamente quando passò dalla leggenda al romanzo di matrice chiaramente ellenizzante. Si narra che un giorno, nonostante la pudicizia e la morigeratezza che la contraddistinguevano, bevve da una brocca di vino e si ubriacò, comportandosi oscenamente: Fauno, adirato, la picchiò a morte con una verga di mirto e ciò spiegherebbe dunque l'esclusione di tale arbusto dai suoi santuari; per i romani ella era fatta coincidere con altre divinità similari come Opi, Fauna e Cerere e a cagione di ciò venne inserita nel computo della genealogia arcaica del Latium Vetus pullulata di eroi, principi e figure divine sulla quale si baserà successiamente, in larga parte, il nucleo della propaganda imperiale romano in particolar modo relativa alla dinastia Giulio – Claudia, seppur alcuni autori vedono il lei la Giunone venerata nella città di Qart - ḥadašt – Cartagine4: Πλούταρχος – Plutarco di Cheronea (Cheronea, 48 / 46 d.C. - Delfi, 125/ 127 d.C.), nel suo Βίοι Παράλληλοι – Vite Parallele, Vita di Cesare, 9, 10, così ne scrisse:



"I Romani hanno una Dea che essi chiamano Bona Dea, che i Greci chiamano Dea delle Donne. I Frigi sostengono che questa Dea nacque presso di loro e che era la madre del loro Re Mida. I Romani invece dicono che fosse una Ninfa Driade che sposò Fauno, ed i greci affermano che era invece l'Innominabile Una tra le Madri di Dioniso. Per questo motivo le donne che celebrano i suoi riti, copreno le loro tende con tralci di vite e un serpente sacro siede accanto alla Dea sul trono, così come nel mito. E' illegale che un uomo si avvicini o sia in casa quando i riti vengono celebrati. Le donne, e solo tra loro, si dice eseguano i riti del rito orfico durante la cerimoni sacra."



In Roma il suo luogo di culto era sito alle pendici dell'Aventino5, nel rigoglioso verde dei boschi, il quale si narra fosse stato fondato dalla Vestale Claudia e successivamente restaturato da Livia Drusilla Claudia moglie di Ottaviano Augusto, ubicato lievemente più a settentrione dell'attuale chiesa di Santa Cecilia in Trastevere6 e a meridione dell'estremità orientale del Circo Massimo: nel tempio era presente un farmacia per la conservazione delle erbe medicinali e sacri serpenti vi si muovevano indisturbati; essa probabilmente non fu altro se non una Damia7 "importata" con elevata probabilità dalla da Τάρας – Taranto nel 272 a.C., quando la potente città – stato Magnogreca venne conquistata. Il climax sacrale a lei dedicato cadeva in due date, con i luoghi di culto decorati con tralci di vite, piante, fiori, musica e danze, differenziate per la vocazione intrinseca: il 1° di maggio presso la sua area cultuale nei folti recessi della selva aventina, di matrice plebea e ricadente tra i Sacra Publica finanziati dallo Stato, erano ammesse tutte le donne senza alcuna distinzione di classe a patto che essere fossero di rispettabile reputazione, dunque univirae8 sue pari, e non fossero cadute in disgrazia per disonore, contrazione di debiti o violazione di rigorose norme socio – religiose: una dedica, o una riconsacrazione, operata da una Vestale nel 126 a.C., dunque in periodo medio – repubblicano e forse ricalcante l'atto di fondazione originario del luogo di culto per mano della già menzionata Vestale Claudia, fu annullata dal Senato poichè ritenuto invalido, seppur le ragioni specifiche restano ignote; ovviamente l'accesso al tempio era interdetto agli uomini, al punto tale che essi non potevano neanche sostare sulla sua soglia. I primi giorni di dicembre9invece, solitamente tra il 3 e il 5, le Matrone, coadiuvate delle Matres Familias e dalle sacerdotesse Vestali, celebravano riti femminili, in favore di tutto il popolo romano, nelle case del Pretore o del Console e la presenza di uomini era severamente vietata, persino gli animali di sesso maschile ne erano esclusi10, e tutte le statue virili e i dipinti erano velati affinché non dissacrassero, con la loro presenza, l'officiazione del rito. Il rito era presieduto dalla moglie del magistrato presso la cui casa veniva officiato ed ella assumeva il nome di Damiatrix, sembra derivante da quello della stessa Dea. Il vino utilizzato era definito latte, poichè si ricorreva a un diversivo in quanto fu proprio l'assunzione del vino a causare la morte della Dea, e il contenitore nel quale veniva conservato mellarum, ovverosia "vaso di miele", mentre al termine della cerimonia il rito prevedeva il sacrificio di una scrofa gravida: questa celebrazione ricadeva comunque nei Sacra Publica in quanto auspicante la Salus Populo Romano pur non essendo pagata con fondi pubblici e la notte della sua officiazione non godeva di calendarizzazione rigorosa; era possibile accedervi solo su invito, anche piuttosto esclusivo, e la cerimonia veniva condotta accuratamente nella dimora della moglie del più anziano magistrato cum imperio vivente nell'Urbe. Questa tipologia di celebrazioni erano chiaramente connotate da matrice rituale misterica di stampo agricolo, così come agricola era la radice alla base dei ben più celebri Ἐλευσίνια Μυστήρια - Misteri Eleusini, e l'esclusione del mirto, arbusto legato alle punizioni e al mondo ctonio in generale, rammentava di certo antichissime costumanze agresti delle quali era arduo inquadrarne l'esatta valenza già in età repubblicana: l'iconografia associata più comunemente alla Bona Dea, i cui ritrovamenti provengono indistintamente da tutta Italia, dal sud della Penisola sino ad Aquileia, e sono perlopiù databili tra il I e il II secolo d.C., era quella di una Dea velata, assisa in trono con χιτών – chitone, mantello e diadema, sorreggente una Cornucopia nella mano sinistra e un serpente avvolto attorno all'avambraccio intento ad abbeverarsi in una Patera sorretta dalla mano destra, dunque tutti simbolismi benefici di fertilità, opulenza e rinnovamento dei cicli vitali alla base dei bioritmi del Creato. Il suo culto si diffuse parimenti in alcune zone dell'Impero, conoscendo una certa popolarità nella Gallia Narbonense, in Pannonia e nelle Province Africane. Durante il periodo imperiale vi sono prove tangibili, circa i resti dei suoi templi, di un certo qual coinvolgimento da parte delle alte sfere della famiglia imperiale e dei suoi membri con il culto della Dea, con dediche e offerte ad personam ma non solo, essendo ben rappresentate anche opere di devozione da parte di plebei, schiavi e liberti11: interessante notare, così come nel caso del Santuario Tiburtino, che circa 1 / 3 dei dedicanti erano di sesso maschile, contrariamente a quanto lascerebbe presupporre un culto misterico officiato esclusivamente da accolite. Dalle epigrafi giunte suo culto aveva le caratteristiche del Pro Populo, dunque operante a favore della salute e del benessere di tutta Roma, incentrato sulle guarigioni, sulla fertilità e sulla castità (o, quantomeno, quest'ultima prerogativa era vera pubblicamente, assai meno intra muros, come vedremo in seguito): non solo gli uomini ne erano esclusi ma era fatto divieto assoluto persino rivelarne il Vero Nome. Come anticipato precedentemente Ottaviano Augusto restaurò il suo tempio sull'Aventino, nell'ottica della già ben analizzata campagna politica imperiale volta all'appropriazione di ogni simbolismo, culto o genealogia riferibile al passato mitico e mitologico del Latium Vetus, stabilendone la festività primaverile il primo giorno del mese di maggio, cadendo la ricorrenza della restaurazione del tempio, e la virtuosa consorte di lui, Livia, venne sincreticamente identificata con la figura della Bona Dea, Matrona e "Madre" ideale di tutto il Popolo Romano: come si sviluppò successivamente il suo culto nelle varie famiglie imperiali è poco noto, se non che l'Imperatore Adriano restaurò a sua volta, o forse ricostruì ex novo, il tempio aventino e che ancora nel IV secolo sembra fosse perfettamente agibile. Secondo Macrobio e Properzio il mito vorrebbe che Ercole avesse istituito per vendetta presso il suo altare, poco distante e in propinquità del Circo Massimo, cerimonie dalle quali le donne erano interdette. I templi della Bona Dea erano santuari a tutti gli effetti, ossia complessi polifunzionali atti a ospitare permanentemente le Ministrae12 officianti il culto, il quale era strettamente e rigorosamente femminile, e le Adeptae, in concomitanza con i riti misterici caratterizzati da usanze licenziose, oscene, orgiastiche e notturne. Nel maggio del 1744 venne scoperto, tra la Piazza di Santa Cecilia e San Giovanni de' Genovesi, un pozzo consacrato alla Dea, denominato Pozzo dell'Insula Bolano, una delle 4405 insulae della Regio XIV: il deposito venne alla luce a seguito di perforazioni eseguite presso la pavimentazione del Conservatorio di San Pasquale Baylon. La scoperta venne così riportata:


"Era un pozzo molti palmi sotto terra coll'orificio sollevato di quattro palmi dal suolo, lavorato a mattoni detti a cortina e profondo diciassette palmi, otto de quali invasi sono dall'acqua, di diametro di palmi due e mezzo. In ambedue i lati e nella parte posteriore innalzavasi una fabbrica di mattoni quadrata, un tempietto simile a un tabernacolino cò muri d'un palmo di grossezza, divisa nel mezzo da un'iscrizione scolpita in travortino



BONA – DEAE

RESTITVT[ ] SIMVLACR[ ] INTVT[ ]

INSVLAE BOLANI POSVIT ITEM

AEDEM DEDIT CLADVS

LIBENS FAERITO




Onde formava due nicchie...nell'angolo sinistro inferiore eravi piantata un'ara di pietra peperino recante iscrizione



BONAE DEAE KESTUULAE

CLADVS D. D.








Il cortile del Santuario Tiburtino venuto alla luce durante l'ultima campagna di scavi nel 2011 – Foto d'archivio della SABAP – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali



L'animale a lei consacrato era il serpente, così come nei Ἐλευσίνια Μυστήρια - Misteri Eleusini lo era per Demetra e Persefone: personificazione della sapienza ancestrale, del rinnovamento della vita, del ciclo di vita, morte e rinascita e manifestazione associabile al fallo maschile. Si narra che nelle grotte sacre del Santuario di Iuno Sospita a Lanuvium dimorasse un enorme serpente sacro al quale una vergine fanciulla, una volta l'anno, dovesse offrire un pasto: se consumato, avrebbe attestato la purezza della ragazza, viceversa sarebbe stata l'infedele novizia a esser sacrificata per lavare l'onta del suo peccato. Tale serpente, lo Zamenis Longissimus comunemente conosciuto come "Saettone" è un serpente fondamentalmente innocuo per l'uomo, costrittore e dunque non velenoso, abitante delle campagne e di colore nero come la terra fertile, che può raggiungere la ragguardevole lunghezza di 2,25 m. Il santuario di Iuno Sospita di Lanuvium13, la "Giunone Salvatrice", presenta notevoli somiglianze nel culto con ciò che presupponiamo fosse la ritualità della Bona Dea in Tibur. Rimarchevole anche sottolineare come tanto Tibur quanto Lanuvium fossero parte della Lega Latina invisa a Roma e, nonostante la sconfitta, non subirono grossi ridimensionamenti di libertà e/o territoriali, forse perché già all'epoca erano presenti strutture atte alla venerazione della Bona Dea i cui cospicui introiti potrebbero aver convinto i romani a lasciare la città intatta e, formalmente, libera seppur dietro il pagamento di ingenti somme di beni. A riprova di ciò, si può analizzare la situazione sul Mons Aeflanus, il Monte Aefula (probabilmente la zona compresa tra Monte Ripoli e S. Giovanni in Arcese), nei cui pressi sarebbe sorto l'oppidum di Aefula, una dei centri abitati del Lazio scomparso sine vestigiis, senza lasciar traccia. Le ricognizioni del proff. Fulvio Cairoli Giuliani e Franco Sciarretta, negli anni passati, hanno portato in evidenza come sulle sommità dei Monti Ripoli e San Giovanni in Arcese siano tutt'oggi presenti ruderi associabili a linee di fortificazione molto antiche, databili al IV - V secolo a.C. e presenza di materiale fittile coevo per quanto concerne il monte Ripoli, risalente al protovillanoviano (Età del Bronzo Finale, 1175 e il 960 a.C.) per S. Giovanni in Arcese.




La pianta dell'edificio sacro sul Monte Sant'Angelo in Arcese rinvenuto
durante le ultime operazioni di scavo – Fonte SABAP, Ministero per i Beni e le Attività Culturali





Viene dunque naturale pensare che il culto della Bona Dea, considerate anche le sue caratteristiche arcaiche di cultualità matriarcale di tipo misterico, possa esser stato officiato sulle sommità dei monti che circondano Tibur, sin dai periodi protostorici, e successivamente monumentalizzato dai romani che vi eressero, o ampliarono, un santuario. Il culto della Bona Dea, con i suoi riti misterici e orgiastici, la sua stretta e rigida connotazione femminile legata alla fertilità del creato, la sua severa proibizione agli uomini, i suoi serpenti sacri, i sacrifici, le vergini e i suoi santuari posti in zone agricole / rurali al di fuori del centro abitato rimanda direttamente a epoche molte antiche, precedenti all'espansione romana, nelle quali le divinità femminili recitavano un ruolo sicuramente più importante rispetto a quello di "spose / concubine" ove spesso furono relegate prima nella religione classica greca e nella romana poi: un ruolo che, arcaicamente, le vedeva dominatrici dei cicli eterni di vita, morte e rinascita, patrone e latrici di fertilità, regine della natura, madri di prole divina e Sovrane del Creato.








Fonti Bibliografiche:


- Franco Sciarretta, Tiburis Artistica Edizioni;

"Tivoli in età classica

"Viaggio a Tivoli”;

- Cairoli Fulvio Giuliani, Forma Italiae - Tibur Pars Prima e Altera, De Luca, 1966 e 1970;

- Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia, I, 12, 22 - 27;

- Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, Divinae institutiones, I, 22;

- Sesto Aurelio Properzio, Elegiae, IV, 9;

- Appiano di Alessandria, Storia Romana;

- Marco Tullio Cicerone, De haruspicum responso, 37;

- Marco Terenzio Varrone, Antiquitates rerum humanarum et divinarum;

- Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, De Anima;

- Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIV, 9, 9 e XXXII, 29, 2;

- Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, XIV, 102, 4 e XIV, 106, 4;

- Plutarco, Βίοι Παράλληλοι – Vite Parallele, Vita di Cesare, 9, 10;

- Paolo Diacono, Excerpta ex libris Pompeii Festi de significatione verborum;

- George Dumézil,

"La Religione Romana Arcaica", BUR Biblioteca Universale Rizzoli

"Feste Romane", edizioni Il Melangolo, Genova, 1989:

- Zaccaria Mari, Il santuario rurale della Bona Dea a San Gregorio da Sassola (Rm), in Sacra Nominis Latini (Atti del Convegno, Roma, 19 – 21. 02. 2009);

-Johann Jacob Bachofen, ll matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., a cura di Giulio Schiavoni, Giulio Einaudi editore, Torino 1988;

-Gerardus van der Leeuw, Fenomenologia della Religione, edizioni Boringhieri, Torino, 2002;


Note:

1 ΠάμφιλοςPamphilo di Cesarea (Berytus, III secolo – Cesarea Marittima, 16 febbraio del 309 d.C.), studioso cristiano della bibbia, martire e santo venerato sia dalla chiesa cristiana che ortodossa. Formatosi sotto il filosofo Origene presso Alessandria d'Egitto, fu amico del vescovo, scrittore e biografo di Costantino I, Eusebio di Cesarea (Cesarea Marittima, 265 – ivi, 340) che narrò i dettagli della carriera di Pamphilo nell'opera in tre volumi "Vita di Pamphilo", oggi perduta. Il santo in questione perse la vita, assieme ad altri 12 compagni di fede, per decapitazione durante il principato dell'Imperatore Galerio (305 – 311).

2L'aggettivo Fatua troverebbe la sua derivazione etimologica nel verbo fari, da intendersi come "dire, rivelare, parlare", inquadrabile nella sfera mantica, rivelatrice e profetica che la Bona Dea ebbe nei riguardi della donne, così come il suo paredro Fauno lo era per gli uomini.

3 Ambrogio Teodosio Macrobio scrisse chiaramente nei suoi Saturnalia che questa Dea “ nei libri dei pontefici è indicata come Bona, Fauna, Opi, e Fatua: Bona perché è l’origine di ogni cosa buona per il nostro sostentamento, Fauna perché soddisfa (favet) i bisogni di tutti gli esseri animati, Opi perché la vita è opera sua, Fatua da fari (parlare, vaticinare)”. La Bona Dea venne inizialmente identificata dai Romani con Maia, la Terra, da cui prese il nome il mese di maggio.


4L'analisi di questo fenomeno sincretico sarà oggetto di disamina nell'articolo "Giunone, Regina di Dei, Madre e Guerriera", dallo stesso autore.


5 Questo tempio della Bona Dea era chiamato Subsaxana poiché ubicato al di sotto di un “saxum”, una roccia del colle Aventino.

6Del tempio non restano tracce archeologiche ma l'origine pavimentazione della chiesa in questione, un raffinato cosmatesco, lascia presupporre che l'Opus Sectile utilizzato per il piano di camminamento del luogo di culto cristiano fosse stato precedentemente prevelato da un più antico luogo sacro pagano: l'edificio posto al di sotto di Santa Cecilia, al momento dello scavo, si presentava come del tutto privo di qualunque pavimentazione o marmi, indizio piuttosto palese di come essi fossero stati sottratti in un momento imprecisato del passato ma, abbastanza verosimilmente, inquadrabile con la data di edificazione della chiesa o comunque poco dopo.

7Nella mitologia ellenica, così s'identificava una Divinità femminile legata alla fertilità: largamene venerata su tutto il territorio Greco, in Argolide, Egina, Sparta, Tera ed Ἐπίδαυρος - Epidauro assieme alla Dea della Fertilità Auxesia (la cui derivazione etimologica è da ricercarsi nel verbe greco auxo, ovverosia "crescere") ove erano protagoniste della festività denominata Lithobolia, il "Lancio delle Pietre", e Magnogreco, per quanto concerne quest'ultimo in particolar modo a Τάρας – Taranto.

8Aventi avuto un solo marito.

9Nelle loro celebrazioni invernali erano detti Damia o Hiemalis, al fine di distinguerli da quelli primaverili.

10 Quando Publio Clodio Pulcro si travestì da donna per partecipare alla celebrazione del rito della Bona Dea in casa di Gaio Giulio Cesare e venne scoperto, nel 62 a.C, seguì un gravissima crisi politica interna a causa di tale, insano, gesto. La notte tra il e il 5 4 dicembre si stavano svolgendo i riti misterici della Dea nella dimora di Gaio Giulio Cesare, allora ricoprente la carica di Praetor e Pontifex Maximus: Clodio Pulcro, eletto questore per l'anno successivo, amante Pompea Silla moglie di Cesare, curioso di assistere alla cerimonia si travestì da flautista e così si presentò ad Abra, un'ancella a conoscenza della fedifraga relazione, la quale subito si mosse per avvisare la padrona della presenza di Clodio; annoiato dall'attesa si mise a vagare per la casa, evitando luoghi illuminati ma nel mentre venne notato da un'altra schiava, che inizialmente lo scambiò per per una donna e lo invitò a giocare. Alle di lui reticenze, e uditane la voce quando costui rispose che stava aspettando Abra, ancella favorita di Pompea, immediatamente gridò l'allarme: tutte le donne di casa accorsero, tra le quali Aurelia Cotta, madre di Cesare e coordinatrice dei preparativi, che ordinò d'interrompere i riti e velare i sacri arredi chiudendo tutte le porte; afferrata una torcia, si mise in cerca di Clodio che trovò nella stanza dell'ancella che lo aveva introdotto e furiosamente cacciò via lo sciagurato. Le donne, tornate a casa, riferirono ai propri mariti di quale empio scandalo fossero state testimoni: il giorno seguente la notizia era già dilagata a macchia d'olio ed era sulla bocca di chiunque; Clodio aveva commesso un gesto abominevole e doveva redendere soddisfazione alla città e agli Dei. Un Tribuno della Plebe presentò contro di lui un'accusa di empietà, mentre Senatori e altri personaggi influenti lo accusarono di ulteriori abomini quali l'incestro con la propria sorella, moglie di Lucullo. Cicerone così scrisse, in una missiva (I, XII, III) indirizzata al suo amico Tito Pomponio Attico:


"Publio Clodio, figlio di Appio, è stato colto in casa di Gaio Cesare mentre si compiva il sacrificio per il popolo, in abito da donna, ed è riuscito a fuggire via solo per l'aiuto di una servetta; grave scandalo, sono sicuro che anche te ne sarai indignato".


Le ragioni di un così sconsiderato gesto sono sconosciute e non regge l'ipotesi che fossero solo mosse dalla passione amorosa verso Pompea; forse, in definitiva, si trattò di una sfida nei riguardi proprio di Cicerone, il quale l'anno precedente, essendo Console, aveva ricevuto un auspicio favorevole dalla Bona Dea. Inizialmente la vicenda non ebbe granché rilevanza al di là dei pettegolezzi cittadini fino a quando Quinto Cornificio, Tribuno della Plebe e uomo di Cesare, il 1° gennaio del 61 denunciò quanto accaduto dinnanzi al Senato, tale da rendere obbligatorio un processo contro Clodio e celebrare nuovamente i Damia, sotto pressante richiesta delle Sacerdotesse Vestali e dei Pontefici, poichè ritenuti dissacrati. Essendo accusato prevalentemente dagli aristocratici, Clodio godeva del supporto del popolo e i giudici ne furono profondamente basiti, non sapendo come muoversi e temendo reazioni sconsiderate da parte della plebe. Clodio fu accusato d'incestus con la propria sorella, moglie di Lucullo, ma si riuscì in qualche modo a procrastinare il processo sino alla metà di aprile: fu costretto ad allontanare dall'Italia gran parte dei suoi schiavi affinchè non li interrogassero sotto tortura ma a nulla valse, poichè la sua colpevolezza, aggravata dalla sua condotta notoriamente scellerata, fu confermata soprattutto dalle schiaccianti testimonianze della madre e della sorella di Cesare; quest'ultimo invece ripudiò la propria moglie ma non testimoniò contro Clodio, sostenendo di non essere neanche a conoscenza delle accuse mosse nei riguardi di quest'ultimo. Quando l'accusa gli domandò come mai, dunque, avesse deciso di allontanare la propria moglie, Cesare rispose: "Perchè pensavo giusto che di mia moglie neppure si sospettasse": c'è chi sostenne che pronunciò tali parole perchè riflettessero effettivamente il suo pensiero, mentre altri credettero che fossero un arguta mossa per compiacere il popolo che si era schierato al fianco di Clodio.

La difesa provò debolmente a sostenere di come l'accusato fosse, al tempo del crimine, lontano da Roma ma inaspettatamente Cicerone, il quale aveva comunque avuto buoni rapporti con l'incriminato, testimoniò d'averlo incontrato per l'Urbe poco prima della sacrilega infrazione in casa di Cesare: la ragione del suo gesto si trova in un altro passaggio della lettera ad Attico (I, XVI, V): "Constatato quanti pezzenti erano tra i giudici, ammainai le vele e nella mia testimonianza mi limitai a deporre quello che, essendo di dominio pubblico, non si poteva passare sotto silenzio." Quest'ultimo riuscì in qualche modo a cavarsela, grazie alle ingenti somme di denaro elargite dal ricchissimo Triumviro Marco Licinio Crasso (Roma, 115 o 114 – Carre, 53 a.C.) con le quali venne corrotta praticamente tutta la giuria, la quale emanò un verdetto ambiguo per non urtare la sensibilità di popolo e aristocratici, seppur la pena prevista per chi violasse i riti della Bona Dea fosse quella capitale: Clodio venne assolto e ottenne addirittura la Questura in Sicilia. La menzione della pena capitale per chi si fosse macchiato del sacrilego atto di violare le cerimonie misteriche della Bona Dea conferma le teorie di Johann Jakob Bachofen nel suo libro "Il Matriarcato", circa la persistenza in Roma di echi appartenenti ad antichissimi culti e costumanze matriarcali: ciò non deve destare stupore, dato che la matrice di tutti i Sacri Misteri, ai quali quelli della Bona Dea appartenevano pienamente, era squisitamente matriarcale.

11 Come superbamente testimoniato nella dedica presente sulla base della statuina marmorea osservabile a inizio capitolo.

12 Chiamate anche Antistes

13L'argomento sarà oggetto di analisi approfondita nell'articolo "Giunone, Regina di Dei, Madre e Guerriera", dallo stesso autore.






















Fonti Bibliografiche:


- Franco Sciarretta, Tiburis Artistica Edizioni;

"Tivoli in età classica

"Viaggio a Tivoli”;

- Cairoli Fulvio Giuliani, Forma Italiae - Tibur Pars Prima e Altera, De Luca, 1966 e 1970;

- Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia, I, 12, 22 - 27;

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- Marco Terenzio Varrone, Antiquitates rerum humanarum et divinarum;

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- Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, XIV, 102, 4 e XIV, 106, 4;

- Plutarco, Βίοι Παράλληλοι – Vite Parallele, Vita di Cesare, 9, 10;

- Paolo Diacono, Excerpta ex libris Pompeii Festi de significatione verborum;

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-Johann Jacob Bachofen, ll matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., a cura di Giulio Schiavoni, Giulio Einaudi editore, Torino 1988;

-Gerardus van der Leeuw, Fenomenologia della Religione, edizioni Boringhieri, Torino, 2002;





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