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Gli avori Orientalizzanti di Tibur

 


A cura del dott. Stefano Del Priore



TIBVR NELL'ETA' ORIENTALIZZANTE



Durante la cosiddetta "Età Orientalizzante" o "Dei Sette Re" (753–509 a.C.), connotante la fase monarchica di Roma, Tibur è sicuramente già assurta a centro strategico, commerciale, sociale e culturale di grande importanza. Politicamente, come abbiamo avutto modo di vedere in precedenti scritti1, essa fu alleata nella Lega Latina con altre influenti realtà laziali opposte alla crescente potenza di Roma, la quale aveva sostituito e soppiantato l'egemonia della sua città–madre, ovverosia Alba Longa. Trascorrendo i secoli, il centro di potere proprio dei Colli Albani scese gradualmente verso la pianura, ove l'autorità capitolina andava mano a mano crescendo, in prima battuta grazie a una coalizione sinecistica di stampo latino-sabina e, successivamente, grazie alla profonda opera di influenza socio–culturale, di matrice etrusca, dal VI secolo in poi con Tarquinio Prisco (in latino, Lucius Tarquinius Priscus, 4 agosto ...–579 a.C.), Quinto dei Sette Re di Roma, a cui seguirono il Magister Populi Etrusco Macstarna (Servio Tullio) e Tarquinio il Superbo. La summenzionata Lega Latina, sempre più vestigia del passato, era organizzata in circa 30 Città–Stato, le quali erano solite svolgere riti di stampo religioso sul Mons Albanus in onore del Dio Confederale Iuppiter Latiaris; durante l'epoca dei monarchi etruschi assurse a gran popolarità il santuario confederale di Diana Nemorensis2 nel celebre bosco, il Nemus Aricinum: qui contiuarono a riunirsi le città della Lega Latina ostili verso Roma, enumerate nell'elenco dei popoli che vi prendevano parte3.




GLI AVORI TIBURTINI


Realizzati su palese ispirazione dell'arte assira, tra le testimonianze artistiche dell'Età Orientalizzante risaltano per bellezza e pregio i cosidetti "Avori Tiburtini", citati in tutti i più eminenti manuali di archeologia ma paradossalmente quasi del tutto ignoti al grande pubblico: la causa di ciò è dovuta sia alla poco importanza riservatagli, perlomeno fino a poco più di un decennio orsono, sia perchè il materiale fotografico a nostra disposizione era piuttosto scarso e di bassa qualità, almeno sino al 1975 quando venne acquisite fotografie leggibili, oggetto poi di pubblicazione da parte del prof. Camillo Pierattin in "Atti e Memorie della Società Tiburtina" n. 48. Questi avori vennero acquisiti dal britannico Ashmolean Museum, ad Oxford, provenienti da una ricca tomba, appartenuta molto probabilmente a un personaggio di elevato status sociale e di profonda influenza, rinvenuta nei pressi della località dell'Acquoria, alle pendici di Tivoli4. Di oggetti di vasellami e metallici, sicuramente presenti ma verosimilmente andati perduti o egualmente trafugati, non abbiamo notizie. Il lotto superstite comprende:

  • un bracciale di avorio massiccio superbamente decorato con figure leonine alate e motivi vegetali, avente diametro esterno di 12 cm e interno di 7,5;

  • un rilievo in avorio frammentato raffigurante una coppia di cavalli affrontati di petto e sormontati da due cavalieri: del cavaliere di destra rimane solo la parte dal fianco in giù, di quello di sinistra la testa volta all'indietro e una porzione di busto o braccio destro. E' probabile che si tratti, così come il frammento della coppia di leoni poco sotto, dell'ornato di una capsella o di una maniglia, o del fregio di una corona o di simile gioiello per la testa. Le dimensioni sono lunghezza 6,5 cm, altezza 4,5 e spessore 1,5 cm;

  • un secondo frammento, di forma quadrata, in cui un leone sbrana un uomo: la testa della belva è potentemente schematizzata, avente la criniera stilizzata mediante l'uso di triangoli, orecchie della medesima forma geometrica ed erette, con occhi romboidali, mentre verso destra si sviluppa il corpo dell'animale. L'uomo, immobilizzato nella stretta mortale delle fauci, ha lunghi capelli e il corpo di dimensioni irregolari. La placca misura 5 cm;

  • un terzo frammento con due leoni rampanti (lunghezza 9,5, altezza 6,2, spessore 2 cm) dalle fauci spalancate e con la schiena in contatto (i colli uniti da una sorta di ponticello, utilizzato probabilmente per il fissaggio assieme agli occhielli di filo bronzeo, incastonati nelle cervici) uno dei quali tiene saldamente un uomo stretto tra le zampe anteriori (nell'altro, tale elemento risulta mancante poichè danneggiato;

  • per finire, una fibula (una tipologia di spilla) in osso e bronzo, avente l'ago lungo poco meno di 10 cm (9, per l'esattezza). Trattasi della tipologia definita "a barchetta", avente staffa unita mediante quattro pezzetti di osso. La coppia di lamine di bronzo, quadrate e bombate, unite a forma di cuscino (cinque tondi per parte, risultanti incavati), forse contennero dischetti di ambra: la fibula presenta forti affinità con analoghi prodotti provenienti dall'Etruria Meridionale.





I reperti, sfortunatamente sottratti alla nostra città e all'Italia, sono connotati da grande raffinatezza figurativa dei rilievi, realizzati in un periodo arcaico (VII secolo a.C.) in cui le estrinsecazioni artistiche locali soggiacevano ancora a un livello piuttosto basilare, limitato per lo più a decorazioni incise o direttamente graffite sui vasi. L'artista che scolpì questi avori, dotato di profonda maestria e sensibilità nel dar vita a figure di uomini, vegetali e animali, probabilmente fu un orientale, proveniente dunque da quelle terre dove, già da molti secoli l'arte si era affermata ed era assurta ad attività autonoma e non legata esclusivamente a manifestazioni di tipo sacro e/o religioso; è altresì possibile che questi superbi gioielli furono oggetto di importazione, ovverosia il frutto di scambi commerciali che videro la nostra città come un crocevia di tratte tra Occidente e Oriente: come precedentemente accennato, furono sicuramente acquistati da qualcuno estremamente importante e potente. Dai suddetti "avori tiburtini" si rileva un netto richiamo all'arte assira e agli oggetti provenienti dalle tombe della vicina Palestrina, anch'esse inquadrabili nell'Età Orientalizzante di cui sopra.







Figura 1 – Gli Avori Orientalizzanti di Tibur – Ashmolean Museum, Oxford, Regno Unito.





FONTI BIBLIOGRAFICHE:


- "Le Relazioni di Tibur con il mondo etrusco", Camillo Pierattin, in "Atti e Memorie della Società Tiburtina" n. 48, pgg. 5-70, Tivoli 1975;

- "Storia di Tivoli", Franco Sciarretta, pgg. 26-28; Tiburis Artistica Edizioni, Tivoli 2003;

- "Antike Schnitzereien aus Elfenbein und Knochen in photographischer. Nachbildung.", H. Graeven, Hannover, 1903, pgg. 117-122:

- "The Iron Age Culture of Latium", P. G. Gierow, in "Acta Instituti Romani Regni Sueciae", volume XXIV, I (1966), pag 445;

- "Preistoria e Protostoria di Roma e del Lazio", G. Colonna, in "Popoli e Civiltà dell'Italia Antica", volume 2°, Roma, 1974;


NOTE: 


1"Tibvr, Empvlvm e Roma", dal medesimo autore, in "Annales" di ArcheoTibur volume II, QuickEbook Edizioni, Tivoli 2021, pgg. 115–130.

2Per un esaustivo approfondimento, dal medesimo autore, è possibile consultare "Le Origini del Ferragosto", pgg. 157-176, in "ORIGINES"; Stefano Del Priore – ArcheoTibur, QuickEbook Edizioni, Tivoli 2020.

3Marco Porcio Catone (Marcus Porcio Cato, Tusculum 234 – Roma, 179 a.C.), tramite Prisciano di Cesarea (Floruit 512-527) in "Instituitiones Grammaticae", rialente alla fine del V secolo: "Lucum Dianium Egerium Baebius Tusculanus dedicavit dictator Latinus. Hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanuvinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis Rutulus" ("Il Dittatore Latino Egerio Bebio di Tuscolo dedicò il bosco di Diana. Questi i popoli in comune: di Tuscolo, Aricia, Lanuvio, Laurento, Cori, Tivoli, Pomezia, Ardea dei Rutuli.").

4Il Graeven (opera in bibliografia) ebbe a scrivere: "Fund aus einen bei Tivoli unterhalb der Cascatelle gelegenen Grabe", senza però specificare di quali cascatelle si trattasse, se delle cosiddette di Mecenate (in località Acquoria), oppure di Vesta o quelle Gregoriane, Il terreno compreso in questa area si estende per circa 20 ettari, è delimitato dal corso dell'Aniene e dall'abitato cittadino, connotato da dirupi scoscesi e accidentati e, dunque, le ricerche sarebbero sicuramente ardue, seppur con le tecnologie odierne sarebbe certamente possibile individuare elementi di profondo interesse. Considerando che nel 1899 erano in corso lavori per le installazioni dell'Officina Elettrica dell'Acquoria, possiamo ragionevolmente dedurre che la scoperta avvenne proprio in quelle circumvicinanze: l'area, d'altronde, sia nei decenni predenti che successivi è sempre stata profondamente munifica in fatto di ritrovamenti di pregio.