Benvenuti nel sito ufficiale dell'A.P.S. ArcheoTibur di Tivoli (RM).NUOVO ANNALES VOL. III ANNO IV DISPONIBILE

Gli Argei

 A cura del dott. Stefano Del Priore


Come già accennato nel saggio precedentemente pubblicato1, di estrema importanza e ambigua intepretazione furono le ritualità collegate alla festività degli Argei (14 - 16 - 17 marzo e 14 maggio), figure mitiche profondamente connesse alle memorie più arcaiche di Roma e rappresentanti i prìncipi dell'Argolide che seguirono Ercole quando questi viaggiò e sbarcò in Italia; successivamente essi si stabilirono nel villaggio fondato dal Dio Saturno sul Campidoglio, strappandone il possesso alle genti Sicule e Liguri ivi stanziate, mentre il figlio di Zeus errò ramingo compiendo eroiche gesta tra le quali l'uccisione del terribile gigante Caco: in tal senso, possiamo dunque considerarela successiva missione capitanata da Evandro figlio del Dio Hermes e della Ninfa Carmenta, e altri principi Argolidi tra i quali il nostro Catillo Maiore figlio di Anfiarao, un ripercorrere la rotta e le gesta compiute dal Semidio tempo prima, Tradizionalmente l'istituzione di tale festività viene fatta risalire al principio del IV secolo l'era cristiana o forse nella precedente età monarchica, il che ci fornisce immediatamente l'antichità dei riti qui presi in esame. Una processione, della quale non possediamo alcun dettaglio, stazionava per le cappelle dislocate lungo le quattro regioni della Roma Quadrata dette “di Servio Tullio” (Platner, TD, pgg. 51 – 53) e variamente chiamate dai vari autori come sacella Argeorum, Loca Argea, Argei o Argea. Possiamo facilmente intuire che tale nome, come sopra menzionato, derivi dagli antichi antichi Argivi ellenici, inconsapevoli e passivi protagonisti di un rituale lustrale tanto oscuro quanto macabro dato che, in data 14 maggio e ricadente il giorno successivo al climax dei Lemuria 2, essi erano rappresentati in forma di 27 fantocci antropoformi di giunco denominati Simulacra Scirpea o Stramineos Quintes aventi mani e piedi saldamente legati, portati in solenne processione dai magistrati, dal pretore, dai pontefici e dai cittadini per poi essere gettati, dal ponte Sublicio 3, nelle sottostanti acque del sacro Tevere per mano delle Sacerdotesse Vestali: la Flaminica Dialis4, consorte del Flamen Dialis, aveva anch'essa il compito di assistere a questa purificazione di carattere idrico vestita in abiti di lutto. I 27 Sacrari degli Argei, menzionati da Varrone seppur in modo frammentario e incompleto, corrisponderebbero a un'atavica suddivisione del territorio cittadino all'interno dell'inviolabile Pomerium, ben più antica della Quadruplice Regione Serviana risalente al VI secolo, legata fortemente al Septimontium e alle Curie5.

Ovidio, nei “Fasti”, viene in nostro provvidenziale soccorso riportando diverse e molteplici interpretazioni di tale rito, risalenti alla sua epoca: nella prima si sostiene che Iuppiter Fatidicus6, al tempo in cui quelle terre erano conosciute come Saturnia, avrebbe ordinato di consacrare a lui tanti uomini anziani, vecchi quanto antiche erano le loro Gentes, il che apre spazio a una duplice riflessione: in primis, che antecedentemente all'arrivo di Herakles / Ercole nel Lazio gli Argei erano certamente intesi come sacrifici umani e che se, in secundis, tali simulacri di giunco rappresentarono successivamente i Principi Argolidi sostituendo delle immolazioni umane, allora la memoria di uno sbarco di genti protogreche presso le nostre coste risulta essere ben più antica dell'istituzione del rituale eracleo, il quale non fece altro che mitigarne uno assai più ancestrale ed efferato, seppur regna incertezza circa chi per primo, tra Ercole ed Evandro, giunse nel Lazio. La seconda ipotesi che Ovidio riporta viene snocciolata attraverso le parole del Dio Tevere, la quale spiega che l'usanza avrebbe avuto il compito di rammentare la pratica della “Sepoltura in Acqua” da intendersi come la volontà degli eroi Argivi, i quali decisero di abitare terre straniere, di tornare tramite le acque del fiume alla patria natale, una volta morti, sita al di là del mare dal quale erano giunti anni prima: questa interpretazione si pone in forte connessione con analoghe pratiche funebri riscontrabili in moltissimi popoli indoeuropei, ove il concetto di morte era assimilabile a un viaggio che avrebbe recato l'anima del defunto in lontane Terre Immortali al di là del Mare (per un agile confronto, basti pensare al Giardino delle Esperidi nella mitologia greca, o alle mitiche Tír na nÓg o Avalon appartenenti all'immaginario celtico). In tal senso, i 27 anziani rappresenterebbero l'incarnazione del mondo vegetale, oramai esausto e privo di energie disperse durante l'anno trascorso, che vedeva rinnovata la sua carica latrice di fertilità attraverso un'abluzione sacrale nelle acque del fiume; l'etimologia sarebbe proveniente dalla radice indoeuropea “Arg” traducibile con “bianco” e il rito sarebbe ricordato anche come “Sexagenarios de Ponte Deicere”: tale inquadramento della ritualità è forse più vicino alle estrinsecazioni tipiche dei culti delle Grandi Dee Madri come Cibele, Demetra / Cerere, la Bona Dea e Tellus Mater, divinità alle quali solitamente Heracle / Ercole veniva soventemente contrapposto. Trattasi dunque della mitizzazione di un eco relativo a un'antichissima conquista e sovvertimento dell'ordine socio – politico – religioso di quelle terre? Il significato di queste estrinsecazioni, dal carattere profondamente arcaico, non apparì agli antichi autori che ne descrissero le peculiarità più chiaro di quanto non lo sia per noi nei giorni odierni, seppur analizzandone attentamente i dettagli possiamo certamente supporre una funzione di mondamento attraverso l'utilizzo di pupazzi, probabile mitigazione di ben più arcaici e primevi sacrifici umani, immaginando che ciascuno di loro rappresentasse uno dei quartieri nei quali era suddivisa la città di Roma: di notevole interesse è il constatare che a tale processione partecipavano tutte le più alte cariche delle stato, tanto laiche quanto religiose, ergo ciò ci fornisce immediatamente la dimensione dell'importanza che questa festività rivestiva, tanto per il periodo entro il quale cadeva (poco dopo il principio dell'anno romano arcaico e in prossimità delle celebrazioni dedicate al placamento dei Lemuri, come analizzato nel precedente capitolo). Certamente documentati furono casi di sacrifici umani nell'Urbe, così come in molte altre cività del Mondo Antico, e nello specifico tali vittime erano solitamente due coppie, composte etereogeneamente da un uomo e una donna, uccisi tramite sepoltura da vivi presso l'ancestrale Forum Boarium: a tal riguardo, ci viene in soccorso la stroriografia attraverso le parole di Plutarco: nell'anno 228 a.C., Insubri e altre popolazioni di stirpe gallica rappresentavano una minaccia consistente per l'Italia così che, per la prima volta nella storia di Roma, si ricorse a un rituale tanto efferato quanto crudele: seguendo i dettami contenuti nei Libri Sibillini, i figli di Romolo misero a morte due coppie di uomini e donne sia di stirpe gallica che greca “ai quali i romani, ancora oggi, compiono sacrifici segreti che a nessun occhio è concesso di vedere”. Il passo è stato oggetto per molto tempo di molteplici tentativi d'interpretazione, alcuni validi altri più fragili, ma nessuna risposta è da giudicarsi come soddisfacente: il perchè del sacrificio di prigionieri galli è agilmente comprensibile ma perchè, ci si domanda, anche una coppia di greci? Si può ipotizzare, in base a quanto analizzato sopra, che Plutarco fosse in errore credendo che tale rito venisse messo in pratica per la prima volta in assoluto quando, piuttosto, si trattò invece di un rispolverare l'eco di un'antichissima usanza risalente a epoche immemori, caduta da lungo tempo in disuso, nella quale gli “Argivi” fungevano da vittime prestabilite?



Ara
 Pacis, fregio lato Ovest 2A. L'Imperatore Augusto è visibile all'estrema sinistra, seppur mancante della maggior parte del corpo, il capo è velato e indossande una corona d'alloro: il sovrano è seguito da quattro Flamines, identificabili dai tipici copricapo indossati, e dopo di loro un Lictor brandente la classica ascia sacrificale. Alla destra di Augusto il suo fidato luogotenente Marco Vipsanio Agrippa. Roma, ultimo decennio del I secolo a.C. Ph credit Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic






Alcune ipotesi vedono nei Captivi greci altro se non i discendenti degli Achei, mortali nemici dei Troiani dai quali i Romani vantavano di discendere e ciò spiegherebbe il perchè della loro immolazione, nonostante fossero in epoche storiche oramai alleati dei capitolini. Tito Livio rafforza tale pensiero narrando che medesimo sacrificio venne ripetuto a seguito della rovinosa e sanguinosa disfatta di Canne, nel 216, sofferta per mano del grandioso generale punico Annibale Barca (חניבעל – Hanniba'al, Cartagine, 247 a.C. - Lybissa, 183 a.C.), Ex Fatalibus Liber, con immolazioni di prescelti dalle stesse popolazioni: anche in questo, la questione risulta piuttosto oscura, dato che i Magnogreci erano ancora fedeli alleati e, al loro posto assieme ai galli, ci si sarebbe aspettato di veder sacrificati piuttosto iberici e africani, a rigor di logica. La ragione del ripetersi di questo disumano rituale fu la necesità inderogabile d'espiare uno dei crimini più orribili che potessero esistere nella società romana, ovverosia l'impudicizia delle Sacerdotesse Vestali, le quali furono condannate al supplizio capitale7: i romani attribuirono la terribile disfatta proprio a causa di questa esacrabile violazione. Circa il nome delle Vergini che si macchiarono di tale, oscena, mancanza al loro giuramento sussiste discordanza, ma l'83° Questione Romana riferisce chiaramente a riguardo della quadruplice uccisione del 216. Ancora Plutarco scrisse che:


Poichè il caso era parso atroce, ai Sacerdoti fu dato ordine di cosultare i Libri Sibillini per cercare responso; essi vi lessero gli oracoli che profetizzavano questi crimini e le terribili conseguenze che ne sarebbero derivati a meno che, affinchè potessero essere prevenute, venissero sacrificati due elleni e due galli, in onore di Genii bizzarri e stranieri”;


Tuttavia, l'identità di queste misteriose figure divine, e la loro natura, resta tutt'oggi un mistero. Per quato concerne invece il suffragio delle prove archeologiche, nel 1987 venne effettuate importanti scoperte a Roma, presso il colle Oppio: tra viale del Monte Oppio e Via delle Terme di Traiano vennero rinvenute un'ampia struttura circolare utilizzata ininterrottamente dal tardo periodo repubblicano fino in epoca tardo - antica, rappresentata in uno dei frammenti giunti fino a noi della Forma Urbis, un deposito votivo al suo interno, un altare e un secondo deposito votivo presso quest'ultimo. Nella struttura circolare, già insistente nell'area dei Giardini Brancaccio, sovrapposta al recinto del diametro di circa 16 metri, si trova una fila di blocchi di tufo litoide color giallo approssimativamente delle dimensioni di 56 – 58 cm, successivamente oggetto di rifacimenti in Opus Spicatum, Lapis Tiburtinus e tufo grigio: questa recinzione, probabilmente da intendersi come una sorta di τέμενος – Temenos, dovette contenere, proteggere e interdire l'accesso a qualcosa di estremamente importante, in antichità, ben prima che nelle sue propinquità fossero erette le Terme dell'Imperatore Traiano: le datazioni proposte ballano tra il III - I secolo e il IV – VI secolo a.C., il che considerando gli elementi strutturali che la compongono, quali il massiccio utilizzo di tufo modellato in forma di Opus Quadratum relativamente alla facies più antica successivamente sostituito con travertino, è da ritenersi come altamente plausibile. Per quanto concerne il primo deposito votivo, all'interno del struttura cicolare, gli Ex Voto Suscepto rinvenuti al suo interno sono rocchetti per la tessitura al telaio e sono databili alla fine del VII – inizi del VI secolo a.C.; l'area sacra vera e propria è composta da un'ara e un deposito votivo posti a circa 1,5 metri dal sopracitato recinto, posizionati a est rispetto alla vasta struttura circolare; una più minuta area di culto venne rinvenuta, con altare in tufo litoide già seriamente danneggiato in antichità, sul quale era stata innalzata e sovrapposta una pavimentazione lastricata composta dal medesimo materiale litico. I risultati dello scavo evidenziarono lo stretto rapporto tra la struttura circolare e l'area sacra dato che, in primis, la favissa contenente gli Ex Voto era stata rinvenuta esattamente nella zona ove poi la struttura sarebbe stata costruita. Il secondo deposito votivo, invece, sito accanto all'altare, è databile al IV – III secolo a.C., orientato sull'asse S / O rispetto all'edificio e poco al di fuori di esso, pavimentato a tufo e avente al suo interno una statuina bronzea di Κοῦρος – Kouros, frammentazione fittile e tre tazze miniaturizzate in bucchero e altrettante piccole focacce.


La statuina bronzea del Kouros rinvenuta durante gli scavi del sacello dedicato agli Argei lungo l'attuale via Merulana; Roma, IV – III secolo a.C.






Sappiamo dalle fonti storiche romane che in Colle Oppio vi erano quattro sacelli, di cui uno sorgente presso l'area denominata in figlinis, ergo botteghe di mastri ceramisti e vasai, il tutto comprovato dal rinvenimento di numerosissimi frammenti ceramici lungo l'attuale via Merulana: alla luce di tutto ciò possiamo dunque considerare, con un buon grado di certezza, questo sacello come uno dei quattro dedicati agli Argei siti sul Monte Oppio. A riguardo di Tibur possiamo presupporre che tale festività potesse essere celebrata anche presso la nostra città, dato lo stretto rapporto che essa ebbe con il Mito degli Arcadi provenienti dall'Argolide al seguito di Evandro e che, dettaglio importante, Anfiarao padre di Catillo Maiore, dunque nonno di Tiburno, Corax e Catillo Iuniore, fu per l'appunto uno dei leggendari 50 Argonauti al seguito dell'eroe Ιάσων – Iásōn, comunemente noto come Giasone, dunque compagno d'armi dello stesso Herakles - Ercole durante il viaggio nelle terre della Colchide alla ricerca del mitico Vello d'Oro. E' porre al vaglio, inoltre, l'importante ruolo ricoperto dall'Ordo Vestalis durante l'espletamento del rituale del Sexagenarios de Ponte Deicere poichè era proprio per loro mano che i 27 Simulacra Scirpea venivano scagliati nelle acque del Tevere dal ponte Sublicio8: sappiamo bene quanto importante fossero le Sacerdotesse Vestali nella città di Tibur (per un approfondimento al riguardo, è possibile consultare gli articoli “Culti&Dei nell'Antica Tibur - Pars Tertia” e “Cossinia, il Culto di Vesta e il Capodanno Romano” pubblicati rispettivamente in ArcheoTibur – Annales Volume 0, pgg. 21 - 24 e ArcheoTibur - Annales Volume I pgg 33 - 47.), quale stretto rapporto ebbero con il Sacro Aniene, la presenza di numerosi ponti cittadini utili all'attraversamento delle varie aree urbane caratterizzate dalla massiccia presenza di acque fluenti (solo considerando quelli colleganti la Via Tiburtina Valeria con il centro cittadino, possiamo individuarne almeno 3 e quello dell'Acquoria nelle propinquità del Santuario di Hercules Victor) e l'estrema arcaicità dei costumi religiosi della Città Superba9. Dal punto di vista archeologico, invece, Degno di menzione il ritrovamento effettuato nel 1835, presso l'atttuale Piazza Massimo, di altorilievi frontonali in terracotta originariamente policromi conservati presso il Museo Gregoriano - Etrusco ai Vaticani, il cui restauro fu curato dal prof. Francesco Roncalli: l'intera narrazione risale al IV secolo a.C. e componeva la decorazione del frontone di un santuario extraurbano posizionato in quella che era, al tempo, un'isola circondata delle acque dell'Aniene e dominata dal massiccio del Monte Catillo. Secondo autorevoli interpretazioni l'intero ciclo può esser riferibile al sopramenzionato mito del Vello d'Oro. Nelle molteplici tradizioni elleniche circa la fondazione di Tivoli troviamo sempre presente la figura del già menzionato Anfiarao, come padre o nonno dei nostri fondatori, quel medesimo Anfiarao che regnò sovrano sulla potente città di Argo: ereditò dal suo celebre bisnonno Melampo il dono della profezia e fu un eccellente guerriero, come potè ampiamente dimostrare durante la spedizione degli Argonauti dei quali era parte. Quando il suo culto penetrò nelle zone nostrane, i nostri antenati italici possedevano già le proprie antichissime e ancestrali divinità le quali non potevano certamente esser abbandonate ex abrupto: a ciò si deve, con molta probabilità l'opera di sincretismo attraverso cui Anfiarao divenne padre, o nonno, dei nostri Eroi Fondatori, fondendosi con le entità locali che popolavano il mondo divino da epoche remotissime. In particolar modo avvenne con la figura di Catillo, il cui eco sarebbe ancora rintracciabile nell'oronimo del monte alla cui pendici vennero scoperti gli altorilievi frontonali del ciclo degli Argonauti e in una delle probabili letture del già analizzato cippo arcaico dell'Acquoria10. In ragione di quanto sopra elencato, è altamente probabile che il rituale degli Argei, sia per arcaicità che per caratteristiche intrinseche socio - religiose, abbia rivestito un ruolo di una determinata importanza in Tibur, forse con estrinsecazioni più indirizzate alla celebrazione della memoria eroica piuttosto che al sacrificio lustrale (seppur mitigato dall'utilizzo dei simulacri antropoformi in giunco) romano, considerata la sanguinosa inimicizia che a lungo frappose Tibur e Roma tanto da un punto di vista strettamente politico (Tibur era una delle città – stato più potenti e influenti nella Lega Latina che guerreggò contro l'emergente potenza capitolina) quanto mitologico: gli antenati dei Tiburtini furono proprio quegli Argivi del Mito mortali nemici, in seguito, dei Troiani progenitori dei Romani.



Gli altorilievi frontonali in terracotta policroma, probabilmente ritraenti il ciclo degli Argonauti, rinvenuti nel 1835 durante i lavori di sistemazione della zona antistante Ponte Gregoriano; IV - III secolo antecedente l'era Cristiana, Museo Etrusco - Gregoriano ai Vaticani.






Bibliografia:


- Annales di ArcheoTibur Volume 0, Quickebook edizioni, Tivoli 2018 – 2019;

- Annales di ArcheoTibur Volume I, Quickebook edizioni, Tivoli 2020;

- Publio Ovidio Nasone, Fasti;

- Aulo Gellio, Noctes Atticae;

- Plutarco, Βίοι ΠαράλληλοιVite Parallele;

- Tito Livio, Ab Urbe Condita;

- Omero, Odissea;

- George Dumézil, La Religione Romana Arcaica, BUR Biblioteca Universale Rizzoli;


Note:


1 In "Annales di ArcheoTibur Volume 0, Culti&Dei dell'Antica Tibur - Pars Secunda", pgg. 13 - 18, QuickEbook Edizioni, Tivoli 2018 - 2019.

2I Lemuria venivano celebrate il 9, l'11 e il 13 maggio al fine di placare ed esorcizzare gli spiriti dei morti, i Lemures o Larvae: secondo la tradizione, la loro istituzione venne fatta risalire direttamente all'ecista e primo Re di Roma, Romolo, come espiazione per aver assassinato suo fratello gemello Remo: il corretto espletamento del rituale preedeva che il Pater Familias gettasse alle sue spalle fave nere per 9 volte, intonando al tempo stesso formule propiziatorie e apotropaiche. 

3Il Ponte Sublicio viene ritenuto il più antico ponte di Roma, costruito dal Sovrano Anco Marzio nel VII secolo a.C., di cui al giorno d'oggi non resta alcuna traccia: sorgeva più a monte dell'omonimo attuale, posto tra Aventino e Testaccio da un lato e Trastevere da quello opposto, subito a valle dell'Isola Tiberina e in corrispondenza dell'antichissimo guado protostorico del Tevere avente N / S come orientamento.

4Stando ad Aulo Gellio, nelle sue "Noctes Atticae" (Liber X, 3 – 25) la Flaminica era sottoposta all'osservazione di divieti simili a quelli del marito (eaedem ferme caerimoniae sunt flaminicae Dialis), in aggiunta ad altri specifici alla sua figura (alias seorsum aiunt observitare): le era vietato salire un numero maggiore di tre scalini a meno che non si trattasse di una scala greca, ovveorosia dotata di copertura ambo i lati (et quod scalas, nisi quae Graecae appellantur, escendere ei plus tribus gradibus religiosum est atque etiam), doveva porre un germoglio di Felices Arbores (sughero, faggio, quercia e leccio) nello scialle (et quod in rica surculum de arbore felici habet), la veste da lei indossata doveva essere colorata (quod venenato operitur) e, nel nostro caso specifico, quando partecipava alla Sacra Processione degli Argei le era fatto divieto di ornarsi e pettinarsi i capelli, dovendo inoltre ammantarsi di un abito funebre (cum it ad Argeos, quod neque comit caput neque capillum depectit).


5Il termine Septimontium era utilizzato sia per riferirsi alla festività quanto stava a indicare un'antica divisione territoriale dell'Urbe Capitolina: le etimologie proposte sono Septem Montes, in riferimento alle 7 cime del primo insediamento, sia Saepti Montes, ovveorosia "Monti Divisi" poichè erano separati e fortificati da palazzate stanti a delimitare i confini territoriali dei primi nuclei proto – abitativi. I Sette Monti non corrispondevano ai successivi sette colli di Roma, andando perciò a designare una fase più antica, quella del primo centro proto – urbano sorto per sinecismo dei vari villaggi, attorno alla metà del IX secolo. I Montes in questione erano formati dal Celius o Querquetual su Celio, Palatium e Cermalus sul Palatino, la Fagutal, l'Oppius e il Cispius sull'Esquilino e la Velia posta tra le precedenti due. Solo successivamente il territorio capitolino venne ampliato includendo nel computo i Colles del Viminale e Quirinale, quest'ultimo comprendente il Latiaris, il Salutaris e il Muciaris. Per quanto concerne le Curie, il termine designava in età monarchica le varie tribù guidate componenti la popolazione, ognuna guidata da una sorta di Pater Familias: il termine viene fatto derivare dal latino CoViria, stante per "adunata di uomini" in relazione al luogo ove essi si riunivano per discutere degli affari dello stato, o dal termine sabino "Cures", traducibile con "lancia" e indicante quindi i guerrieri a capo delle famiglie: erano in numero di 30, fondate da Romolo, ed erano suddivise per 10 cadauna le tre tribù dei Ramnes, Luceres e Titie. Ultima ipotesi vede il termine originato dal greco κῦρος, traducibile con "autorità, forza". Non è infine certo se il termine abbia designato primi questi gruppi di uomini o i luoghi di riunione e viceversa.

6 Iuppiter Fatidicus era uno degli epiteti di Giove, derivante dal mito in cui Zeus fagocitò la Dea della Giustizia Meti, (Oceanina figlia dei Titani Oceano e Meti) colei che può essere considerata come la madre della Dea Atena la quale erediterò il Dominio Materno, e profetizzava oracoli parlando per bocca dell'Immanente Fato; non abbiamo menzione di alcuna struttura cultuale a lui dedicato in Roma, mentre lo troviamo menzionato da Omero nell'Iliade:


"Un'aquila spedì che negli unghioni

Tolto all'ovil della veloce madre

Un cerbiatto stringendo accanto all'ara

Ove l'oste svenar solevano gli Achivi

Al fatidico Giove dall'artiglio cader

lasciò la palpitante preda."

7 "Poiché non poteva esser uccisa da mani umane essendo una proprietà divina a tutti gli effetti, una Vestale scoperta non più vergine o responsabile dello spegnimento del fuoco incorreva in orribili castighi di morte, vestita a lutto e trasportata in una lettiga funebre fino al Campus Sceleratus, venendo fustigata, sepolta viva con una parca provvista di pane, latte, acqua e olio, finendo per morire d'inedia e subendo la damnatio memoriae; il suo amante, invece, era vittima di atroci supplizi. La storiografia ci tramanda i nomi di alcune di loro, che colte in flagranza di sacrilegio vennero destinate al castigo supremo: Oppia, Orbilia, Minucia, Claudia e Primigenia." (Annales di ArcheoTibur Volume I, Cossinia il Culto di Vesta e il Capodanno Romano, pgg. 33 - 47)

8 A tal riguardo, possiamo ravvedere un parallelismo di un certo interesse riscontrabile nel martirio di Santa Sinferusa per mano dell'Imperatore Adriano: le cronache raccontano che la donna venne dapprima torturata a sangue, forse per operare un’ultima opera di convincimento che poi si tramutò rapidamente in una condanna a morte per annegamento. Fu precipitata nei flutti del rombante Aniene, con un poderoso masso legato attorno al collo, che la inghiottì seduta stante, mentre i di lei figli subirono la seguente sorte: legati a un palo ciascuno e torturati fin quasi alla morte, infine passati tutti a fil di spada. Crescente fu per primo trafitto in gola, Giuliano nel petto, Nemesio al cuore, Primitivo all'ombelico, Giustino nella schiena, al fianco Statteo mentre Eugenio venne squarciato verticalmente in due parti. Il luogo del martirio della Santa dovette essere o il Ponte Lucano nei pressi della dimora dell'Imperatore, il ponte ubicato nel guado proto - storico dell'Acquoria molto vicino al Santuario di Ercole oppure il poderoso ponte che attraversava l'antica cascata dell'Aniene nel centro dell'ancestrale Acropoli Tiburtina, mentre per i figli di lei possiamo ipotizzare che avvenne negli ampi spazi del grandioso Santuario dedicato al culto di Ercole.

9 Documentato dalla storiografia è l'antico supplizio tiburtino della tortura su palo, menzionato in Svetonio, De Vita Caesarum - Divus Claudius 34, 1, ritenuto estremamente arcaico e per il quale addirittura l'Imperatore Claudio, quasi un secolo prima, si era recato in Tibur per assistervi essendo oramai caduto in disuso nell'Urbe, consistente forse nell'esser legati a un palo e fustigati, con successivo stiramento abnorme delle membra attraverso l'ausilio di argani. Sempre Svetonio, in Nero – 49, 22, ci narra di quale sarebbe stata la condanna capitale alla quale l'Imperatore Nerone sarebbe stato sottoposto, “secondo le antiche usanze: Probabile quindi che il Mos Maiorum citato da Svetonio, invocato per la condanna capitale di Nerone, potesse ricalcare qualcosa di simile all'antico supplizio tiburtino, quest'ultimo forse ancor più desueto e con particolarità eccezionali.

10 Annales di ArcheoTibur Volume 0, “Culti&Dei nell'Antica Tibur - Pars Prima, pgg. 5 – 10, Quickebook edizioni, Tivoli 2019;


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