Benvenuti nel sito ufficiale dell'A.P.S. ArcheoTibur di Tivoli (RM).NUOVO ANNALES VOL. III ANNO IV DISPONIBILE

Della Massa e della Chiesa Cornutiana di Flavio Valila il Goto a Tivoli

A cura dell'arch. Francesco Pecchi


LA FIGURA DI FLAVIO VALILA

Flavius Valila Theodovius, di origine germanica1, fu una potente e prestigiosa personalità militare in quel difficile periodo verso la fine dell’Impero d’Occidente, che coincise con l’inizio del Regno dell’ariano Odoacre2 (476 d.c.). Egli raggiunse le più alte cariche e onorificenze senatoriali e militari al tramonto dell’epoca imperiale, con una carriera che del resto lo accomunò a molti cittadini di origine barbarica che tentarono fortuna presso le istituzioni romane, sia sul versante militare che in quello di civili funzionari. E' infatti noto come fin dal III - IV secolo entrarono nell'esercito romano moltissimi uomini fra Eruli, Sciri, Turcilingi, Rugi, Goti3. Le informazioni sulla sua carriera ci vengono fornite da ben tre documenti giunti fino a noi fra cui spicca proprio l’atto di fondazione della Chiesa Cornutiana (Charta Cornutiana), il quale rappresenta un documento di eccezionale importanza e di cui tratteremo più avanti. In questo documento Valila viene descritto, citando l’autore L. Bruzza che ne fa menzione nella sua pubblicazione4, come:


...Flavius Valila qui Theodovius vir Clarissimus et inlustris et comes et magister utriusque militiae..


Possiamo far derivare quindi il nome gentilizio Flavius come prova della sua fedeltà alla causa imperiale, mentre Theodovius, che sarebbe una forma derivata da un più comune Theodosius o Theodorus ne indicherebbe in maniera inequivocabile la sua confessione religiosa come “portatore di Dio”. Infine il nome Valila rappresenterebbe in maniera altrettanto certa l’origine della sua famiglia, con una desinenza in –ila che era comune a molti nomi di membri di famiglie di razza germanica5. Presto Valila raggiunse il gradino supremo della nobiltà tardo imperiale, tanto da essere appellato nei documenti ufficiali come clarissimus et inlustris, il che lo equiparava come importanza ai Praefecti Urbis o ai consoli6. Sul piano militare ebbe il titolo di Comes o Comites a riprova dell’alta stima che ebbe l’Imperatore verso di lui, ed è proprio all’interno della divisione di questo titolo in Ordines che si inquadra la carica di Magister Utriusque Militiae7 a lui attribuita. In conclusione può dirsi che da Valila dipendevano in sostanza i movimenti dell’intero esercito. Gli ultimi anni di vita dell’Impero Romano d’Occidente vedono la figura dell’imperatore Antemio Procopio (405 - 472) in contrapposizione con quella del collega orientale Leone (411 - 471). Un ruolo importante nelle lotta per il controllo di quel che restava dell’Impero occidentale lo ebbe il generale germanico Flavio Ricimero (405 – 472), la cui vicenda storiografica e biografica si intreccia inevitabilmente con quella di Valila. Quando quest’ultimo si contrappose all’imperatore Antemio intorno al 470 d.c., si creò una vera e proprio frattura nell’esercito romano per cui 6000 guerrieri delle milizie imperiale mossero verso Milano sotto la guida appunto di Ricimero. Queste milizie lasciarono l'odierna Lombardia dopo circa un anno, ovvero per attaccare definitivamente Antemio dopo che questi subì una indecorosa sconfitta col suo esercito contro i Visigoti di Eurico. In queste contese Valila si schierò probabilmente con Antemio, come sembrano suggerire la sua religione, la sua vicinanza alla Chiesa romana e in particolare al papato con il pontefice di origine tiburtina Simplicio (468 - 483), oltre che la sua appartenenza all’aristocrazia senatoria. La Charta Cornutiana8 stessa, recante la data del 17 aprile 471, suggerisce poi due indizi in tal senso. Infatti la carica occupata da Valila sarebbe stata in stretta competizione, nonché perfettamente sovrapponibile in riferimento all’anno in oggetto, con quella di Ricimero. In secondo luogo sarebbe stato poco probabile immaginare la stesura di un documento simile con Valila impegnato da quasi un anno a Milano al servizio di Ricimero. Valila poteva quindi essere un riferimento per tutti i cittadini e militari romani di origine gota e di fede Nicea, in particolare dopo l’ascesa dell’ariano Odoacre, ed egli mantenne anche dopo la fine dell’Impero le alte cariche militari. Oltre che le proprietà nel vasto territorio tiburtino, Valila dovette possedere anche cospicui proprietà nell’Urbe, e come prova di questo abbiamo la fondazione della Chiesa di S. Andrea in Catabarbara sul colle Esquilino. Proprio quella zona della città era da sempre luogo di insediamento dei barbari al servizio militare dell’Impero, quindi un luogo caratterizzato dalla forte presenza germanica anche dal punto di vista culturale e religioso.


LE MASSAE FUNDORUM FRA EVERGETISMO E CENSIMENTO AGRARIO

Il Liber Pontificalis9 fra le sue biografie riporta una serie di proprietà donate dall’imperatore Costantino (274 - 337) alla Chiesa petrina, ovvero l’insieme delle molte basiliche romane e del relativo suburbio. Non si tratta però esclusivamente di donazioni statali poiché ne risultano anche alcune da parte di privati. Questo tipo di donazione può considerarsi embrionale per la fondazione e la futura estensione territoriale dello stato della Chiesa. Costantino introdusse in questo modo uno spirito di Evergetismo10 fra i suoi sostenitori della ricca aristocrazia senatoriale, sollecitando in questo modo molti possidenti privati a ricercare il favore imperiale concedendo cospicui lasciti e rendite alla Chiesa, in termini soprattutto di territori agricoli organizzati. Naturalmente con il tempo, e il sempre maggiore radicamento delle fede, in molti intrapresero azioni simili nella speranza di incontrare la gratitudine divina dopo il termine della loro esistenza terrena. Con il tempo quindi la Chiesa arrivò a dotarsi di numerosi fondi sparsi principalmente fra il Lazio e la Sicilia11. Precisiamo quindi che con il termine Fundus doveva intendersi il nucleo del sistema catastale romano almeno dal II secolo d.c., con i nomi dei fondi spesso derivanti dagli antichi proprietari riportati addirittura dai registri di età augustea12. Nonostante questi venissero concessi dall’autorità imperiale non mancavano fondi privati o alcuni erano certamente passati per la proprietà privata a seguito di confisca. Il fundum era frazionabile in parcelle, e avevano un estensione media dai 15 ai 45 ettari. L’accorpamento di più fondi costituiva la Massa, ovvero la struttura tipica della grande proprietà terriera aristocratica riconducibile ai senatori romani, agli alti gradi militari fra cui i Comites e i Magister Militium. Le Massae racchiudevano fondi tutti riferibili ad un unico proprietario e non necessariamente coerenti e contigui fra di loro. Esse prendevano nome generalmente dal fondo più importante e tutti i fondi componenti la massa sembrano si trovassero nello stesso territorio civico, escludendo tranne alcuni casi masse composte da fondi situate in territori di città diverse. La Vita Sylvestri menziona 26 masse nell’Italia centrale, Sicilia e Africa, e solo nel periodo fra Costantino e Gregorio Magno se ne contano almeno 75.


Foto 1-Elenco delle 75 Massae attestate, con evidenza della Cornutiana. (da Vera, Bibl. 10)



La massa assolveva quindi funzioni fiscali, e accumulava sotto lo stesso proprietario, il quale poi le versava cumulativamente avendo il privilegio dell’Autopragia13. La base del calcolo fiscale di una massa era composta principalmente dal numero dei fondi. A questo punto ammassi produttivi di più fondi convergevano verso la Massa e venivano raccolte generalmente in una grande villa Praetorium. Questa struttura doveva possedere servizi utilizzabili dai coloni della proprietà, abitazioni ma anche officine etc. Certamente questo era lo schema organizzativo della Massa di Valila organizzata come vedremo proprio attorno ad un grande pretorio o villa aulica con inquilini e horti propri. La complessità della donazione di Valila risiede nel fatto che non si trattò di un semplice trasferimento di proprietà ma di una cessione di responsabilità fiscale diretta a seconda dei fondi che la componevano.


LA CHIESA E LA MASSA CORNUTIANA

La Charta Cornutiana14 si costituisce come l'esempio, mirabile, di fondazione e dotazione di una chiesa rurale e sappiamo che Valila fondò una chiesa, di tipo basilicale, con sagrestia e locali accessori. Qual è l'origine della denominazione Cornuta? ritroviamo questo toponimo sia legato ad un fundum, poi ad una chiesa, oltre che del borgo nei pressi dell'antica acropoli. Nei più antichi documenti si ritrovano almeno tre templi dedicati locati in Cornuta: S. Anastasio, S. Agata e S. Stefano15, ed è certa l'esistenza del fondo (o fondi) Cornuta nella Massa che Valila donò per la fondazione della Chiesa. Per assicurare alla costituenda ecclesia una giusta dotazione patrimoniale e mezzi di sostentamento adeguati, Valila donò quindi due gruppi di fondi dalle sua proprietà. Il primo gruppo era costituito dai fondi Maranus, (f.) mons paternum, Casa martis, Vegetes quod casa proiectici, Batilianus. Si osserva la presenza del nome paternum che viene citato anche in altri documenti come un fondo da porre in stretta relazione con la suddetta Chiesa di S. Stefano16. Sul toponimo Cornuta osserviamo che un burgus Cornute è anche riportato in documenti del secolo XIV, che si riferiscono alla parte della città che ancora mantiene questo nome e che si trova proprio all'inizio dell'odierna via Tiburtina Valeria. Il secondo gruppo, che non rientra nei fondi costitutivi della Massa Cornutiana, era costituito dai fondi Callicianum, Casa noba, Casa prati, Casa marturi, Casa crispini, Boaricum, a cui si aggiunge una: "..casa pressa in provincia picini tyburtino territorio costitutos..". Di questi fondi Valila trasferì la proprietà ma decise di tenere per lui l'usofrutto. La Chiesa tiburtina avrebbe goduto dei frutti dei suddetti fondi solo dopo la morte di Valila, ma avrebbe anche dovuto occuparsi dei relativi gravi fra cui quelli fiscali17. Questa donazione deve essere letta nell'ottica di assicurare una serie di servizi a coloro i quali transitavano per la via Marsicana, ovvero l'attuale Valeria, anche nei pressi dei confini del territorio tiburtino con la Marsica. La genesi della Massa di Valila a questo punto sembra porsi in maniera assolutamente coerente con quella della stessa città di Tivoli, mantenendo una vocazione commerciale e di controllo dei flussi economici. Entrambi i gruppi di fondi sembrano a M. Persili, nella sua pregevolissima pubblicazione (bibl. 4), situarsi lungo la suddetta via Valeria. I terreni donati per la fondazione e l'erezione della Chiesa e delle strutture ad essa collegate hanno confini descritti nella stessa Charta:


"..Idest a cava arms qui mittitur ad pretorium. etdeinde per parietes qui contra pretorium redeuntes Aream Eecclesile claudnnt asque trans absidam. Et de parietibus ipsis per sepse qui hortos inquilinorum qui in pretorium commanent. videtur munire Elute sepia descendit et regain ante ad viam cabam. sive ad torum qui redetusque ad arcum suprascriptu claudnnt asque trans absidam. Et de parietibus ipsis per sepse qui hortos inquilinorum qui in pretorium commanent. videtur munire Elute sepia descendit et (..) ante ad viam cabam. sive ad torum qui redetusque ad arcum suprascriptum."18.


Dalla lettura della Charta possiamo capire che vi erano, verso la fine del V sec. tre edifici ovvero un Pretorio (che come abbiamo visto era un edificio fondamentale nella conduzione di un Massa), la Chiesa di S. Maria ed il Monastero di S. Stefano. Il Pacifici in Tivoli nel medio-evo (Bibl. 1) identifica invece dapprima la stessa Chiesa di Valila come intitolata al S. Stefano protomartire, ma ne contestò la collocazione nei pressi del vocabolo Circolo, e di un luogo chiamato Marini nel rione Castrotevere dove appunto è assodato che una chiesa in Cornuta restò in esercizio almeno fino al 158919. Questa Chiesa era intitolata alla Vergine e non risultano riferimenti al titolo di S. Stefano nella documentazione delle visite pastorali del Vescovo giunte fino a noi. Bisogna allora considerare che a Tivoli esistevano due possedimenti dei Cornuti accertati come risulta dagli atti del Regesto della Chiesa di Tivoli. Nel Regesto, oltre un citato fundum qui vocatur cornu sulla Valeria, infatti possiamo seguire la descrizione lungo un preciso asse viario collegante fondi che si riconoscono ancora oggi nella toponomastica attuale in zona Villa Adriana che da ceseranu (Cesarano), paterno, poi qui descendit a ponte lucano, il balbinianu in quo est aecclesie sancti victorini, aqua ferrata, porta al fundum qui appellatur cornuti cum plebe sancti stephani20. Molti nomi di fondi tuttavia risultano duplicati e posizionati, pur omonimi, in zone diverse e questo non può che complicare ogni tentativo di ricostruzione e ricerca. Se i fondi casa marturi (nei pressi di Villa Adriana) e casa nova (vicino a S. Vittorino, Lunghezza e Corcolle) sembrano spingere il Pacifici alla collocazione del fondo Cornuti nell’odierna Villa Adriana, non può non essere considerata nemmeno l’opposizione del Persili che lo vuole in località Caselle, nel fundum caselle, citando il Regesto Sublacense e il Liber Pontificalis i quali accostano il fondo Cornuta al fondo pensioni e, appunto, al monastero di S. Stefano de Olibe, posto a due miglia da Tivoli. Un documento nel Regesto Sublacense databile fra il 758 e il 763, menziona una chiesa di S. Severino nel fondo Casella, e anche un altro documento datato 978 - 1029 del Regesto la colloca nel fondo Pensionis. S. Severino fu un monaco tiburtino vissuto probabilmente nel VI secolo, che dovette distinguersi nella fede e nella benevolenza verso il popolo tiburtino, che ne conservò le reliquie e forse volle che a lui fosse intitolata una chiesa (magari proprio quella Cornutiana). A prova definitiva delle sue tesi il Persili cita i confini dei fondi come descritti nelle Bolle papali di conferma dei possedimenti, datate 978, 991 e 1029. Queste descrivono e confermano i beni della Chiesa tiburtina fra cui la proprietà della via Marsicana, e si elencano in ordine proprio gli stessi fondi citati nella Donazione di Valila, fra cui il pensionis cum ecclesiae sancte marie et sancti severini (..) e il qui appellatur Cornuti cum plebe sancti stephani, circoli, casa martis poi altri ancora21. Prove archeologiche dell'esistenza di questi edifici nei terreni descritti dal Persili, si riscontrerebbero per il Praetorium22 in possenti sostruzioni di dimensioni 47 x 87 m23 orientate sull'asse nord-est, mentre le fondamenta della Chiesa Cornutiana seguono invece l'orientamento nord-sud nel loro asse abside-atrio. Il Monastero di S. Stefano de Olibe poteva aver ricevuto da Valila stesso l'amministrazione dei beni del fondo, e l'intitolazione al santo protomartire corrisponderebbe cronologicamente all'improvvisa espansione del culto a lui dedicato dovuto al ritrovamento delle sue reliquie nell'anno 415. Lo stesso Papa Simplicio tiburtino dedicò al santo le chiese di S. Stefano rotondo al Celio e S. Stefano al Verano. Sarebbe stato rinvenuto in loco anche Il muro di cinta del monastero, lungo 87 m e largo 47, con anche resti delle antiche celle. Il Persili propone quindi la configurazione di un monastero formato da diversi edifici separati, non contigui fra loro, con Horti e Habitacula posti dietro l'abside e, ovviamente, la chiesa Cornutiana.



Foto 2-Ricostruzione della pianta della Chiesa Cornutiana. (da Persili, Bibl. 4)




Foto 3-Ricostruzione dell’assetto degli edifici sul fondo Cornuta. (da Persili, Bibl. 4)




La Chiesa Cornutiana ha caratteri architettonici deducibili dalle informazioni, dettagliate, delle donazioni di Flavio Valila descritte nella Charta. Doveva trattarsi di una costruzione piuttosto imponente e più grande di una semplice chiesa campestre, poichè nella Charta essa viene nominata Templum o Basilica24. Sempre nella Charta sono descritti infatti gli arredi, liturgici e non, conferiti alla Chiesa. Pertanto dall’enumerazione25 e dall’indicazione qualitativa dei veli posti ad abbellimento e separazione delle arcate si ricava una preziosa informazione riguardo la presenza di intercolumni e quindi di colonnati interni (forse almeno due colonne e tre relativi spazi infra colonnari per un totale di sei spazi26). A questo proposito il Pacifici osservò che non vi erano nella moderna Chiesa in Cornuta di menzione cinquecentesca nessun tipo di colonnato27. Indubbia era la presenza di un pronao, mentre sembrerebbe probabile la presenza di una iconostasi da riconoscersi nella serie di piccoli archi che, nell’elencazione di Valila, precedono le arcate maggiori, delimitando lo spazio della mensa attorno all’altare. Altrettanto chiaramente è indicata la presenza di un consistorium, ovvero di una sala di riunione e di un secretarium o sagrestia e di un spazio atriale ante regias basilice28. Per inquadrare il modello architettonico della Chiesa dobbiamo partire dall'evoluzione tipologica dell'architettura basilicale cristiana, che mutò dagli edifici civili romani. Questi tipi si svilupparono quando le comunità furono mosse all'abbandono delle Domus Ecclesie, ovvero abitazioni civili adattate per le celebrazioni liturgiche e la vita religiosa dei fedeli ma certamente non costruiti in funzione di queste pratiche. I tipi domestici dell'architettura romana, con i loro ambienti disposti in ampi cortili porticati, si prestavano al culto cristiano e, particolarmente, al rispetto della separazione fra coloro i quali non erano stati ancora battezzati nella nuova fede. Dalle Domus si passò ai Tituli, con a capo un Presbitero, secondo uno sviluppo logico che porrà la necessità di sale per le riunioni e il confronto della comunità nella loro vita quotidiana e nella gestione del patrimonio ecclesiastico, in ambienti che dovevano avere spazialmente un raccordo di grande rappresentanza e raccoglimento. Tornando alle tesi del Pacifici, nel suo intento di dimostrare come si dovesse in realtà intendere la chiesa di Cornuta nel fondo dell’odierna Villa Adriana, egli non manca di segnalare anche l’aspetto archeologico di eventuali prove dell’esistenza di strutture ricollegabili alla sopra citata architettura della Cornutiana. Egli pertanto individuò in alcune strutture presenti nel celebre rilievo di Francesco Piranesi noto come Pianta delle fabbriche esistenti in Villa Adriana del 1751 la presenza di un edificio absidato con suddivisione in navate, e la presenza di un battistero esagonale29. Ci troviamo nei pressi dei cosiddetti resti della Villa dei Vibii Varii che occupa per intero la sommità del colle di S. Stefano, e i ruderi delle strutture credute cristiane sono visibili (parzialmente) ancora oggi e la Chiesa, per sue caratteristiche, parrebbe l’adattamento di un aula pagana come proprio pare sia avvenuto anche per l’altra Chiesa promossa da Valila ovvero S. Andrea in Catabarbara.



Foto 4-L’edificio presunto cornutiano sulla pianta del Piranesi. (vedi Bibl. 1)





Foto 5-I resti dello stesso edificio piranesiano, non più completamente visibili, dal libro di Dehio, G. and von Bezold, G.: “Die Kirchliche Baukunst des Abendlandes” (1884).




Osservando i disegni del Piranesi è facile scorgere l’aula tripartita dalle navate e dagli intercolumni, e notiamo anche la presenza, congrua con le ricostruzioni stesse del Persili, di alcuni locali laterali di cui uno spazio quasi certamente adibito a sagrestia. Non pare esserci conferma del probabile dispositivo di iconostasi e anzi si notano, riflettendo sulla pilastratura sezionata, una maggiore presenza di possibili arcate in numero quindi maggiore da quanto desunto in Bibl. 4 (vedi). Vogliamo a questo punto introdurre un confronto di tipo storiografico e financo architettonico, con la fondazione della Chiesa di S. Andrea in Catabarbara sul colle Celio, a Roma, ad opera dello stesso Flavio Valila. La sua storia risale al IV sec. quando il consul ordinarius nel 331 (o nel 317) Iunius Bassus30 (Giunio Basso) costruì sull'Esquilino un'aula, con nartece e abside, che data la mole che aveva la costruzione non poteva trattarsi di un edificio funerario vista anche l'ubicazione urbana. Si trattava di una costruzione libera pur annessa alla domus e non inserita in un palazzo31. Intorno al 476 l'aula apparteneva al Valila ma non è chiaro come la proprietà sia entrata in suo possesso; plausibilmente egli poteva averla acquisita anche attraverso un'alleanza matrimoniale con un membro della famiglia dei Bassii, oppure doveva averla acquistata in piena regola. Questa basilica fu trasferita da testamento di Valila a papa Simplicio, tiburtino, il quale la consacrò a S. Andrea e fece collocare nell'abside un epigrafe andata distrutta che daterebbe la consacrazione dell'edificio al culto fra gli anni 476 e 48332. Alcuni scavi del 1930 ne riportarono alla luce i resti, e le misure generali riportate erano circa di 18/21 metri per 14 di larghezza e anche di altezza, l'intero complesso venne poi demolito per delle nuove costruzioni verso la fine del XVII sec. La ricca e documentata decorazione presente nell'aula proverebbe che le liturgie cristiane che si sono verificate in. S. Andrea avevano instaurato un dialogo provocatorio tra le tradizioni dell'élite romana e la cultura del mecenatismo cristiano. La giustapposizione degli schemi decorativi pagani e cristiani riecheggiava inoltre con gli obiettivi di mecenatismo che Valila perseguiva come donatore di beni alla chiesa.


Foto 6-La pianta di S. Andrea come apparve negli scavi del 1930. (vedi Bibl. 6)



Foto 7-Iscrizione di Valila rinvenuta fra i seggi dei senatori al Colosseo. (vedi Bibl. 6)



Foto 8-Rilievo di S. Andrea eseguito dal Ciampini nel 1690. (vedi Bibl. 6)



L'attività restauratrice di Valila vale la pena di essere considerata, poiché il prestigio di questa "sponsorizzazione" risiede anche nel fatto di non contraddire e non sovrapporsi al precedente benefattore o costruttore. Osservando la pianta di S. Andrea come da rilievo degli scavi del 1930 possiamo notare la semplicità dell'aula, priva di navate, con la terminazione absidale che offriva ampio spazio anche per il console stesso posizionato nell'abside, per indirizzare assemblee semi-pubbliche di pochi individui. Tuttavia il confronto con la pianta della stessa chiesa rilevata da Giovanni Ciampini nel suo Vetera Monumenta del 1690 la mostra con alcune differenze fra cui si nota un piccolo ingresso sicuramente realizzato in epoca successiva nella destra del nartece. E’ probabile che allora l’aula fosse stata davvero adattata per l’uso liturgico modificandone l’originale simmetria, e questa cosa potrebbe essere accaduta anche nel nostro caso dell’edificio cornutiano dei Colli di S. Stefano (o presunto). Entrambe le fabbriche hanno un insolito orientamento che sembra inserire l’edificio sacro in un contesto non assiale ma chiaramente decentrato rispetto agli altri edifici esistenti, e comunque non coerente con l’originaria progettazione. Un diverso afflusso di fedeli e la ricerca di uno spazio atriale o anche di sagrato a fare filtro, come suggeriscono i canoni delle prime basiliche, fra gli ambienti sacri e il preesistente intorno urbano potrebbe certamente spiegare la necessità di queste trasformazioni. I rapporti fra la famiglia degli Anicii e i Decii caratterizzò la vita politica cittadina romana nel V sec, e vanno ricondotti alla prima famiglia gli interessi convergenti verso il papato e i favoritismi verso il mondo cattolico, ai secondi i tentativi di contrastare l’arricchimento della Chiesa. Ipotesi di vicinanza fra la politica di Valila e gli interessi degli Anicii possono essere certamente addotte. Sono ben noti i possedimenti di proprietà della Gens Anicia nella Valle dell’Aniene, che risalirebbero ai tempi di Placido Anicio (poi noto come S. Eustachio a seguito della conversione sua e della sua famiglia al cristianesimo). Le Memorie di S. Silvia attribuiscono alla santa il possesso dei territori che furono di proprietà di Eustachio, prima del di lui martirio e della conseguente confisca dei beni, adducendo al fatto che ne sarebbe rientrata in possesso essendo essendo stata la moglie di Gordiano Anicio. Si ipotizzerebbe in tale libro che proprio sulla base del vincolo di parentela la famiglia avrebbe nuovamente ottenuto il possesso dei fondi vicino Poli e l’odierna S. Gregorio da Sassola. Nel corso degli anni contribuì a formare il cosiddetto Patrimonium Tiburtinum una numerosa serie di fondi e masse agricole. Nel 936 la cosiddetta massa Iubenzana, come si deduce dalla conferma di Leone VII del 939, era passata sotto il Regesto Sublacense e quindi sotto il controllo del potente monastero benedettino. Si trattava di una importante Massa che si distingueva nel versante orientale del territorio tiburtino per la ricca presenza di chiese rurali e di risorse agricole come colture e molini. Nel 958 viene distinta all’interno della M. Iubenzana la Massa Ampolloni, già Fundum che era passata dalla proprietà tiburtina a quella sublacense con la conferma del 939. La contiguità fra i beni degli Anici e dei Bassi33, e la vicinanza politica e religiosa con Flavio Valila che deterrà contemporaneamente poi il possesso di alcuni di questi beni, fanno pensare che egli le ottenne o per probabile confisca e poi assegnazione meritoria, o anche per alleanza sugellata dal vincolo matrimoniale e quindi da legami familiari di Valila con membri di queste importanti famiglie. A questo schieramento che animò lo scacchiere politico, militare ma anche sociale dell’ultimo Impero non sfugga la vicinanza di V. al pontefice Simplicio, che molto si dedicò, come poi altri pontefici, per favorire un particolare evergetismo e la cristianizzazione delle campagne, fra cui quella fra Tivoli e Subiaco fino alla Marsica, fra il V e il VI sec.


LA CHIESA CORNUTIANA SUL COLLE MONITOLA. L’IPOTESI DI A. MORESCHINI.

Si vuole infine segnalare l’ipotesi, come apparve nella pubblicazione di Angelo Moreschini Le Chiese di Castel Madama (Bibl. 8) edita intorno al 2000, che l’attuale rudere del cosiddetto “Castellaccio”, ovvero la Cisterna di epoca romana sita sulla sommità del colle Monitola fra l’odierne Tivoli e Castel Madama, possa essere in realtà la Chiesa del fondo Cornuta voluta e donata da Valila. Chi scrive, esaminato quanto sopra prodotto e dopo aver letto le motivazioni (che però appaiono come semplici ipotesi mai affermate con piglio di certezza storica documentabile) addotte dal Moreschini, ritiene di riportare qui gli elementi probatori e le considerazioni storiografiche dandone un giudizio di validità rispetto alla causa dell’individuazione critica della Chiesa Cornutiana. Una Chiesa di Monitola, intitolata alla Vergine, esisteva certamente e viene citata in alcuni distinti documenti a partire almeno dal 1015 dove, nella donazione34 di Benedetto VII, viene riportata fra i confini del territorio una aecclesia Sante Mariae. Ancora nel 1555 è riportata, nel giudizio emesso dal principe Orsini per l’arbitrato nella causa della Gabella del Passo, una: “..Chiesa in cima di Monte Monitola..”. Infine nella carta del 1737 riproducente i confini dei territori di Castel Madama e Tivoli nella valle Empolitana, dove vediamo la costruzione di Monitola, con avancorpi in elevazione aggiunti rispetto allo stato costruttivo osservabile oggi, citata come: “..Chiesa antica che guarda verso Roma..”. La vocazione e l’utilizzo dell’antico sito fu certamente militare, ma è certo che si tratti di una conserva35 magari addossata ad una villa, e nel corso dei secoli subì robusti lavori di ristrutturazione e adattamento per adattare la struttura alla funzione militare. Non sfugga che il recupero di ville rustiche ed edifici (militari e civili) fu fondamentale per le comunità religiose, che si aggregheranno a partire dal III sec. fino al periodo degli “incastellamenti” intorno a questi edifici o a chiese rurali nella Valle dell’Aniene. Sul colle sono state rinvenute tracce di almeno due ville di cui una apparentemente dotata di una robusta cisterna, riutilizzata in tempi antichi come casale rustico. E’ particolarmente utile concentrare l’attenzione sulla descrizione e le caratteristiche architettoniche dell’edificio così come riportate dal Moreschini che misura 11 x 19,5 metri, con lo spazio interno che risulta suddiviso in tre navate con due file di quattro pilastri in conci calcarei a base quadrata di circa 80 cm. A queste vanno aggiunte due paraste di uguale sezione addossate ad ognuna delle pareti di fondo, con l’Interasse dei pilastri è di 2,5 m mentre la larghezza delle navate è di 2,7 m. La copertura dell’edificio doveva essere a volta a crociera a giudicare dalle parti di conglomerato strutturale rimaste sulla sommità dei pilastri. Si fa notare che in epoca successiva venne aggiungo un secondo livello al piano terra, di probabile pari estensione. Due brani murari con uso di contrafforte sono rimasti visibili e due sole sono le aperture riscontrate in piccole tracce vicino a questi. Per le sue murature esterne Giuliani riporta l’utilizzo di Opus incertum in materiale calcareo mentre l’interno era invece intonacato in Opus signinum. L’assenza di aperture certe ha contribuito a rafforzare l’ipotesi della destinazione a cisterna, nonché la sua posizione sommitale rispetto al colle di Monitola.


Foto 9-Rilievo della cisterna di Monitola secondo il Giuliani. (vedi Bibl. 9)



Si può porre la nostra costruzione in diretto rapporto con la conserva di Colle Saccomuro fra Castel Madama e Vicovaro, realizzata in medesima opera incerta fuori terra, e anche o particolarmente con la cisterna romana del Caffeaus a Roma. Entrambe possedevano un doppio livello fuori terra e dei muri di contrafforte36 che irrobustivano una struttura ovviamente gravata sia dal peso proprio sia da quella dell’acqua a pieno regime. In merito ai contrafforti Giuliani rileva come il contrafforte della cisterna di Monitola abbia una impronta curva derivante dalla presenta di uno spazio abisdale, con tracce di muratura in Opus reticolatum, in stretta aderenza con lo spazio della cisterna. Egli vide peraltro brandelli di pavimento mosaicato a tessere bianche e nere con motivi cruciformi, e giunse alla conclusione che si potesse trattare di una villa databile forse intorno alla seconda metà del II sec, con un riuso medievale di cui ne rimarrebbe traccia in particolare nei resti di una torretta impostata sul contrafforte a sud.


Foto 10-Rilievo della cisterna del Caffeaus con esclusione delle modifiche post-antiche. (vedi Bibl. 11)



La vicinanza della cisterna con la massa Cornutiana e la Chiesa, almeno nell'intepretazione del Persili, potrebbe far ipotizzare che la struttura possa aver fatto parte degli edifici donati e presenti nella Massa, magari trasformata in un Pretorio funzionale adatto alla conservazione dei prodotti e alla difesa e ricovero dei contadini e dei lavoratori asserviti. Nuove conferme in tal senso e sull'intera vicenda della Chiesa trattata in questo saggio, in merito quindi alla localizzazione della Massa e delle sue strutture, potranno essere chiarite solo con nuovi scavi e ricerche archeologiche che auspichiamo possano far luce sulla vicenda costruttiva della donazione di Valila il Goto e della fondazione della Chiesa Cornutiana.



Foto 11-L’interno della cisterna di Monitola. (vedi Bibl. 9).





BIBLIOGRAFIA:

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- a cura di R. Lizzi Testa, Le trasformazioni dell’elites in età tardoantica/Atti del convegno internazionale Perugia 15 – 16 marzo 2004, 2006, Roma, L’Erma di Bretschneider, pp. 507.

- A. Moreschini, Le Chiese di Castel Madama/monografie storiche, 2000, s.l., pp. 200;

- F.C. Giuliani, Tibur pars altera, 1966, Roma, De Luca, pp. 230;

- D. Vera, Massa Fundorum/Forme della grande proprietà e poteri della città in Italia fra Costantino e Gregorio Magno, in MEFRA - 111 - 1999, pp. 991-1025;

11) S. Aglietti - A. P. Arena, Dalla cisterna romana al Caffeaus. Recenti indagini sulla struttura di via Tripoli ad Anzio (Roma), in Lazio e Sabina n.8 a cura di Z. Mari e G. Ghini. 2008, Roma, Quasar, pp. 385-390.

- D. De Francesco, La proprietà fondiaria nel Lazio/ Secoli IV-VIII. Storia e topografia, 2005, Roma, Quasar, pp. 372.

1 ) Le fonti tradizionali parlano di origine gotica di Valila, o Erula.

2) Odoacre fu Re degli Eruli e Patrizio dei Romani, fra i principali artefici della deposizione dell’ultimo Imperatore romano d’occidente Romolo Augustolo.

3) (pg. 11, Bil. 2).

4) La quasi totalità delle fonti sulla storia della formazione della Chiesa e della Massa Cornutiana non sarebbero state di possibile stesura senza l’importantissima trascrizione della Charta Cornutiana ad opera di P. Luigi Bruzza (vedi Bibl. 5).

5) Non sfuggano i nominativi Totila e Gattila, fra i tanti i più celebri, con desinenze comuni tanto a Visigoti e Ostrogoti (pg. 9, Bibl. 4).

6) La sovrapposizione fra le cariche, apparentemente uguali, di Ricimero e Valila può spiegarsi solo con l’appartenenza del secondo alla cerchia militare e politica fedele all’imperatore Antemio. Si legga l’ottimo testo di U. Roberto. (pg. 251, Bibl. 2).

7) Tale carica riuniva sia i Magister equitum che Magister peditum almeno prima del IV sec. (pg. 10, Bibl. 4).

8) La Charta è riconducibile al tipo Minuscola romanesca, del tipo usato a Farfa, a Subiaco e altri centri laziali. (pg. 4, Bibl. 3).

9) Il celebre testo raccoglie le biografie dei pontefici, fornendo moltissime informazioni per i papi che seguirono da Pietro fino almeno a Pio II. Tale documento si pone anche come importantissima fonte di informazioni per comprendere la vita e l’organizzazione della società del primo Medioevo.

10) Il termine definisce un tipico comportamento dell’età romana per cui privati cittadini regalavano beni propri alla collettività, e assume un carattere divino quando in molti la perseguirono con l’intento di ottenere la celeste benevolenza.

11) Il fatto è facilmente spiegabile considerando che l’aristocrazia senatoriale romana era per la maggior parte di origine laziale o siciliana. (pg. 1002, Bibl. 10).

12) Il “registro” sarebbe stato elaborato sotto Ottaviano Augusto nel 13 d.C.

13) Così era denominato il sistema (o privilegio) che permetteva, alle persone di alto rango, di versare le imposte direttamente alle casse dello stato.

14) La Charta viene quindi a configurarsi come il primo Istrumentum di carattere privato relativo ad una donazione verso la Chiesa. (pg. 6, Bibl. 2).

15) (pg. 122, Bibl. 1).

16) Come anche i fondi Circolo o Acqua ferrata. (pg. 122, Bibl. 1).

17) (pg. 34, Bibl. 4).

18) (pp. 15-16, Bibl. 5).

19) (pg. 124, Bibl. 1).

20) (pp. 34-35, Bibl. 5).

21) (pg. 45, Bibl. 4).

22) Il Pretorium poteva essere in realtà l'antica villa di Caio Turpilio e di qui il toponimo Tortogliano ma questa attribuzione è da tutte le fonti creduta errata (pg. 46, Bibl. 4).

23) (pg. 27, Bibl. 4).

24) (pg. 18, Bibl. 4).

25) L’elenco completo è riportato e commentato nella pubblicazione del Persili. (pp. 24-26, Bibl. 4).

26) (pg. 23, Bibl. 4).

27) (pg. 124, Bibl. 1).

28) Trattasi di un tipico dispositivo di separazione del Presbiterio, accessibile solo ai religiosi, che separavo dallo sguardo dei fedeli lo spazio sacro della celebrazione dell’Eucarestia. (pg. 22, Bibl. 4).

29) (pg. 129, Bibl. 1).

30) Non è chiaro se si tratti di Iunius Bassus console nel 317, o l’omonimo e omologo del 331; il ritrovamento di un' epigrafe nella villa dei Bassi sulla Flaminia avrebbe accertato che il Bassus in questione sarebbe il secondo. (pg. 6, Bibl. 6).

31) Si trattava forse di uno spazio con funzione di ricevimento della sontuosa dimora aristocratica del console. (pg. 255, Bibl. 3).

32) Il testo dell’epigrafe è riportato a pg. 10. (Pp. 18, 10, Bibl. 6).

33) Questo escluderebbe la meno probabile ipotesi che le proprietà delle due famiglie, nella fattispecie l’entrata in possesso del patrimonio dei Bassi da parte degli Anicii, deriverebbe dalla vicinanza topografica delle rispettive domus sul Cispio. (pg. 343, Bibl. 7).

34) (Pg.172, Bibl. 8).

35) (Pg. 167, Bibl. 8).

36) Vedasi il rilievo di F. Graziani all'interno della pubblicazione in Bibl. 11.