Rilievo votivo in
marmo raffigurante Anfiarao curante la spalla di Archinoo,
morsa da un
serpente. Dal santuario di Amphiarosa Oropoú, V-IV secolo a.C.
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Nell'antica Tibur il culto divino per antonomasia,
pleonastico ricordarlo, era sicuramente quello di Ercole, il greco Herakles, al
punto tale che la stessa città veniva identificata con la divinità patrona : Herculea
Tiburis Arces, Herculi Sacra, Herculeum Tibur, herculeos
colles et similia. Egli era venerato massimamente in Tibur, ricordato
nell'epigrafia come Hercules Victor, Hercules Tiburtinus Victor, Hercules
Invictus, Hercules Victor Certenciinus, Hercules Domesticus e Hercules
Saxanus. Il suo ruolo era dunque egemone ma, al suo
fianco, numerose altre divinità erano presenti nella cultualità quotidiana
degli antichi tiburtini. Ne analizzeremo alcune, provando anche ad individuare
le possibili correlazioni tra questi culti e la loro area d'origine al fine di
compenetrarne l'antichissima natura.
Le Divinità della Fondazione e l'Età del Mito
Anfiarao, Catillo, Coras e Tiburno
Hendrik Voogd (Amsterdam, 1768-Roma, 1839), “Veduta delle grandi e piccole cascatelle di Tivoli”, olio su tela. |
Prestando fede alla leggenda, la città di
Tibur venne fondata il 5 aprile del 1215 a.C., sul finire dunque
dell'età del Bronzo, secondo il classico schema del Ver Sacrum. I miti
della fondazione presentano differenti versioni, le quali comunque convergono
su di un punto ovveorsia l'atto sacro per mano di un Eroe, mitico e semileggendario.
Secondo Catone e Gaio Giulio Solino, la nostra città venne
(ri)fondata dall'arcade Catillo, comandante della flotta di Evandro,
figlio del celeberrimo Anfiarao, a sua volta figlio di Oicle di
Tebe: a quel tempo la gioventù argolide era in fuga dalle terribile guerra
civile che stava infuriando tra Eteocle e Polinice. Catillo
ebbe tre figli, i quali furono nominati Cora, Catillo Iuniore e Tiburno
(o Tiburto), il maggiore, colui il quale rinominò la città,
ampliandone la cinta muraria dopo aver scacciato assieme ai suoi fratelli i Siculi
(o gli Aborigeni assieme ai Pelasgi, a seconda
delle fonti); egli fu l'eroe eponimo, l'Ecista, colui il quale possedeva
il suo bosco sacro, il Lucus Tiburni, nei pressi dell'acropoli
tiburtina ove l'Aniene originariamente precipitava in una serie di rombanti
cascate, vicino la splendida grotta naturale ritenuta dimora della Divina Albunea:
tale bosco, al cui centro svettavano tre lecci sacri *(1), fu definito
da Orazio “Tiburni Lucus”. Le tre elci sacre erano in possesso di
virtù fatidiche, terapeutiche e oracolari, come la quercia sul colle Vaticano o
quella sul colle Capitolino, tanto che lo stesso Tiburno vi si recò per
trarne auspici: da ciò si configura come un Sacer Lucus, un τέμενος-Tèmenos,
uno spazio arboreo recintato proprietà degli Dei, presso il quale l'accesso ai
comuni mortali era vietato. Non siamo a conoscenza se il Lucus Tiburni fosse
sede di un santuario sacro alla Lega Latina, così come quello di Diana
Aricina o quello di Giove Laziale sito sul Mons Albanus (odierno
Monte Cavo ad Albano) o quello di Diana Aricina sulle
sponde del lago di Nemi.
Tornando alle origini di Tibur un'altra fonte,
forse meno fascinosa ma non per ciò meno
valida, sostiene che la città fosse stata fondata dai Siculi e
denominata Sykelikòn: narra Dionigi di Alicarnasso, nella sua
opera magna Ῥωμαική ἀρχαιολογία-Antichità Romane, di un'alleanza tra gli
Aborigeni*(2), i primevi Latini, e i Pelasgi, i
quali unendo le forze riuscirono a scacciare i Siculi verso il sud
dell'Italia e si appropriarono della città ribattezzandola Polistephanon,
ovverosia La Multicoronata; secondo Diodoro Siculo, nella sua Bibliotheca
Historica, il tutto fu opera di Latino Silvio, Rex Sacrorum
di Albalonga.
Tiburno, Coras e Catillo Iuniore
prestarono poi soccorso a Turno, re dei Rutuli, durante la guerra
contro Enea: il giovane araldo
tiburtino Vènulo, dopo una lotta disperata, morì per mano di Tarconte,
Signore degli Etruschi e alleato del figlio di Anchise; al termine del conflitto, che vide Tibur
sconfitta, Catillo Iuniore e Coras viaggiarono raminghi divendo ecisti di
molte città mentre Tiburno consacrò la città a Eracle morendo, in
tarda età, all'incirca nel medesimo periodo di Enea e venendo deificato:
trapassando senza aver avuto eredi, il governo cittadino venne affidato a una
Curia di anziani.
Duello tra Vènulo e Tarconte-acquaforte di Bartolomeo Pinelli
per Eneide,
Lugi Fabri ed. Roma, 1811.
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E' sicuramente interessante notare la forte
corrispondenza che s'instaura tra la figura di Evandro, figlio del Dio
psicopompo Hermes e della ninfa Carmenta, fondatore della città
di Pallantia sul colle Palatino in Roma e tradizionalmente
colui che recò l'alfabeto, la scrittura e il rito dei Lupercalia nelle
nostre terre, e Catillo, comandante della sua flotta e fondatore di Tibur
assieme ai suoi tre figli. Il culto degli Eroi fondatori, nell'età del
Bronzo, l'età eroica per antonomasia, è un tema ricorrente nell'antichità a noi
nota: per quanto concerne la nostra città, la figura maggiormente di rilievo è
sicuramente Catillo; che si tratti del padre, del figlio o della
sovrapposizione dell'uno all'altro non siamo in grado di asserirlo seppur possiamo ipotizzare che
dovette ricoprire un ruolo centrale nella cultualità arcaica, una Divinità-Eroe dalle prerogative
oracolari, mantiche, ctonie e sanatrici specchio fedele di ciò che fu suo
nonno/padre Ἀμφιάραος-Anfiarao nell'Argolide.
A riguardo di ciò è
doveroso menzionare un cippo, rinvenuto in località Acquoria durante gli
scavi per la costruzione della centrale idroelettrica, e datato al VI secolo
antecedente l'era cristiana, il quale sembra riportare la dicitura KATIILO,
secondo l'interpretazione del Ribezzo. Altri studiosi, quali l'Altheim,
il Pisani e il Vetter non concordarono con tale opinione,
ritenendo la lettura come MITAT CAPILOR. Il cippo, stando alla
testimonianza degli operai che assistettero al ritrovamento, era coronato da
una statuina di rame ritraente un guerriero dotato di elmo e frusta: rappresentante la testimonianza di scrittura più antica
rinvenuta nella nostra città, fu vergata utilizzando caratteri alfabetici
calcidesi con iscrizione in lingua sabina o latina di tipo arcaico; è stato interpretato anche come
donario, essendo stato rinvenuto in una zona archeologica ricchissima di
testimonianza in tal senso e certamente tra le più arcaiche da un punto di
vista socio-cultuale.
Il cippo tufaceo con
iscrizione sabina o protolatina,
vergata a con caratteri alfabetici calcidesi;
VI
secolo antecedente l'era cristiana, Museo
Nazionale Romano, Terme di
Diocleziano.
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Quale sia stato il nume tutelare della città
nell'antichissimo passato è compito quasi proibitivo: interessante sottolineare però come lo stesso Evandro
possa esser considerato un'ipostasi della divinità Latina Fauno di cui
fu prima ospite sul colle Palatino e, in seguito, suo successore. Fauno
era una divinità la quale agli uomini che la interpellavano il loro destino
attraverso l'ornitomanzia (l'osservazione augurale del volo degli
uccelli), lo stormire delle foglie e la dimensione onirica. A riguardo di
ciò affonda in Tivoli le sue radici l'ancestrale Monte Catillo, al
giorno d'oggi conosciuto come Monte della Croce, il quale sorge in una
posizione che sappiamo essere, sin dall'antichità come di assoluta preminenza
strategica, sociale e religiosa: dominante all'acropoli tiburtina, contiguo con
la zona sepolcrale ubicata lungo la sponda orientale del fiume e probabilmente
uno dei nuclei proto-abitativi dell'arcaico insediamento. Degno di menzione il
ritrovamento effettuato nel 1835, presso l'atttuale Piazza Massimo,
di altorilievi frontonali in terracotta originariamente policromi conservati
presso il Museo Gregoriano-Etrusco ai
Vaticani, il cui restauro fu curato dal prof. Francesco Roncalli:
l'intera narrazione risale al IV secolo a.C. e componeva la decorazione
del frontone di un santuario extraurbano posizionato in quella che era,
al tempo, un'isola circondata delle acque dell'Aniene e dominata
dal massiccio di Catillo. Secondo autorevoli interpretazioni l'intero
ciclo può esser riferibile al mito del Vello d'Oro, oggetto finale del
lungo viaggio intrapreso dall'eroe Giasone e i suoi compagni Argonauti.
Nelle
molteplici tradizioni elleniche circa la fondazione di Tivoli troviamo sempre
presente la figura del già menzionato Anfiarao, come padre o nonno dei
nostri fondatori, quel medesimo Anfiarao che regnò sovrano sulla potente
città di Argo: ereditò dal suo celebre bisnonno Melampo il
dono della profezia e fu un eccellente guerriero, come potè ampiamente
dimostrare durante la spedizione degli Argonauti dei quali era parte.
Quando il suo culto penetrò nelle zone
nostrane, i nostri antenati italici possedevano già le proprie antichissime e
ancestrali divinità le quali non potevano certamente esser abbandonate ex
abrupto: a ciò si deve, con molta probabilità l'opera di sincretismo
attraverso cui Anfiarao divenne padre, o nonno, dei nostri eroi Fondatori,
fondendosi con le entità locali che popolavano il mondo divino da epoche
remotissime. In particolar modo avvenne con la figura di Catillo, il cui
eco sarebbe ancora rintracciabile nell'oronimo del monte alla cui pendici
vennero scoperti gli altorilievi frontonali
del ciclo degli Argonauti e in una delle probabili letture del
già analizzato cippo arcaico dell'Acquoria.
Catillo sembra infatti esser stata una figura dalle peculiarità
mantiche, sanatrici e l'inserimento del Vate Anfiarao, in questo
contesto, potrebbe aver contribuito a
far penetrare con più efficacia, nel tessuto socio-religioso tiburtino,
lo scheletro del sistema
soprannaturale
ellenico. Concludiamo questa disamina narrando il racconto di Re Anio,
sovrano etrusco, e di sua figlia Salia. Secondo le fonti mitologiche
proprio Catillo (o il rutulo Cetego, a seconda delle versioni) nrapì la figlia del sovrano e si dette
alla fuga con la giovane avendo
l'intenzione di portarla su di un
monte ubicato nei pressi e approfittare sessualmente di lei. Anio,
avendo assistito in distanza al
misfatto, tentò di d'intervenire attraversando il fiume a cavallo ma le
impetuose correnti del Parensius lo inghiottirono tra i flutti e il Re
morì. Di lì a poco un bagliore rischiar le tenebre notturne e lo spirito del
defunto Anio apparve per trarre in salvo la figlia Salia,
costringendo Catillo a prigionia eterna tra le rocce calcaree del monte
che, ancora al giorno d'oggi, reca il suo nome: il fiume, anticamente chiamato Parensius,
venne ribattezzato Aniene in onore del coraggioso Re Anio.
Il Re Anio viene travolto dai flutti del fiume Parensius e
perde la vita.
Sulla sponda opposta Catillo fugge dopo aver rapito
Salia, la figlia del sovrano.
Villa d'Este, Tivoli.
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Approfondimenti:
*(1) Leccio (Quercus Ilex):
detto anche Elce, è un
albero spontaneo appartenente alla famiglia Fagaceae e al genere Quercus,
diffuso nei paesi del bacino del Mediterraneo, può raggiungere anche i 20-24
metri in altezza. Gli alberi del genere Quercus sono spesso stati
sacralizzati in quanto testimoni di Keraunofanìe, poichè sovente
colpiti da folgori.
*(2) Aborigeni: I primevi
Latini, autoctoni dell'Italia, il loro etnonimo deriverebbe da “Ab
Origines”, ovverosia “I Fondatori”, endoetnonimo, oppure
da “Aberrigines”, equivalente a “I Girovaghi”, in questo
caso esoetnonimo. Forse furono anticamente i leggendari Lélegi,
di stirpe greca, discendenti degli Enotri.
Fonti Bibliografiche:
-Gianfranco
Maddoli, Universale LATERZA, “La
civiltà Micenea, guida storica e critica”, 1977;
-Franco
Sciarretta, Tiburis Artistica Edizioni;
"Tivoli
in età classica”
"Viaggio
a Tivoli”;
-Cairoli
Fulvio Giuliani, “Forma Italiae-Tibur Pars
Prima e Altera”, De
Luca, 1966 e 1970;
-Publio
Virgilio Marone, “Eneide”;
-Omero,
“Odissea” ;
-Diodoro
Siculo, “Bibliotheca Historica”;
-Dionisio
d'Alicarnasso, “ Ῥωμαικὴ ἀρχαιολογία” o
“Antichità Romane”;
-Gaio
Giulio Solino, “Collectanea rerum
memorabilium";
-Marco
Porcio Catone, "Orgines";