Cippo funerario della Vestale Cossinia,
Tivoli, Parco della Vestale Cossinia, circa metà I secolo dell'era cristiana.
Foto di Fabrizio Accadia, CTS di
ArcheoTibur.
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Per quanto concerne il culto di Vesta in Tibur abbiamo davvero pochi dubbi: la tomba di una Vestale, Cossinia, fu rinvenuta sulla sponda orientale dell'Aniene il 22 luglio del 1929, presso l'area conosciuta come "Ponte dei Sepolcri" per mano di Gioacchino Mancini, funzionario della Soprintendenza di Roma. La scoperta fu sensazionale e lo è ancora al giorno d'oggi essendo il luogo dell'ultimo riposo della sacerdotessa, un esemplare unico al mondo. La tomba è così composta: un cippo marmoreo, il quale presenta il nome della defunta con il patronimico sulla faccia principale, circondato da una corona di foglie embricate di quercia e ghiande, il tutto arricchito da un cordoncino di bacche o fusi allungati, alle cui estremità vi era un fiocco, poggiante su di un basamento a cinque gradoni, composto in pregiato Lapis Tiburtinus, il travertino locale. Sulle facce laterali, purtroppo in pessimo stato di conservazione a causa dei numerosi atti vandalici, compaiono in bassorilievo l'urceus (brocchetta di terracotta e metallo monoansata) e la patera (piatto o scodella utilizzata per i liquidi durante i sacrifici rituali).
Il ritrovamento dell'ara funeraria della Vestale Cossinia, avvenuto il 22 luglio del 1929. |
Cippo funerario di Cossinia per come si presenta attualmente, a sinistra, e proposta ricostruttiva con i colori originari. Ipotesi di Gianna Bertacchi. |
I resti mortali della giovane donna sepolta nel secondo monumento funebre, ubicato di fianco a quello della Vestale, erroneamente creduti dal Mancini come appartenenti a Cossinia. |
Vesta era signora e padrona del focolare domestico, figlia di Saturno e di Opi, sorella di Giunone, Cerere, Giove, Plutone e Nettuno. La sua venerazione si svolgeva privatamente, tra le mura domestiche, mentre nel pubblico consisteva nel vitale dovere di mantenere accesso il fuoco che ardeva nel tempio a lei sacro, l'ancestrale Ignis Perpetuus: tale era la missione delle sacerdotesse vestali le quali, specchio fedele della Dea, dovevano dedicarsi a tale compito rimanendo vergini fino al termine del sacerdozio. Il fuoco sacro veniva rinnovato ogni 1° marzo, celebrazione del capodanno romano, e le festività a lei dedicate, le Vestalia, si svolgevano dal 7 al 15 giugno, giorno in cui l'Aedes Vestae veniva solennemente spazzata, in quanto sede del focolare simboleggiante la grande Familias romana. In tali giorni l'accesso all'Aedes era interdetto agli uomini e le donne potevano accedervi solamente scalze, mentre al di fuori di questo periodo solo le Vestali e il Pontifex Maximus, al quale era comunque vietato l'accesso nel Sancta Sanctorum del luogo, ovverosia il penus. L'origine dell'istituzione collegiale del sacerdozio ad essa consacrato affonda le sue radici nel passato più impenetrabile dei popoli latini, poiché la tradizione ci tramanda che la cui madre dell'ecista Romolo (24 marzo 771 – 5 / 7 luglio 716 a.C.), Rea Silvia, era vergine vestale nella potente città di Albalonga da dove tradizionalmente viene fatta risalire l'origine dell'Ordo Vestalis e che Numa Pompilio (754 - 673 a.C.), secondo Rex Sacrorum capitolino dopo Romolo stesso, fu colui che istituì il collegio sacerdotale a seguito dei Flamines e prima di Salii e Pontefices Maximi. Vesta, antichissima Dea del Focolare Domestico avente il suo corrispettivo ellenico nella Dea Ἑστία - Hestia, seppur nella romana si conservarono aspetti ben più ancestrali della versione greca, la cui radice del teonimo proverrebbe dal sanscrito “VAS / VASA” significante “ardere, bruciare” simboleggiava la viva fiamma, posta a salvaguardia della famiglia e, per estensione, dello Stato. L'Ignis perenne dell'Aedes Vestae rappresentava Roma in tutta la sua concezione sacrale e la garanzia che vincolava la sua esistenza terrena: nelle età più antiche i villaggi, i centri abitati, le comunità politiche e cittadine percepivano se stesse come famiglie allargate e si fregiavano, protetto da un recinto sacro e inviolabile, di un focolare comune: il fuoco, elemento divino al pari dell'acqua, doveva essere perennemente alimentato al fine di evitarne lo spegnimento, poiché tale accadimento era considerato latore di sciagure e massimamente infausto. L'area sacra a esso destinata doveva sorgere al di fuori delle mura, poiché nel fuoco erano presenti principi benefici, latori di vita e calore, ma al tempo stesso aspetti negativi e pericolosi, in grado di recare morte e distruzione. Esso non doveva mai spegnersi e se accidentalmente ciò fosse accaduto sarebbe dovuto essere riacceso partendo non da un focolare ma da una nuovo fuoco, a simboleggiare il rinnovamento della sacralità, ottenuto tramite frizione: le Sacerdotesse Vestali, a seguito di una verberazione da parte del Pontifex Maximus, avrebbero dovuto scavare, sfregando ("terebrare") un pezzo di legnoda un arbor felix1, fino a quando una di essere non sarebbe riuscita a recare nell'Aedes un tizzone ardente custodito all'interno di un crivello di bronzo. Il primo fuoco era assolutamente essenziale al fine della corretta assoluzione al dettame, dato che non era "figlio" di un'altra fiamma e la sua natura era completamente legata al mondo terreno, assicurando agli uomini di Roma prosperità, stabilità e solidità del loro dominio: proprio a riguardo di ciò, l'unico luogo di culto consacrato a divinità genuinamente romane a possedere una forma tonda è proprio il tempio della Dea Vesta. Divergendo un poco dall'area geografica e culturale presa qui in esame, per comprendere pienamente tale diversità dobbiamo volgere lo sguardo alle antichissime dottrine religiose vediche, ove è chiaramente spiegata la contrapposizione tra quadrato e tondo ovverosia il simbolismo proprio tra questo mondo e quello ultraterreno: i templi quadrangolari posseggono tale forma perchè necessitano di inaugurazione e consacrazione secondo le quattro direzione sacre del Cielo, infatti i primi gesti che un Augure compiva erano volti alla delimitazione delle Regiones Caeli2; la sede di Vesta non era quadrata in quanto non necessitava di inaugurazione, dato che tutto il suo potere e la sua influenza divina si estendevano unicamente sulla terra e, proprio per tale ragione, parliamo di Aedes Vestae e non di Templum Vestae. A cagione della sua natura unica e particolare, riconosciuta unanimamente dal popolo romano, l'Aedes non poteva ospitare le riunioni del Senato3: la supposizione spuria Numa Pompilio avesse così deciso, in tempi immemori, a cagione del voler impedirne l'accesso a esponenti di sesso maschile appare, francamente, un tentativo abbastanza fiacco di sminuirne l'ancestrale valore sacrale. Conosciamo un buon numero di regole scandenti la vita religiosa interna all'Aedes: essendo la sede del focolare comune a tutta la grande famiglia romana, esso veniva solennemente spazzato una volta l'anno, il 15 di giugno; Varrone (De Lingua Latina, VI, XXXII) scrive che in quell'occasione lo stercus così scopato veniva trasportato lungo il Clivus Capitolinus, mentre Festo tenne a precisare che lo stercus4 di cui il santuario si era liberato veniva portato in un vicolo cieco ubicato circa a metà del sopracitato Clivus5, interrotto dalla Porta Stercoraria; Ovidio (Fasti, VI, 713 - 714) invece, scrisse che i purgamina Vestae finivano nella acque del Tevere, le cui correnti avrebbero così recato la sporcizia: questa consuetudine sacra non deve trarre in inganno lasciando credere che il luogo fosse lercio o trascurato, tutt'altro. Come tutti gli edifici religiosi romani, anche l'Aedes Vestae era estremamente pulito e lo "spazzare" lo stercus una volta l'anno è testimonianza di un rito profondamente arcaico, la cui valenza in epoca storica era puramente simbolica ma, al tempo stesso, peculiare all'ideologia permeante il santuario.
Atrium Vestae, la Casa delle Vergini Vestali, e il colle Palatino sullo sfondo. Via Sacra Superiore, area archeologica del Foro Romano |
L'Aedes originario venne distrutto al tempo delle turbolenze galliche causate dal potente condottiero senone Brennox nel 390 a.C. circa, venne ricostruito ma divorato dalle fiamme nel 241 e seriamente minacciato dalle stesse nel 210: Augusto ne rinnovò lo splendore ma nel 64, durante il principato di Nerone (Anzio, 15 dicembre del 37 – Roma, 9 giugno del 68) e nel 191 sotto Commodo, arse nuovamente; Settimio Severo e Caracalla lo edificarono nuovamente, fino alla definitiva chiusura sotto Teodosio nel 394 a seguito della disfatta di Eugenio. Il fatto che Domus Regia e l'Aedes Vestae a noi noti in Roma siano nell'area del Foro non ci autorizza a pensare che norme e riti che li riguardano siano posteriori all'occupazione del Foro stesso: un Rex Sacroroum, una Regia e un focolare pubblico erano sicuramente presenti sin dall'epoca del primo insediamento nell'area di Roma; quando l'area forense venne occupata in condizioni di sufficiente sicurezza e relativa stabilità socio - politica Rex e Vestali, con Regia e Focolare, vi s'installarono contestualmente trasferendovi in tal modo le loro caratteristiche peculiari e funzionali: secondo alcune autorevoli teorie, l'Aedes Vestae altro non era che, in epoche remote, il focolare stesso della residenza del Rex. Secondo il Dumézil Vesta presentava un rapporto oscuro, quasi ambiguo, con l'acqua di fonte e il fiume dato l'acqua, simbolo della vita originaria e della purezza, era presente nel culto della Dea del Focolare poiché nei suoi rituali e nelle sacre cerimonie sul Campidoglio solo purissima acqua di fonte poteva essere utilizzata: in Roma, le vestali si recavano ogni giorno molto lontano dalla loro residenza, presso la sorgente della Naiade Camèna Egeria, per attingere il sacro liquido e utilizzavano particolari precauzioni, quali deporre l'acqua in una brocca chiamata futile6, dal fondo stretto e dalla larga bocca, che mai doveva toccar terra, pena l'espiazione; la sua forma particolare non gli permetteva di restare eretto e dunque, se fosse stato posato al suolo, l'acqua al suo interno si sarebbe rovesciata. Facile immaginare il perchè l'Aedes Vestae fosse refrettaria all'acqua: quest'ultima era assolutamente necessaria per lo svolgersi delle attività quotidiane o per le necessità primarie delle sacerdotesse ma, perlomeno nei tempi più antichi, essa doveva essere attinta molto lontano dal santuario, come abbiamo accennato poco sopra (Plutarco, Numa Pompilio, XIII, II), dato che nella mentalità stringentemente pragmatica dei romani, molto terrena e assai poco metafisica, acqua e fuoco semplicemente non potevano essere l'una vicino all'altro, essendo incompatibili e pericolosi per la reciproca sopravvivenza. Altra importante attestazione circa il ruolo ricoperto dalla sacralità di Vesta nel mondo romano era la consuetudine di terminare ogni atto cerimoniale, rivolto a più Divinità, con la Dea del Focolare: Cicerone nel Natura Deorum (II, XXVII) avanza una giustificazione per la verità piuttosto artificiosa, affermando che "Con questa Dea, nella sua qualità di guardiana delle cose più interne, si conclude ogni preghiera e ogni sacrificio", nella quale troviamo un preciso parallelismo con l'ellenica Ἑστία – Hestia, la quale doveva essere la prima a esser invocata o servita durante le celebrazioni aventi carattere di molteplicità. La Vesta publica populi romani era interessata dal privilegio d'essere fondamentalmente aniconica nel suo santuario, come rammentato da Ovidio, dato che la sola fiamma crepitante era in sè più che sufficiente per rappresentarla: tale condizione fu probabilmente comune a tutte le Divinità romane, caso riscontrabili in altre religioni di matrice indoeuropea che conservarono anche in età storica caratteristiche estremamente ancestrali come quella celtica, ma Vesta in virtù della sua natura profondamente ancestrale mantenne più a lungo questo fossile cultuale, a differenza delle altre, seppur venne meno nel I secolo circa7. Altro compito sacrale di loro giurisdizione era la preparazione degli ingredienti necessari al compimento di qualunque sacrificio sui quali svettava la mola salsa8, una sorta salamoia preparata in giorni fissi che veniva mescolata a una focaccia tostata composta di farro con la quale la vittima era cosparsa prima d'essere immolata (da cui deriva il termine “Immolare”, composto da Im-molare) Tibur, così come Roma, Lavinio, Alba e Lanuvio ebbe il suo tempio di Vesta, l'Aedes Vestae, e il suo collegio sacerdotale di Vestali: s'ignora la primeva collocazione dell'ara arcaica della Dea in Tivoli, la quale fu traslata successivamente nella zona che si estende alle pendici della rupe di Castrovetere, posta sotto l'acropoli, conservante il nome di Vesta; grazie alla toponomastica locale con il termine “MMESTI”, a delle persistenze postume e all'analisi del rapporto con l'elemento idrico, il suo luogo di culto dovrebbe poter esser ubicato tra l'Acropoli e l'attuale Riserraglio, nei pressi dell'Aniene, tale da permettere alle Vestali di attingere acqua al fiume ma non in stretta propinquità con esso: le continue e disastrose piene del sacro fiume avrebbero rappresentato un pericolo fatale per la salvaguardia del Santo Fuoco della Dea. Dalle vecchie mappe catastali l'Aedes della Dea è probabilmente da collocarsi tra il lato occidentale dell'acropoli e il sopracitato Riserraglio, dunque al di fuori dell'area urbana. Come ben noto anche dalla conferma dei beni di Benedetto VII risalente all'Anno Domini 978, il termine compare due volte: nella prima con "posterula de Vesta" da collocarsi lungo il perimetro della Plazzula, orientativamente lungo l'attuale Via di Vesta, la seconda con "fossatum unde pergit aquam in Vesta", il quale da Castrovetere si gettava nel fiume Aniene; ancora nel X secolo, dunque, nella zona in oggetto era rintracciabile la memoria del nome Vesta. A ragione di quanto sopra esposto sarebbe quantomeno logico, in assenza di prove archeologiche indicanti il contrario, prestare fede alla tradizione che, per almeno un millennio, ha pedissequamente indicato con il teonimo di Vesta una zona chiaramente extraurbana. Come accennato in precedenza le fonti ci tramandano di come l'Aedes Vestae sorgesse in Roma in pieno Foro essendo però posto in origine fuori dalla cinta fortificata: l'antica Tibur, probabilmente, pur nel suo periodo di espansionismo urbano non si trovò mai a valicare le propria mura, per cui è plausibile supporre che il tempio della Dea non si dovette più muovere dall'area che ancora ne conserva la memoria. Una conferma di ciò, per quanto vada ovviamente interpretata con tutta la cautela del caso, proviene dalla scritto di Giovanni De' Conti Bardi il quale al termine del XVI secolo fece un inequivocabile riferimento ai due templi sovrastanti l'acropoli, aggiungendo che:
“[....] più a basso nelle medesima costa era il tempio della Dea Vesta, che per esser tutto in rovina non se ne rende ragione”
Il sacello, così come a Roma, dovette conservare la forma tonda, rievocante le arcaiche capanne pastorali dove il fuoco ardeva a protezione delle energie negative personificate dalla notte e simbolo del potere divino manifestatosi in terra. Le novizie venivano scelte dal Pontifex Maximus, capo religioso della comunità, in un'età compresa tra i 6 e i 10 anni, a seguito di una severa selezione: dovevano avere ancora padre e madre in vita, non presentare difetti di pronuncia, scarsezza di udito, uno dei due genitori non doveva essere schiavo o praticamente mestieri vili e dovevano giurare di servire il culto per 30 anni, conservando intatta la loro purezza: poiché non poteva esser uccisa da mani umane essendo una proprietà divina a tutti gli effetti, una Vestale scoperta non più vergine o responsabile dello spegnimento del fuoco incorreva in orribili castighi di morte, vestita a lutto e trasportata in una lettiga funebre fino al Campus Sceleratus, venendo fustigata, sepolta viva con una parca provvista di pane, latte, acqua e olio, finendo per morire d'inedia e subendo la damnatio memoriae; il suo amante, invece, era vittima di atroci supplizi.
Statua di una Vestale, Museo di Palazzo Braschi, Roma |
La storiografia ci tramanda i nomi di alcune di loro, che colte in flagranza di sacrilegio vennero destinate al castigo supremo: Oppia, Orbilia, Minucia, Claudia e Primigenia. Il Pontifex sceglieva le candidate seguendo il rito della captio, un rituale di tipo paranuziale che imitava il matrimonio, e pronunciando a seguito la frase
“Ego te amata capio”
traducibile con
“Io ti prendo [con me], [mia] amata”
A lui erano sottoposte come delle mogli e, in caso di mancanze, errori o trasgressioni, avrebbero dovuto rispondere alla sua autorità. Esse vivevano nell'area collegiale a loro preposta, sotto la guida della Virgo Vestalis Maxima, in numero di 6 scelte in un gruppo di 20 e al momento di prendere i voti i loro capelli venivano tagliati e appesi, consacrandoli, a un albero di loto: la loro residenza sarebbe stata comune, l'Atrium Vestae, ubicata nelle vicinanze dell'area templare; durante i primi dieci anni di servizio avrebbero imparato i loro compiti come sacerdotesse, nei successivi dieci si sarebbero dedicate all'offizio del culto e negli ultimi dieci avrebbero insegnato a loro volto il culto alle novizie. Pontefici e Vestali, ma non i quindi Flamine Maiores e Minores, crebbero di numero nel corso della millenaria storia di Roma dato che i Pontefices passarono da tre a nove, a quindici e infine a sedici9 dato che i servigi da loro garantiti aumentarono esponenzialmente ma questa ragione non può esser applicata per comprendere la ratio del medesimo fenomeno con le Vestali e dunque non possiamo comprendere il perchè da quattro divennero sei. Come per altri sacerdozi, nei tempi più antichi la Vestale Maxima doveva esser scelta, al tempo della morte della precedente, tra la consorella più anziana in quel momento e la durata della sua carica era per tutta la vita: questo tipo di successione, forse anche per evitare pericolosi disegni che con la natura sacrale del ruolo avevano ben poco a che spartire, venne limitata con alcune restrinzioni decretate nella Lex Papia: il Pontifex Maximus avrebbe tirato a sorte in una rosa di venti nomi papabili. Il voto di castità e purezza, nonché la dedizione assoluta al culto, erano sicuramente obblighi impegnativi da mantenere ma le sacerdotesse della Dea godevano anche di particolari privilegi, quali una ricca dote donatagli dallo Stato al momento dell'entrata nel collegio, la facoltà di poter disporre liberamente dei propri beni, il grande prestigio e rispetto che le alte cariche amministrative e religiose nutrivano nei loro riguardi, poter testimoniare venendo esentate dall'obbligo di giuramento, la possibilità di utilizzare le carrozze ("plostreis") per i loro spostamenti durante i Sacra Publica10 (de facto, un privilegio riservato a pochissime donne), la perenne scorta dei Lictores (Plutarco, Vita di Numa Pompilio, X, V) e, a riprova della loro natura percepita quasi come fosse divina, persino un Console avrebbe dovuto cedere il passo in loro presenza, un condannato a morte avrebbe ottenuto la grazia se avesse incontrato una Vestale sul suo cammino e qualunque offesa a loro mossa sarebbe stata punita con la pena capitale. Al termine del sacerdozio erano libere dal voto e potevano anche maritarsi, per quanto ciò fosse considerato di cattivo auspicio e fuori luogo, tagliando i capelli e lasciandoli nel collegio come segno di devozione, secondo il rituale dell'exauguratio. Durante il sacerdozio indossavano abiti di candida lana composti da una sottoveste denominata stola, un mantello detto pallium e un velo, il suffibulum, chiuso sul davanti da una fibula, il quale lasciava intravedere solo il volto, la fronte e l'attaccatura dei capelli: essi erano acconciati ritualmente, con seni crines (sei trecce) avvolte nella bianca infula a sua volta adornata nella vitta, un nastro rosso: tale pettinatura, di origini arcaiche e non determinabili, era esibita dalle donne romane solo durante il giorno del loro matrimonio mentre era quotidiana consuetudine per le Vestali, essendo la dimostrazione del loro sposalizio divino con la Dea Vesta. La santità dei loro corpi è dimostrata anche dal fatto che, una volta decedute, potevano esser seppellite all'interno del Pomerium11 fa testimonianza che la sacertà della loro esistenza era così elevata tale che neanche i loro resti mortali (inumati o sottoposti a incinerazione) erano da considerarsi nefas, ovverosia nefasti.
Rilievo di Vestale con in evidenza la tipica acconciatura delle Vergini Sacerdotesse, i Seni Crines; età Adrianea (117 – 138), Antiquarium del Palatino, Roma; |
Come accennato in precedenza ogni 1° marzo il Sacro Fuoco di Vesta, simbolo stesso dell'ordinamento statale e memoria ancestrale degli arcaici nuclei pastorali ove la leggenda di Roma stessa vide i suoi primi vagiti, veniva rinnovato accedendo il nuovo tizzone con le fiamme del precedente, il quale era contestualmente estinto attraverso purissime acque, poiché lo spegnimento completo sarebbe stato latore di sinistri e oscuri presagi: tale rituale era definito Ignis Vestae Renovatio e si otteneva, sfregando, pezzi di legno di alberi rientranti nella categoria degli arbores felices, ovverosia sughero, faggio, quercia e leccio (notare che la totalità delle specie arboree elencate erano, e in parte lo sono ancora oggi, estremamente abbondanti nei boschi e nei massicci montuosi che circondano Tivoli) o, prestando fede al grande sapiente Πλούταρχος - Plutarco da Cheronea (45-127 dell'era cristiana) sfruttando il calore generato dalla rifrazione dei raggi solari incanalati nello scaphium, una sorta di vaso conico in rame. Una volta l'anno, con elevata probabilità proprio il 1° di marzo, il collegio delle Vergini si recava di fronte al Rex pronunciando questa enigmatica domanda:
"Vigilasne, Rex? Vigila."12
L'Ignis Perpetuus era in realtà spento e ritualmente riacceso ogni 1°marzo (Ovidio, Fasti, III, CXLII – CXLVI) nel momento in cui i vetusti lauri venivano sostituiti da fronde novelle nella Regia, nella Curie e nelle case dei Flamines (Macrobio, Saturnalia, I, XII, VI): l'importanza acquisita dal valore intrinseco del Fuoco Collettivo crebbe nel corso dei secoli, di pari passo con le annessioni territoriali e politiche che Roma andava via via conquistando e così l'Aedes Vestae divenne una sorta di deposito per altri reliquie, i Pignora Imperii o Signa Fatalia già analizzati nel capitolo dedicato alle Origini del 1° Aprile e alla figura della coppia Cibele & Attis, custoditi nell'area più interna del penus. Essi erano in numero di sette13 e più della metà dei quali erano stati "forniti" dall'Asia e dalla Grecia: dalla tradizione troiana provenivano infatti il Palladio, il velo di Iliona figlia maggiore del sovrano d'Ilio Priamo e lo scettro regale di quest'ultimo; possiamo certamente affermare che in età antica la collezione fu meno vasta e prestigiosa e il concetto di fertilità e prosperità dello Stato era materializzata in un'effige di un membro itifallico, come sostenuto da Plinio nella Naturalis Historia (XXVIII, XXXIX). Durante il periodo regio dovevano di per certo contribuire alla tutela della figura del sovrano grazie a una certa qual sorta di protezione mistica derivante dal loro ruolo di custodi delle Sante Fiamme, di cui il Rex era probabilmente l'incarnazione: lo spegnimento del fuoco avrebbe portato disgrazia forse interpretabile come la morte del Re stesso, essendo quest'ultimo il garante dell'ordine, delle leggi e rappresentante della volontà divina fatta uomo. More Solito uno stimolante parallelismo ci proviene dalla tradizione celtica, questa volta di provenienza gallese, nella quale incontriamo il leggendario sovrano Mat fab Mathonwy (Mabinogion, raccolta di testi manoscritti gallesi narranti fatti ed eventi risalente al periodo Altomedievale, echi mitologici e ancestrali tradizoni celtico – insulari inquadrabili all'età del Ferro, quest'ultime aventi similitudini con quanto noto in Irlanda) al quale era impossibile vivere, al di fuori delle spedizioni militari e quindi aventi carattere prettamente bellico, se non fosse stata soddisfatta la conditio sine qua non di tener poggiati i piedi sul grembo di una fanciulla vergine. Il particolare vincolo tra le Vestali e il Rex è dimostrato proprio dal titolo che a volte veniva associato alla "dimora" in cui esse abitavano, definita "reale", seppur in età repubblicana (come è ovvio che fosse) questo rapporto si era lentamente attenuato e diluito, con la sostituzione graduale del Rex in favore di tutto il Popolo Romano, alla cui salvaguardia e tutela le Vestali erano oramai al servizio.
Fonti Bibliografiche:
- Franco Sciarretta, “Viaggio a Tivoli”, 2001, Tiburis Artistica edizioni;
- Franco Sciarretta, “Il complesso monumentale detto già di Cossinia Vestale di Tivoli”, Quaderni di Archeologia e Cultura Classica n°6, 2017, Tiburis Artistica edizioni;
- Fulvio Cairoli Giuliani, “Carta Archeologica di Tivoli n°77”, 1966-1970;
- Fulvio Cairoli Giuliani, “Forma Italiae, Tibur pars Altera”, pp. 20 - 32, Roma 1966 , Edizioni De Luca;
- Aulo Gellio, Noctes Atticae;
- Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros;
- Marco Terenzio Varrone, Antiquitates rerum humanarum et divinarum;
- Gaio Valerio Flacco, Argonautica;
- Gaio Giulio Solino, Collectanea rerum memorabilium;
- Plutarco, Βίοι Παράλληλοι – Vite Parallele;
- Marco Porcio Catone, Origines;
- Corpus Inscriptionum Latinarum, CCVI, pp. 121, 1, 62 – 65;
- Giovanni De' Conti Bardi, Descrizione di Tivoli e Della Imperial Villa Adriana - XVI secolo-Edizione a cura di D.Moreni, Firenze, 1825:
- Isabella Abbiati, Grazia Soldati (a cura di), I Mabinogion, Roma, Venexia, 2011;
Note:
1Vedremo al termine di questo articolo quali fossero gli arbores felices utili all'espletamento di questo importantissimo rituale.
2Pars Antica, Postica, Dextra e Sinistra.
3Un Senatoconsultum, per essere iustum, doveva necessariamente esser proclamato in loco per augurem constituto, quod templum appellaretur (Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIV, VII, VII)
4Il significato della parola stercus è ben preciso: inizialmente si è pensato fosse da mettersi in relazione con ceneri e braci del focolare ma la sua valenza non è mai stata altro che "escrementi di animale" e "letame". Trattasi dunque di un autentico fossile linguistico, risalente all'età in cui una società prettamente pastorale viveva in capanne doveva ripulire dallo sterco del bestiame la sede del sacro fuoco collettivo.
5"In angiportum medium fere clivi Capitolinus"
6" Si chiama futile un vaso dalla bocca larga e dal fondo stretto, di cui ci si serviva nel culto di Vesta; l'acqua attinta per tali ritualità non deve esser posata a terra e se ciò accadesse sarebbe necessario espiare: a tale scopo è stato creato questo vaso che non può stare in piedi e se viene poggiato a terra, si svuota" (Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, XI, 339)
7Cicerone, infatti, afferma che il sangue dell'anziano Pontifex Q. Muzio Scevola schizzò sulla statua della Dea
8 Valerio Flacco così la descrisse: "Sale non raffinato sminuzzato nel mortaio, versato in un vaso di terra, poi coperto di gesso e cotto nel forno; in seguito le Vergini Vestali lo tagliano con una sega di ferro e lo gettano nella parte esterna del penus dell'Aedes Vestae. Esse vi aggiungono poi acqua sorgiva, o comunque non proveniente da acquedotto, e utilizzano il composto così preparato nei sacrifici." A loro era parimenti deputata la preparazione del suffimen per i Parilia: si celebravano il 21 aprile, e le ceneri dei vitelli estratti dalle fordae, custodite per sei giorni dale Vestali, costituiva uno dei tre ingredienti del suffimen, assieme a sangue essiccato di cavallo e glume di fave.
9Rispettivamente nella Lex Ogulnia (CCC), Lex Cornelia (LXXXII) e Lex Iulia (XLVI).
10Privilegio garantito alle sole Vestali, al Rex e ai Flamine Maiores secondo quanto stabilito nella Lex Iulia Municipalis (CIL I, CCVI, pp. 121, 1, 62 - 65)
11 Il Pomerium rappresentava l'inviolabile e sacro confine della città di Roma, area consacrata agli Dei ove venivano confinati spettri, larve, fantasmi, spiriti causanti fame, guerra, pestilenze e malattie. Nel Pomerium non si poteva passare né costruire: per praticità, e per rendere più agevole l'osservanza della lunga serie di prescrizioni da rispettare, tale confine era fatto coincidere con la base di fondazione delle mura urbane; tale confine, nella millenaria storia di Roma, venne ovviamente ampliato più volte. La sua etimologia, per quanto ancora discussa, può forse esser ricondotta al termine "post-moerium", ossia “Al di fuori delle mura”, da cui deriverebbe quindi un'arcaica forma quale Pomoerium. Trattazioni più approfondite saranno ad esso riservate in futuri saggi.
12 Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, X, CCXVIII
13Servio, De Commentarii in Vergilii Aeneidos Libros VII, CLXXXVII