Benvenuti nel sito ufficiale dell'A.P.S. ArcheoTibur di Tivoli (RM).NUOVO ANNALES VOL. III ANNO IV DISPONIBILE

Culti & Dei nell'Antica Tibur – Le Sibille ed Albunea, Signora delle Acque Rombanti


A cura del dott. Stefano Del Priore.


La Sibilla Albunea, qui assimilata a Ino-Leucotea con al proprio
 fianco il  figlioletto Melicerte e rappresentante il fiume Albuneo, 
uno dei Tre Sacri Fiumi dell'Antica Tibur; 
Tivoli, Fontana dell'Ovato, Villa d'Este, 1567. Disegno di Pirro
 Ligorio, realizzazione di Curzio Maccarone,
 Giovanni Malanca, Giovanni Battista della Porta e
 Giglio Della Vellitta.




Nel prossimo, e ultimo, capitolo di questo libro verrà posta in rilievo l'importanza che ebbero a ricoprire, in un determinato quanto drammatico periodo della storia romana, i cosiddetti Libri Sibillini1, raccolta di leggendari testi oracolari vergati in lingua greco al cui interno erano racchiuse le volontà degli Dei: per meglio comprendere l'argomento, e inquadrarne la valenza specifica nel mondo ellenico – latino, si rende dunque necessaria un'approfondita analisi circa la misteriosa figura delle Σίβυλλα – Sibille. La psicologia religiosa romana ha sempre mostrato, nei vari campi analizzati, un pragmatismo spiccato, un'esigenza volta alla ricerca dell'efficacia dell'azione, il che rappresenta sicuramente una delle sue caratteristiche fondanti e tutto ciò si rivelava chiaramente nel tentantivo d'interpretare i Signa inviati dagli Dei sulla terra: la mantica greca, invece, era il frutto della naturale "ossessione" ellenica legata ai vari problemi della divinazione. Nel corso dei secoli le varie scuole filosofiche si divisero alla ricerca della risposta circa il quesito se i vari procedimenti divinatori potessero effettivamente consentire di rivelare il futuro o se, viceversa, non si trattasse piuttosto di superstizioni particolarmente in voga tra le gente priva di reali conoscenze e fondamentalmente prive di alcun fondamento: la scuola platonica credeva valida l'estasi profetica, mentre Ἀριστοτέλης - Aristotele (Stagira, 384 a.C. o 383 a.C. – Calcide, 322 a.C.) era piuttosto scettico al riguardo, mentre Ἐπίκουρος – Epicuro ("alleato" o "compagno / soccorritore", Samo, 10 febbraio 341 a.C. – Atene, 270 a.C.) la ripudiava completamente ritenendo l'Universo fondato su principi immutabili e già stabiliti. Al di là delle vari fazioni di pensiero, la divinazione ebbe a conoscere in Ellade successo sempre crescente, dato che indovini, oracoli, profeti, sacerdotesse e Sibille continuarono ad esercitare un ruolo fondamentale nei rapporti tra le varie πόλεις – Pòleis, soprattutto pensando a quale nomea , importanza e peso politico ebbe per secoli l'Oracolo Delfico di Apollo; per i Romani, invece, era meno importante venire a conoscenza di un avvenimento più o meno remoto, dove era era preferibile cercare il consiglio Divino a riguardo di un'azione da intraprendere e rispetto alla quale fosse possibile conservare la propria libertà d'azione, dunque una concezione certamente meno fatalista di quella greca e maggiormente improntata su di un concetto mobile di realismo. Nelle terre italiche vi era una concentrazione ben minore, rispetto a quelle greche, di Divinità che si esprimevano attraverso la voce dei propri sacerdoti e forse fu anche questo aspetto storico che lasciò i Romani piuttosto indifferenti nei confronti della divinazione, alla quale preferirono decisamente l'interpretazione dei presagi che si offrivano ovunque intorno a loro: nel corso della loro storia gli abitanti dell'Urbe hanno sempre mostrato un atteggiamento al limite della diffidenza nei riguardi del della profezia individuale e l'ispirazione del singolo da parte della Divinità era percepita come accadimento inconsueto e, in un certo qual modo, pericoloso per lo Stato, vedendo probabilmente in un'eccessiva popolarità delle sedi oracolari autonome una minaccia verso il potere centrale. Proprio in virtù di questo Modus Cogitandi, in Roma l'attività oracolare è sempre stata strettamente sorvegliata e oggetto di severo controllo e significativo in tal senso è il caso dei Libri Sibillini, dai segreti dei quali si riteneva dipendessero la sorte e l'esistenza stessa di Roma che, come esplicato nella prima nota d'approfondimento di questo capitolo, erano gelosamente custoditi e consultati solamente in caso di importanti e sconvolgenti prodigia. La divinazione intrinsecamente Romana era quella che si ricava dai segni, i quali accorrevano numerosissimi nel mondo mortale, poichè nella loro mentalità gli Dei inviavano costantemente segni della loro presenza e la quotidianità rappresentava il palcoscenico dei loro continui interventi: nonostante una simile influenza e importanza deputate ai segni rivelatori, il cittadino capitolino riuscì maggiormente di altri a conservare la propria libertà d'azione, piegando letteralmente il proprio credo religioso in favore della propria autonomia decisionale. Le Sibille, però, rappresentarono un caso a parte in questa rigorosa e materiale linea di pensiero tanto originale quanto rara, nel Mondo Antico. Con tale termine ci si riferiva a tutta la categoria delle profetesse, solitamente donne vergini e giovani seppur a volte indicate come vetuste e decrepite, che operavano attività mantica in ciò che al giorno d'oggi definiremmo uno stato di trance probabilmente indotto dall'assunzione, o dall'inalazione, di sostanze psicotrope; i loro responsi erano oggetto di pubblica declamazione ed erano dispersi al volere del vento tale che la loro interpretazione fosse sempre piuttosto enigmatica e ambigua, lasciando quindi all'immaginazione personale dei questuanti il responso emanato: il persistere della loro presenza fornì spiegazioni, nel mondo greco – romano, al perdurare di arcani i quali non trovavano adeguate risposte nei riti e nei culti, fossero essi notturni o diurni poco importa, officiati nei riguardi delle Divinità. Il grande filosofo Πλάτων – Platone (Atene, 428 / 427 – Atene, 348 / 347) sembrò conoscere una sola, mentre successivamente il loro numero aumentò fino a computarne una trentina, per quanto Varrone ne elencò "solamente" dieci disposte in rigoroso ordine cronologico di vetustà: Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia e Tiburtina. Di un certo rilievo e interesse è una delle definzioni connotanti la figura della Sibilla nel Mondo Antico, che ne denota una carattere similare a quello della delfica sacerdotessa di Ἀπόλλων – Apollo: "Sibylla […] dicitur omnis puella cuius pectus numen recipit"2. Le Sibilla, così come la sacerdotessa Pitia in Delfi, era intesa come vergine ma ἱερόδουλος3 - ierodula, sposa del Dio Ἀπόλλων - Apollo in quanto nume tutelare delle profezie e dei vaticini ed ella dunque si univa carnalmente al Dio, o a un suo rappresentante in terra, e il frutto della loro unione era definito πνεῦμα - pneûma generatore dell'oracolo, del quale si liberava ogni volta comunicandolo ai profani: ciò ovviamente non esclude la conditio sine qua non della verginità, poichè il Dio tutelare non avrebbe potuto scegliere per sposa alcuna donna che non fosse stata una vergine4; dunque la profezia sorgeva in seno a un atto di Ἔρως - Eros inteso come irrefrenabile forza divina in grado di rivelare, tramite condizione estatica di vaticinio, le sorti del mondo a venire. A differenza delle Pitie, il cui nome derivava dall' Ἀπόλλων – Apollo Pitico che aveva ucciso il Serpente Πύθων5 – Pitone e del quale aveva preso il posto a protezione del Santuario di Delfi divenuto suo centro oracolare e sede dell'ὀμφαλός - omphalos6, le quali oracolavano ex tempore e i cui vaticini non erano vergati nel momento stesso dell'annunciazione nel Santuario, le Sibille riportavano i loro responsi in forma scritta, solitamente di libri, e, altra differenza rimarchevole, durante i vaticini parlavano in prima persona, dove le Pitie erano dei semplici canali nei quali veniva veicolata la voce del Dio Ἀπόλλων - Apollo ovverosia colui che materialmente pronunciava la profezia: da sottolineare ulteriormente la diversità della loro natura anche paragonandole alle leggendarie eroine della Mitologia quali Cassandra7, non legate ad alcun luogo fisico e profetizzanti ex abrupto senza esser interpellate. Le Sibille, sin dall'antichità, seppur liminarmente connesse in qualche modo alla sfera della mantica apolinnea, presentano comunque dei caratteri di autonomia nella rivelazione che le rendono figure differenti dalle sacerdotesse del Dio del Sole e della Luce. Definita da Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (Cartagine, 155 – 230 d.C. circa) "Sybilla veri Dei vera Vates", essa prorompeva nei suoi vaticini laddove urgesse la possessione divina e i suoi presagi erano sovente drammatici, tragici, oscuri, latori di punizioni, sciagure e castighi tra i quali ricordiamo il terremoto di Rodi, l'eruzione del Vesuvio, la morte di un Imperatore e conflitti bellici di particolare sanguinosità. La Sibilla, nella tradizione ellenicoromana, era la portavoce invasata della Divinità e rappresentava il mesocosmo tra il Divino macrocosmo e l'umano microcosmo, profetizzando senza regole né vincoli, solo quando essa fosse stata preda di parole rivelatrici: la tradizione oracolare sibillina fu fondamentalmente di tipo letterario, composta di un corpus di testi scritti in forma poetica rifacentisi alla tradizione versifica dei λογία - Logia. Testimonianze delle Sibille, già presenti nella Mitologia Greca, sono note a partire dal VI – IV secolo antecedenti l'era cristiana, grazie a Ἡράκλειτος – Eraclito di Efeso (VI – V secolo), ΕὐριπίδηςEuripide (V secolo), Ἀριστοφάνης - Aristofane (V – IV) e Πλάτων – Platone (V - IV) e il loro numero nelle tradizioni locali crebbe con il diffondersi della cultura ellenica di matrice ionica nel Mediterraneo; da un ampio brano di Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio8, notoriamente interessato al tema delle rivelazioni sibilline da lui ritenute come ispirate dall'Unico Dio e rivolta a tutte le Nazioni e le Genti dela Terra, rifacentisi alla lista compilata da Varrone nel I - II secolo dell'era cristiana, si ottiene il computo di 10 Sibille collocate in quelli che erano importanti centri socio - politici del mondo ellenico – romano. Di seguito l'elenco completo in ordine cronologico e la descrizione di quelle che furono le 10 più celebri profetesse dell'Antichità:


  1. Sibilla Persica, proveniente dalla Persia, successivamente identificata con la Caldea.

  2. Sibilla Libica, risiedente in Libia, menzionata da Euripide nel prologo della Lamia e considerata da Pausania la più vetusta in assoluto.

  3. Sibilla Delfica, menzionata dal filosofo e matematico Χρύσιππος - Crisippo di Soli (Soli, 281 a.C. / 277 a.C. – Atene, 208 a.C. / 204 a.C.) nel testo "sulla Divinazione" e una tradizione la identifica con Erofile da Eritre; la notizia sembrerebbe confermata da Eraclide Pontico, il quale riferisce di una Sibilla Frigia di nome Artemis operante in Delfi. Πλούταρχος - Plutarco invece sostiene che ella giunse dall'ἙλικώνElicona e che fu proprio lei a predirre agli Achei in partenza per Ilio che questa città sarebbe stata distrutta e che Omero avrebbe tratto ispirazione dai suoi oracoli.

  4. Sibilla Cimmeria, sita in Italia presso i Cimmeri attorno al Lago Averno, di cui parlano Gneo Nevio nel Bellum Poenicum e Lucio Calpurnio Pisone Frugi negli Annales.

  5. Sibilla Eritrea, che Apollodoro di Eritre afferma d'essere sua compatriota.

  6. Sibilla Samia, menzionata da Ἐρατοσθένης - Eratostene (Cirene, 276 a.C. - Alessandria d''Egitto, 194 a.C.), il quale afferma d'aver scoperto uno dei suoi antichi scritti presso gli Annales dei Sami.

  7. Sibilla Cumana, anch'essa localizzata in Italia presso Cumae, detta anche Erofile, Demofile o Amaltea, le cui testimonianze provengono dallo scrittore, poeta e drammaturgo greco di IV secolo Λυκόφρων – Licofrone di Calcide (Calcide, 330 a.C. circa – IV secolo a.C.) e dal già menzionato Eraclito. Fu la Sibilla Cumana a recare i cosiddetti IX Libri Sibillini al Rex Romano Tarquinio il Superbo, come abbiamo avuto modo di approfondire in questo capitolo. Sembra che vaticinasse in esametri poi trascritti su foglie di palma poi disperse trai le correnti d'aria che animavano l'antro ove risiedeva: la sua importanza nel mondo italico era pari a quella della Pitia nel Santuario delfico di Apollo in Ellade.

  8. Sibilla Ellespontina, così chiamata poichè nacque nella campagna troiana della cittadina di Marpesso, nei pressi di Gerghitium: Eraclide Pontico scrisse che ella visse al tempo del grande politico, poeta e giurista ateniese Σόλων – Solone (Atene, 638 a.C. – 558 a.C.) e di · KU · U · RU · U · SHA, traslitterato come Kuruš e a noi noto come Ciro II il Grande, Imperatore di Persia (Anshan, 590 a.C. – Iassarte, 530 a.C.).

  9. Sibilla Frigia, greca di origine, più volte accostata alla sopramenzionata Marpessa e chiamata anche Cassandra o Taraxandra.

  10. Sibilla Tiburtina, terza Sibilla italiana e chiamata Albunea, la Profetessa di Tibur adorata come Dea attorno delle tonanti cascate del Sacro Fiume Aniene, nei cui gorghi fu rinvenuto il suo xoan galleggiante che stringeva in una mano uno dei Libri Sibillini. Sarà oggetto di approfondita analisi in questa medesima sede.


Attestabile solo in epoca medievale è la Sibilla Appenninica, nota anche come "Oracolo di Norcia", legata alla Grotta della Sibilla sita sull'omonimo monte, presso la catena montuosa dei Monti Sibillini tra i comuni di Arquata del Tronto e Montemonaco. Nel vasto computo di queste figure leggendarie possediamo un nutrito elenco della cui veridicità non possiamo esser certi, soprattutto a seguito della forte manipolazione in chiave cristologica alla quale la figura delle Sibille fu sottoposte durante il periodo medievale, che riporto per dovere di completezza assieme alla supposta profezia rivelatrice circa la nascita del Cristo:


- Sibille Orientali


  • Sibilla Babilonese

  • Sibilla Caldea

  • Sibilla Ebraica

  • Sibilla Egizia

  • Sibilla Libica o Sibilla Libia: Erit Statera Cunctorum

  • Sibilla Persica o Sibilla Persiana: Erit Salus Gentium



- Sibille Greco – Ioniche


  • Sibilla Claria o Sibilla di Klaros

  • Sibilla Colofonia

  • Sibilla Cumea

  • Sibilla Delfica o Sibilla di Delfi: Absque Matris Coitu Ex Vergine Eius

  • Sibilla Efesia o Sibilla di Efeso

  • Sibilla Ellespontica o Sibilla Ellespontiaca: Prospexit Deus Humiles Suos

  • Sibilla Eritrea o Sibilla di Erythre: Iacebit in Feno Agnus

  • Sibilla Euboica o Sibilla Eubea

  • Sibilla Frigia: Ex Olimpo Excelsus Veniet

  • Sibilla Gergitica o Sibilla di Gergis

  • Sibilla Macedone

  • Sibilla Marpessia o Sibilla di Marpesso

  • Sibilla Samia o Sibilla di Samo: Laudate Eum In Atriis Celorum

  • Sibilla Sardica o Sibilla di Sardi

  • Sibilla Tesprozia

  • Sibilla Tessalica

  • Sibilla Troiana



- Sibille greco – italiche


  • Sibilla Cimmeria, anche conosciuta come Emeria o Chimica: Et Lac de Celo Missum

  • Sibilla Cumana o Sibilla di Cuma: Surget Gens Aurea Mundo

  • Sibilla Italica

  • Sibilla Lilibetana

  • Sibilla Sicula o Sibilla Siciliana

  • Sibilla Tiburtina: Nascetur Christus in Bethlehem



- Sibille Medievali


  • Sibilla Agrippina o Sibilla Agrippa: Invisibile Verbum Palpabitur

  • Sibilla Appenninica o Sibilla Picena o Sibilla di Norcia

  • Sibilla Europea: Regnabit in Paupertate

  • Sibilla Lucana

  • Sibilla Rodia o Sibilla di Rodi



Circa quest'ultimo elenco non si può escludere che differenti epiteti siano riferibili alla medesima figura e urante il periodo medievale, a partire dall'XI secolo, le Sibille hanno rappresentato una fonte d'ispirazione estremmente prolifica per l'arte cristiana nelle sue molteplici espressioni pittoriche, scultoree e incisorie poichè vennero percepite come la controparte femminile dei Grandi Profeti maschili. Il grande archeologo, topografo e ingegnere Rodolfo Lanciani (Roma, 2 gennaio 1845 – Roma, 21 maggio 1929) così si espresse sull'argomento:


"La credenza che le Sibille avessero profetizzato l'avvento del Cristo le rese popolari. La chiesa degli Aracoeli è particolarmente associata a loro, poichè la tradizione rimanda l'origine del suo nome a un altare – ARA PRIMOGENITI DEI – elevato al Figlio di Dio dall'Imperatore Augusto, che era stato avvertito del suo avvento dai libri della Sibilla. Per tale motivo le figure di Augusto e della Tiburtina Sibilla sono dipinte su entrambi i lati dell'arco dell'altare maggiore. Hanno ricevuto, in realtà, il posto d'onore in questa chiesa e precedentemente, quando a Natale il Presepio era esposto nella seconda cappella a sinistra, occupavano la prima fila, con la Sibilla che indicava ad Augusto la Vergine e il Bambino che appariva in Cielo avvolto in un alone luminoso. Le due figure, scolpite in legno, risultano ora scomparse; furono date via o vendute, venti o trenta anni fa, quando un nuovo gruppo contante 25 immagini fu offerto al Presepio dal Principe Alexander di Torlonia. I Profeti e le Sibille appaiono anche nei monumenti del Rinascimento: sono state modellate dalla Porta nella casa Santa di Loretto, dipinte da Michelangelo nella Cappella Sistina, da Raffaello in Santa Maria della Pace, dal Pinturicchio negli appartamenti Borgia, incise da Baccio Baldini, coevo di Sandro Botticelli, e graffite da Matteo di Giovanni sul pavimento del Duomo di Siena."





Pavimento del Duomo di Siena – Sibilla Tiburtina9. Disegno originale di Benvenuto di Giovanni di Meo del Guasta, 1483



Per quanto concerne le testimonianze artistiche nella città di Tivoli, non possiamo fare a meno di menzionare il ciclo degli affreschi presenti nel presbiterio della Chiesa di San Giovanni Evangelista all'interno dell'omonimo Ospedale, fino al secolo XV dedicata a San Cristoforo: essi rappresentano, dal punto di vista artistico, il più notevole ciclo di affreschi presenti nella città e vi dedicheremo un approfondimento in virtù di uno dei soggetti rappresentati, quello delle Sibille. Nella parete di destra del presbiterio, precisamente nella zona del sottarco, oltre l'affresco di San Domenico è presente quello delle XII Sibille, le quali partendo da sinistra a salire sono AGRIPPA- TIBURTINACUMANASAMIAERITREACUMAE, mentre scendendo verso destra abbiamo PERSICALIBICADELFICAHELLESPONTINAPHRIGIA ed EUROPA: le immagini sono racchiuse in un tondo e delimitate da un anello candido con l'espressione SIC AIT, riferibile alla profezia cristologica vaticinata da ciascuna, posta in basso sotto ogni ritratto. Il termine "Sibilla" è riportato interamente per nove volte, mentre risulta abbreviato in "SIB" per l'Eritrea, la Samia e la Cumana: le profezie solitamente hanno principio nel medaglione, proseguendo al di sotto di esso, evidenziando quanto riportato dal cartiglio sorretto dalle stesse Sibille:


  • AGRIPPA: INVISIBILE – VERBVM – PALPABITVR – GENERABITVR – / - VT – RADIX – SICCABITVR – FOLIVM - / – NON APPAREBIT – VENVSTAS

(Il Verbo Invisibile diverrà Palpabile, genererà come una radice, si essiccherà al pari di una foglia, la bellezza non apparirà)


  • TIBVRTINA: NASCETVR - XRISTUS – IN – BETLEM – PARIET – SVB – FINIBVS – ICNLITA - / VIRGO QVATAMEN – EX – ORIS - / - ADVENA NAZAREIS

("Cristo nascerà in Betlemme, l'Illustre Vergine partorirà presso i confini come straniera dalle regioni nazarene")


  • CVMANA: ANGIUS (=MAGNVS) – AB – INTEGRO...SECVLORVM – NASCETVR – ORDO

    ("Una nuova serie di secoli nascerà nuovamente", confrontare con Publio Virgilio Marone, Ecloga IV, vv IV - X)



  • SAMIA: ECCE – VENIET – DIVES – ET – NASCETVR - DE - PAVPERCVLA – ET – BESTIE – TERRARVM – ADORABVNT – EVM – ET – CLAMABVNT – ET – DICENT – LAVDATE – EVM – IN – ATRIIS – CELORVM

("Ecco il Signore verrà e nascerà da un poveretta. E le fiere della Terra lo adoreranno ed esclameranno: lodatelo negli Atri dei Cieli")



  • ERITREA: ECCE – DEO – GENITVS / CELSO – DEMISSVS – OLIMPO / HEBRAEAE – PASTVS – VIRGINIS – VBERIBVS

    ("Ecco nato da Dio, disceso dall'alto dell'Olimpo, nutrito dai seni della Vergine Ebrea)



  • CVMAEA: REX – NOVVS – IN – TERRIS - / REGES – CVI – DONA – FERIENTES - / - SVMMITTENT - SESE – PROXIMA – SECLA – DABVNT

    ("Un nuovo Re sulle Terre a cui i Re si sottometteranno recando doni e i prossimi secoli daranno)


  • PERZICA: ECCE – BESTIA – CONC / VLCABE – RIS – ET – GIGNETVR – DOMINVS – IN – ORBE – TERRARVM – ET - / - GREMIVM - VIRGINIS – ERIT – SALVS - / - GENITVM – ET – PEDES – EIVS – IN – VALETV - / DINE – HOMNIVM (=HOMINVM)

    ("Ecco, o bestia, sarai schiacciata e il Signore sarà generato sulla Terra e il ventre della Vergine sarà la salvezza delle genti e i suoi piedi si muoveranno per la salvezza degli uomini")



  • LIBICA: ECCE - VENIET – DIES – ET – ILLV MINABIT – DOMINVS – CONDENSA / TENEBRARVM – ET – SOLVENTVR – NEXVS – SINAGOGE – ET – DESINENT – LABIA – HOMINVM – ET – VIDEBVNT - / - REGEM – VIVENTIVM

    ("Ecco verrà il giorno, il Signore rischiari le caligini (= il peccato che offusca l'anima) delle tenerebre, si scioglieranno le adunate della sinagoga, si dischiuderanno le labbra degli uomini, vedranno il Re dei Viventi")



  • DELFICA: NASCETVR – PROPHETA – ABSQVE / MATRIS – COYTU – EX – VINNE – EIVS

    ("Nascerà il Profeta senza congiungimento della madre da una Vergine")



  • HELLESPONTINA: DE - EXCELSO – CELORVM – HABITACVLO – PROSPEXIT - DEVS - HABILES (=HVMILES SUOS) .... ET - IN – DIEBVS – NOVIXIMIS – DE - VERGINE – HEBREA - INCVNABULIS - TERRE - NASCETVR

    ("Dall'Alto Regno dei Cieli vide gli umili suoi nei prossimi giornida una vergine ebrea nella culla della Terra")



  • PHRIGIA: FLAGELLABIT DEVS POTENTES TERRE / EX OLINPO – EXCELSVS – VENIET - / - ET – FIRMABIT – CONSILIVM – IN – CELO - / - ET – ANNVNTIABITVR - VIRGO – IN – VALLE / DESERTORVM

    ("Dio flagellerà i Potenti della Terra, l'Altissimo giungerà dall'Olimpo e rinsalderà la Legge del Cielo, una Vergine sarà annunciata nella Valle dei Deserti")



  • EVROPA: VENIET – ILLE – ET – TRANSIBIT – COLLES – ET – MONTES – ET – LATICES – SILVARUM – OLIMPI – REGNABIT – IN – PAVPERITATE – ET DOMINABITVR – IN – SILENTIO – ET – EGREDIETVR – DE – VTERO – VIRGINIS

    ("Egli verrà e attraverserà i colli, i monti e i fludi spazi delle selve olimpiche, regnerà in povertà, dominerà in silenzio, uscirà dal grembo di una vergine")



Grande merito va tributato alla Palozza, la quale ha notato la forte corrispondenza tra queste profezie delle Sibille nella chiesa tiburtina e quelle del domenicano Philippus de Barberiis10, riportate nelle sue Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Agostini dato alle stampe in quel di Roma nel 1482, il che funge certamente da terminus ante quem utile per la datazione del ciclo di affreschi di questo presbiterio: la data proposta è l'anno successivo, il 1483, il committente sarebbe da identificarsi nell'influente Confraternita di San Giovanni Evangelista e l'autore, l'anonimo "Maestro di Tivoli" forse potè essere Antoniazzo Romano (Roma, 1430 / 1435 – Roma, 17 aprile 1508), uno dei maggiori e più apprezzati pittori della Scuola Rinascimentale Romana, tra le cui opere più celebri spiccano la decorazione della Cappella Bessarione nella Basilica dei Santi Apostoli di Roma, la Madonna del Latte conservata presso il Museo Civico di Rieti (1464), il Trittico nella chiesa di San Francesco a Subiaco (1467), la Madonna di Papa Leone oggi nella National Gallery di Dublino (1475), l'affresco con il Trionfo di Gentile Orsini presso il Castello di Bracciano, la collaborazione con il Perugino nella Cappella Sistina nel biennio 1480 - 1482 e il ciclo con le Storie dell'invenzione della vera croce nella Basilica della Santa Croce in Gerusalemme di Roma, a lungo attribuita al Pinturicchio e datato alla fine del secolo XV.





Particolare del ciclo di affreschi del presbiterio della chiesa di San Giovanni Evangelista di Tivoli e risalente al 1483 - Albunea, la Sibilla Tiburtina, probabilmente opera di Antoniazzo Romano.




Altra interessante testimonianza, di differente natura trattandosi di opera statuaria, è la scultura della Sibilla Albunea, assimilata a Ἰνώ - Ino11Λευκοθέα - Leucotea12, assieme al figlioletto Melicerte, facente da coronamento alla Fontana dell'Ovato nella rinascimentale Villa d'Este: posizionata alla sinistra del Viale delle Cento Fontane, fu progettata da Pirro Ligorio e realizzata nel 1567, in essa confluiscono le acque del fiume Aniene qui convogliate attraverso un canale corrente al di sotto della città; la denominazione "dell'Ovato" deriva dalla sua particolare forma a esedra e fu definita anche "La Regina delle Fontane" da Francesco Bandini Piccolomini (Siena, 1505 – Tivoli, 28 maggio 1588), Arcivescovo di Siena in esilio a Tibur. Fu progettata con un particolare elaborazione anticipante alcune caratteristiche proprie dello stile Barocco, in particolar modo grazie al singolare effetto conferitole grazie l'ausilio di rocce e sassi ornamentali, posti da Curzio Maccarone e rappresentanti i Monti Tiburtini dai quali discendono i tre sacri fiumi di Tibur, l'Aniene, l'Albuneo e l'Ercolano. Sulla sommità apicale della fontana vi è la statua della Sibilla Tiburtina, Albunea, al cui fianco è rappresentato il giovane Melicerte, simboleggiante il fiume Albuneo; ambedue sono opera di Giglio della Vellitta. Ai loro lati, entro due nicchie, trova posto una coppia di statue fluviali realizzate da Giovanni Malanca e ritraenti i restanti due corsi d'acqua, l'Aniene e il Rivus Herculaneus suo affluente: in cima alla parte rocciosa vi è anche un Pegaso, rappresentato come nell'atto d'inserirsi nella fontana stessa. La parte scenografica rupestre è conclusa con una balaustra marmorea aperta sul lato centrale, dando possibilità alle acque di riversarsi formando una sorta di cascata cupoliforme, percorribile al di sotto grazie a un camminamento a emiciclo, la quale confluisce nella grande vasca antistante a cui fa da sfondo un ninfeo curvilineo nei cui pilastri sono allocate dieci ninfe, ognuna occupante una nicchia, che riversano acqua da appositi vasi: esse sono opera di Giovanni Battista Della Porta su disegno originale di Pirro Ligorio.





La Fontana dell'Ovato in questa pregevole acquaforte del XVII secolo, a opera di Giovanni Francesco Venturini e pubblicata da Giovanni Giacomo de' Rossi: sono chiaramente riconoscibili la statua di Albunea - Leucotea e dei fiumi Aniene ed Hercolaneo ai suoi lati. Collezione del British Museum, stampata a Roma 1676 - 1700.





L'etimologia del termine Sibilla è tutt'oggi oscura e piuttosto discussa: il primo a tentar di dipanare il mistero fu Marco Terenzio Varrone nel suo Antiquitates rerum humanarum et divinarum13, ritenendo che il termine Sybillae fosse da riferirsi a un concilio di donne rappresentanti il volere degli Dei e che nel dialetto eolico il termine per Dio fosse σιός - sióus e non theóus - θεός, il vocabolo per consiglio fosse βυλήν - bylén e non βουλήν - boulén e perciò ne deriverebbe Σίβυλλα – sioù - boùllan ovverosia Colei che manifesta il consiglio / volontà divina; per quanto concerne il termine Sybulam, invece, nonostante il suggestivo significato equivalente a "Segno e / o manifestazione Divina", trattasi di un semplice errore di trascrizione occorso nel Medioevo, oppure di una forzatura volontaria volta al far combaciare la grafia utilizzata con la valenza desiderata. Secondo alcuni il termine avrebbe originariamente indicato un nome proprio di persona, designando una delle Sibille più antiche, la Libica, come trasmessoci dal geografo e scrittore greco Παυσανίας – Pausania il Periegeta (110 – 180 d.C,) il quale rifacendosi egli stesso al prologo della Lamia, una delle perdute tragedie del drammaturgo ellenico Εὐριπίδης – Euripide (Salamina, 485 a.C. - Pella, 406 a.C.), cita il gioco di parole Sibyl / Lybis, secondo il sistema di lettura palindroma: nel corso del tempo il nome proprio assunse il significato estensivo riferito a una classe di veggenti e profetesse, delineandone l'insieme, e ciò avvenne grazie al sorgere di molteplici luoghi di culti, templi o santuari, nei quali gli oracoli venivano materialmente proferiti, per poi esser riuniti in una serie di raccolte mantiche. Fu così che all'originario termine "Sibilla" si rese necessario aggiungere un'ulteriore titolatura, solitamente di derivazione geografica, al fine di distinguerle le una dalle altre, essendo parimenti il loro numero cresciuto con il trascorrere del tempo e il parallelo fiorire della loro attività profetica: bisogna comunque diversificarne alcune in questo gruppo, coloro le quali erano appellate Erofile, poichè nella concezione degli antichi esse erano dotate di vita millenaria ed erano solite spostarsi da un luogo all'altro dopo avervi vissuto per un lungo periodo, dunque la medesima figura potè godere di molteplici riferimenti geografici indicanti i differenti luoghi dove si era stabilita. C'è chi ritiene che derivi dall'antico accadico SIBU (“vecchio”) - ILU (“Dio”) dunque ella sarebbe La Vecchia che parla per il Dio, richiamando anche il pronome femminile accadico ABULLA significante “antro, luogo oscuro” oppure da SIBTU equivalente a “esser posseduti da un demone”: da tutto ciò potremmo ottenere La donna dell'Antro Profetico come derivazione etimologica plausibile.






L'Antro della Sibilla Cumana, la più importante tra le Sibille Italiche - Parco archeologico di Cumae, comuni di Bacoli e Pozzuoli, provincia di Napoli.






Albunea, Signora delle Acque Rombanti



"[...] me nec tam patiens Lacedaemon

nec tam Larisae percussit campus opimae

quam domus Albuneae resonantis

et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda

mobilibus pomaria rivis.[...]"


"[...] me non Sparta forte

né il campo della ricca Larissa mi colpì

tanto quanto la grotta di Albunea risonante

e l’Aniene precipite e il bosco di Tiburno e gli umidi

frutteti con i ruscelli fluenti.[...]"


(Quinto Orazio Flacco, Carmina I, VII, XII - XIII)




La figura di Albunea, nella cultualità religiosa dell'antica Tibur, ricoprì un ruolo secondario forse solamente se paragonate a Ercole: le vennero attribuiti poteri oracolari così vasti da essere inserita nel novero delle X Sibille tanto che, nella tarda antichità e nel Medioevo, superò in fama e potere tutte le altre divinità. Va distinta dall'Albunea dell'omonima selva sede di un oracolo di Fauno14, sempre insistenti sul territorio tiburtino, romano o albano15: per lungo tempo tale malinteso venne sostenuto con fervore sino a quando, alla metà del secolo scorso, tale equivoco venne categoricamente smentito poiché le due entità non furono collegate, tantomeno si trattò della stessa figura. La più antica testimonianza a riguardo di Albunea è di Marco Terenzio Varrone in Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio16, la quale la configura come un'entità profetica già ampiamente sviluppata e affermata: notevole anche la testimonianza di Servio Mario Onorato, in Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, il quale così scrisse al suo riguardo:



"sub Albunea in Albunea. alta quia est in Tiburtinis altissimis montibus. et Albunea dicta est ab aquae qualitate, quae in illo fonte est: unde etiam nonnulli ipsam Leucotheam volunt. sciendum sane unum nomen esse fontis et silvae."


(Servio Mario Onorato, in Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, VII, LXXXIII)


Probabilmente fu una figura soprannaturale legata alle acque, una Naiade17: ninfe d'acqua dolce, Ναϊάδες – Naiádes, composto νάειν, "fluire" e νἃμα ossia "acqua corrente", esse presiedevano alla totalità delle acque fluviali e lacustri presenti sulla terra ed erano in possesso di virtù guaritive e profetiche; come ogni ninfa erano considerate soggette a mortalità, seppur dotate di vita assai longeva. Essendo Albunea verosimilmente localizzata nei pressi delle tonanti cascate che un tempo giganteggiavano sull'acropoli di Tibur, come trasmessoci da Orazio con il suo Domus Albunae Resonantis il quale ne colloca chiaramente la zona cultuale nei dintorni del fiume attraversante un tempo l'acropoli tiburtina, potrebbe identificarsi in una Potameide18, ossia una Naiade dei fiumi. Fonte d'ispirazione per chiunque ne desiderasse il consiglio, proteggeva le giovani coppie che si bagnavano presso le sue acque dietro consenso divino, garantendo fertilità e guarigione a coloro i quali ne chiedevano l'aiuto; bere infatti le acque da loro santificate era prodromo all'ottenere guarigione, mentre praticare abluzioni senza che fosse stato accordato il permesso era severamente proibito e altresì estremamente rischioso: l'Imperatore Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (54 – 68 d.C.) osò immergersi nella fonte dell'Aqua Marcia e fu assalito da un forte febbre e paralisi fulminante, sintomi che lo abbandonarono solo alcuni giorni dopo: vanno a ogni modo distinte dalle Divinità acquatiche rappresentanti il fiume stesso, come Ἀχελῷος – Acheloo19 o dagli ancestrali spiriti che dimoravano da tempi immemori presso laghi, paludi o stagni, al pari della pre - achea Lerna20 sita nell'Argolide; esse furono associate alle acque dolci così come le Νηρείδες – Nereidi nel Mediterraneo o le Oceanine per i salati flutti marini per quanto, sussistendo la concezione greca circa un unico sistema acquatico planetario che dalle profondità del mare permeava la terra facendosi strada tra gli antri cavernosi del sottosuolo, vi furono alcune sovrapposizioni tra queste ultime figure disaminate21. Tradizione vuole che nei gorghi del Sacro Aniene, a seguito di uno delle disastrose esondazioni che lo interessarono, fu miracolosamente rinvenuta xoan ligneo di Albunea, miracolsamente intatto, il quale ancora stringeva in mano uno dei Libri Sibillini. Importante testimoniare la notizia di un ritrovamento, avvenuto nel 1887 durante i lavori svolti dalla Società delle Forze Idrauliche presso l'area del Santuario di Ercole Vincitore, di un'epigrafe riportante la dicitura Sacerdos Albunae: il sacerdote associato alla Sibilla dovette interpretarne il volere, e i responsi, attraverso l'Idromanzia, osservando il moto delle gocce create dal rinfrangersi dell'acqua contro gli speroni rocciosi presenti nella gola ove l'Aniene precipitava tuonando. E' possibile dunque sostenere, in base a quanto elencato, che Albunea fosse originariamente percepita in un tempo molto antico una Potameide assurta poi a divinità dagli attributi profetici di elevatissima caratura: l'arcaicità di un culto acquatico e femminile in Tibur è testimoniato altresì da un importante ritrovamento, effettuato nel primo ventennio circa del secolo scorso poco distante dalla Madonna del Giglio in località Acquoria, quando l'archeologo Ugo Antonielli22 rinvenne teste muliebri d'età ellenistica e oggetti votivi provenienti da un prospiciente luogo sacro accumulati in una favissa, una fossa arcaica, databili complessivamente tra l'VIII e il IV - III secolo a.C.; il tutto comprendeva anche ciotole ornate, al di sopra dell'ansa bifora, da biforcazione apicale “cornuta” riferibile alle corna taurine, così come nella necropoli arcaica dell'Età del Ferro - Fasi I e II (X - XI secolo a.C.) nei pressi di Sant'Anna, al di sotto dell'odierno Piazzale Matteotti di Tivoli. Ciò fece supporre l'esistenza di un primevo culto della fertilità associato alla presenza di una grande Dea Madre, di cui il toro era una bestia sacra (le tube di Falloppio richiamano chiaramente la forma di un bucranio): vista la natura dell'area, la stipe scoperta dall'Antonielli nel 1925 fece pensare a un luogo di culto molto antico connesso a un'ancestrale divinità delle acque, dalle caratteristiche sanatorie, guaritive e, probabilmente, oracolari. Diversi studiosi di storia locale hanno raccontato di come l'acqua sgorgante dalle sorgenti dell'Acquoria fosse dotata di virtù miracolose al punto di guarire la quasi totalità di malati di tubercolosi che se ne abbeverarono, sul finire del XIX secolo, e dunque non è follia ritenere che la pianura al di sotto di Tibur, unico guado naturale del fiume Aniene nei tempi antichi, fosse interessata da attività cultuali legate a una Divinità dalle prerogative mantiche, sanatrici e benefiche, sovrintendente alle “dorate acque" che ivi sgorgavano, la quale venne poi traslata, assieme alla popolazione, verso l'Acropoli divenendo l'Albunea che oggi conosciamo. Le Sibille, profetesse dell’antichità, esercitarono i loro vaticini fino 392 d.C. quando la pratica fu proibita dall’Imperatore Romano Teodosio I che, dopo aver reso il Cristianesimo religione di stato nel 380 d.C., aveva soppresso i culti pagani attraverso i Decreti Teodosiani23



Albunea e la Profezia dei IX Soli


L'oracolo delle decima Sibilla, l'unico che perplime fortemente gli storici, è presentato come un manoscritto separato dal restante corpus di vaticini e composto probabilmente dopo la fondazione di Costantinopoli, dunque ben lontano dalla conoscenza di Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio. Il testo è inserito nella redazione greca dell'oracolo della Sibilla Tiburtina, inziialmente noto solo nelle redazioni latine e orientali ed è di genere apocalittico, riguardante l'interpretazione di una visione apparsa in sogno a cento senatori romani con nove soli di differenti colori e forma: essi, atterriti e inquietati, ne chiesero spiegazione alla Sibilla, che le fonti latine indicano appunto come quella Tiburtina. Sino alla metà dello scorso secolo questo manoscritto era noto solamente attraverso rielaborazioni spurie in lingua latina risalenti a un arco temporale compreso tra il Medioevo e il Rinascimento, tra l'XI e il XVI secolo, ricche di modifiche concernenti la successione degli Imperatori e Sovrani occcidentali via via avvicendatisi al trono, sia il cosiddetto Vangelo Sibillino concentrato esclusivamente sul IV Sole della Profezia, rappresentante l'età del mondo nella quale si colloca la nascita del Cristo: il vaticinium era conosciute prevalentemente grazie a due versioni, la prima contenuta nel testo pubblicato da E. Sackur nel 1898 che per tale edizione utilizzò sei manoscritti di cui il più antico pervenutoci è databile alla prima metà del secolo XI e precisamente al 1047, una delle due versioni a stampa a nostra disposizione risulta attribuibile al monaco anglosassone Beda il Venerabile, data nuovamente alle stampe da Jacques Paul Migne tra gli opera dubia et spuria e che figura con minime varianti anche in Goffredo da Viterbo, mentre la seconda è il Vaticinium Sybillae, contenuto in un manoscritto dell'XI / XII24 secolo reso noto da Unsiger nel 1870. Per quanto concerne la versione greca dell'Oracolo esso fu scoperto solo nel 1949 da Silvio Giuseppe Mercati, filologo classico, grecista e accademico italiano, profondo studioso della storia e della cultura dell'Impero Bizantino, ma è soprattutto grazie al grande lavoro scientifico svolto dal prof. Paul J. Alexander della Michigan University che l'editio princeps ora disponibile si presenta come fruibile e comprensibile: potendo riesaminare la versione ellenica dell'oracolo è plausibile ritenere che appartenga a un periodo precedente rispetto a quanto finora creduto, verosimilmente alla fine del IV secolo e già diffuso in lingua latina a partire dal 390 d.C. circa. Fu così che nel lasso temporale segnato dall'affermazione del cristianesimo e al definitivo tramonto del paganesimo, comparve in oriente una profezia Sibillina ambientata avente Roma come scenario, diffusasi poi anche in occidente su larga scala la quale beneficiò di una traduzione latina e di innumerevoli riscritture nei secoli successivi: i manoscritti che ne conservano traccia sono oltre il centinaio e il testo originario fu ricopiato ininterrottamente per circa 500 anni.


La Sibilla Tiburtina” da “Discordantiae doctorum Hieronymi et Augustini et alia opuscola di Filippo Barberi (Philippus Siculus), Roma, 1481.



L'autore potrebbe esser stato sia un sibillista cristiano del IV secolo circa sia un orientale di cultura greca, forse siriaco; come nel gusto delle redazioni latine ed orientali, utilizzò l'artifizio letterario della Sibilla intenta a spiegare ai cento Senatori romani il significato dei IX Soli, dieci nella versione greca, apparsi loro in sogno. Ogni sole rappresentava un'ipostasi di un età storica e l'ultimo di essi avrebbe segnato la fine del mondo con il principio del regno messianico escatologico: la si può ritenere quasi certamente una finzione, fortemente influenzata dalla letteratura apocalittica di matrice giudaica. La Sibilla Tiburtina, arsa di furore profetico, la cui fama era giunta sino ai confini estremi dell'Impero Romano a cause delle sue terribili profezie con le quali aveva sconvolto lontane terre come la Macedonia, la Cilicia e l'Asia, oracolando premi per i Giusti e castighi per gli Empi, venne invitata a Roma al fine d'interpretare il misterioso sogno: ella giunse nell'Urbe, dopo aver stupito tutti per bellezza e divinità da lei emanata, condusse i Senatori in un sacro bosco sull'Aventino (mentre nella versione greca ciò accade nei fitti recessi di un uliveto sul Campidoglio) e così interpretò i soli come le generazioni future.


Il primo inondava di luce tutta la terra; il secondo, più vasto, irradiava bagliore ultraterreno; il terzo saettava luci sanguigne; il quarto rappresentava la generazione che sarebbe vissuta al tempo di Cristo; il quinto sole mescolava l'elemento sanguigno a quello luminoso; il sesto, totalmente buio, conteneva al suo interno un aculeo come di scorpione; il settimo sole era attraversato da una spada sanguinante; l'ottavo, il più grande, celava un nucleo di sangue e il nono, oscuro e impenetrabile, era solcato un folgorante raggio di luce.


La prima generazione sarebbe stata pacifica, dotta e libera ; la seconda pia e dedita alla purezza; la terza sarebbe stata testimone di funeste guerre intestine a Roma; la quarta, composta da infedeli, avrebbe assistito alla nascita della Vergine Maria, del Falegname Giuseppe e del Messia Gesù Cristo, affermando l'unicità di Dio e la salvezza nella Vita Eterna se in lui si fosse riposta la Fede dei Giusti; la quinta generazione assisterà all'espugnazione di Gerusalemme; la sesta generazione sarà caratterizzata da eventi infausti, guerre e oscure tenebre; nella settima due sovrani perseguiteranno la terra di Giudea; nell'ottava ci sarà la decadenza della Città Eterna e nella nona i corrotti e avidi principi romani causeranno la rovina delle genti;


in quest'ultima generazione vengono indicati molteplici regnanti medievali e secondo l'età e la provenienza dei manoscritti le liste dei sovrani presentano le aggiunte più disparate. La Sibilla indicò ogni regnante mediante la sola iniziale di ciascun nome, per ognuna delle Nove Età, e nel testo in lingua greca si riferisce in particolar modo all'Impero Bizantino: dopo l'ultimo di Sovrano, citato nel manoscritto dell'Escuriale datato al 1047, identificato con Enrico III il Nero25 della dinastia Salica, Rex Romanorum dal 1039 al 1056 e Imperatore del sacro Romano Impero dal 1046, la Profetessa affermò che giungerà il Figlio della Perdizione, l'Anticristo, il quale ucciderà Enoc26 nipote di Adamo, venendo poi a sua volta sconfitto da Dio per mezzo dell'Arcangelo מִיכָאֵל- Michahel: dopo di ciò, la Terra sarebbe stata mondata dal Giudizio Universale.


Tunc judicabit Dominus secundum unicuscuiusque opera et ibunt impii in gehennam ignis aeterni, iusti autem premium aeternum vitae recipient. Et erit coelum novum et terra nova, et mare iam non erit et regnabit Dominus in sanctis et ipsi regnabunt cum illo in saecula saeculorum”


E allora l'Unico Dio nella sua seconda venuta giudicherà l'opera di ognuno e getterà gli Impuri tra le fiamme eterne della Gehenna, invece i Giusti riceveranno il premio della vita eterna. Cielo e Terra saranno rinnovati e il mare non esisterà più, e il Signore regnerà nella Santità e là Egli regnerà nei secoli dei secoli.



Con questo monologo escatologico si conclude la profezia della Sibilla Tiburtina anche se, nella versione edita da Sackur, vi è spazio per un ulteriore oracolo: il Judicii signum tellus sudore madescet rappresentava in occidente il vaticinio sibillino per antonomasia grazie all'autorevolezza conferitagli da Sant'Agostino d'Ippona nel suo De Civitate Dei Contra Paganos, seppur attribuendola alla Sibilla Eritrea: il caso di Agostino non rappresenta, a ogni modo, un episodio sporadico o isolato poichè i Padri della Chiesa hanno da sempre tenuto in alta considerazione gli oracoli delle Sibille e in particolar modo ai Divina Mysteria trattati dalla Tiburtina, quali incarnazione, morte e Resurrezione di Gesù, così come circa il Giudizio Universale.




La Sibilla Tiburtina e l'Imperatore Augusto nelle Cronache di Norimberga; Hartmann Schedel, Norimberga, 1493.




Nella versione ellenica Albunea non viene mai menzionata esplicitamente, seppur sussiste concordanza sul luogo ove l'oracolo venne pronunciato, ovverosia l'Urbe Capitolina, nel quale fu annunciata la prossima nascita del Figlio di Dio all'Imperatore Augusto: del più famoso oracolo sibillino sono note prevalentemente due versioni, una in oriente e l'altra in occidente: nella prima, attestata nel Chronicon di Giovanni Malasas, non è la Sibilla bensì la Pizia Apollinea a ricoprire il ruolo di rivelatrice della profezia messianica, in quanto Ottaviano Augusto avrebbe cercato il suo consiglio al fine di conoscere il nome del suo successore. L'Oracolo Delfico e le Sue Sacerdotesse, simboli per eccellenza degli oracoli pagani del Mondo Antico costretti al silenzio dal prossimo avvento del Cristo, avrebbero intimato all'Imperatore di allontanarsi dagli altari, in quanto un fanciullo giudeo le aveva comandato di tornarne nell'Ade: fu proprio in questo frangente che Augusto, secondo tale tradizione, avrebbe eretto un altare in onore del Figlio di Dio - ARA PRIMOGENITI DEI, sul Campidoglio, una volta di ritorno a Roma. Contrariamente a quanto affermato nel Chronicom, il Venerabile Beda27 attestò invece che tale vaticinio appartenesse certamente alla Sibilla di Tivoli; tra i molti testi riportanti la versione occidentale dell'oracolo degni di nota sono i Mirabilia Urbis Romae28, databili alla metà del XII secolo, e specificatamente al capitolo XI viene menzionato di come il Primo Imperatore di Roma si fosse rivolto a una Sibilla identificata come la Tiburtina, e non alla Pitia, a riguardo della volontà dei Senatori di tributargli onori divini: tre giorni a seguito di tale richiesta, la profetessa avrebbe pronunciato il celebre Iudicii Signum. Augusto, osannato dal popolo con il titolo di Divus, era fortemente perplesso se accettare o meno tale onore e chiese consiglio alla profetessa, la quale lo sottopose a un digiuno di tre giorni a seguito del quale gli svelò il nome del Vero Dio a cui l'Imperatore avrebbe dedicato un sacrificio, il primo in assoluto, e l'Ara utilizzata a tale scopo avrebbe poi dato il nome alla chiesa che ivi sarebbe sorta, la Basilica di Santa Maria in Aracoeli29. A memoria di tale evento, i frati francescani recarono in processione per secoli un'insegna di Albunea indicante un tondo all'interno del quale erano rappresentati la Vergine Maria e il Bambinello aasiso sul di lei grembo: tale iconografia conoscerà una larga popolarità, durante il Medioevo, e i francescani tutt'oggi son soliti onorare la memoria del profetizzato avvento cantando durante le festività natalizie i versi "Stellato hic in circulo Sibyllae tunc oraculo, te vidit, Rex in coelo". La leggenda ebbe a conoscere popolarità e successo sempre più vasti durante il periodo medievale, tanto che un sermone sulla Natività pronunciato dal Pontefice Innocenzo III (1198-1216) si riferì proprio ad essa, mentre nel secolo XII e precisamente nei Liber de temporibus et etatibus. Continuatio Regina et Cronica Imperatorum30, la Sibilla Tiburtina figurò tanto come colei che pronunciò il vaticinio dei IX Soli che nelle vesti della profetessa al centro del racconto dell'Ara Coeli; da riportare come nel medesimo periodo, precisamente tra l'XI e il XII secolo, vi fu una triplice convergenza di differenti tradizioni profetiche sulla figura della Sibilla Tiburtina Albunea, la quale venne percepita come l'annunciatrice del Vaticinium dei IX Soli, dell'acrostico31 sul Giudizio Universale e della profezia circa la Nascita del Messia.



I luoghi di culto – Il cosiddetto Tempio della Sibilla sull'Acropoli di Tibur






Templi Tondo e Rettangolare- Ipotesi ricostruttiva a cura di Christian Doddi-Proprietari sono l'A.P.S. ArcheoTibur e l'autore-E' vietata ogni duplicazione, parziale o totale, non autorizzata - ArcheoTibur 2019 - 2020, Tutti i Diritti Riservati©️


Svettante sull'Acropoli di Tibur ed eretto su di una poderosa sostruzione artificiale che amplò notevolmente la superificie edificabile, fiancheggiato dal Tempio Tondo detto popolarmente “di Vesta”, si staglia il Tempio Rettangolare che la tradizione attribuisce alla Sibilla Albunea: nonostante tale associazione, così come per la struttura al suo fianco, non è assolutamente certo a quale Divinità fosse dedicato e quale culto si perpetrasse tra le sue mura. Il Tempio Rettangolare fu πρόστυλος - τετράστυλος32 / prostilo - tetrastilo e ψευδοπερίπτερος - pseudoperiptero, presentante quattro colonne sulla facciata e una sequela di finti pilastri addossati alle tre pareti esterne: al giorno d'oggi le due colonne centrali del prostilo risultano perdute mentre le pseudocolonne laterali, in numero di 14 formanti la cella e originariamente già scarsamente aggettanti, sono quasi del tutto scomparse. Ambedue le tipologie di piedritti sono solcate da 20 scanalature e poggiano su di una base attica estremamente bassa, a sua volta disposta direttamente sullo στυλοβατης – stilobate33; i capitelli appartenevano all'ordine ionico, della tipologia diagonale con abaco di 2 cm. La struttura templare stricto sensu è adagiata su di un altopodio in Lapis Tiburtinus misurante 1,76 m34 a sua volta posizionato su di una piattaforma di Opus Quadratum tufaceo avente il medesimo perimetro del tempio, il quale possiede pianta rettangolare di 15,90 x 9,15 e risultante orientato lungo l'asse Est – Ovest; del muro d'ingresso al πρόναος -pronao35 non resta alcuna traccia. Il podio si presenta come estremamente elegante, adornato di due gole rovesce, di base e coronamento, risultanti essere non eccessivamente arrotondate come fu costumanza in età antica: nonostante l'assenza di ritrovamenti epigrafici o altri demarcatori temporali, lo stile del tempio lo ascriverebbe al II secolo a.C., momento di grande fermento in cui la città di Tibur ebbe a conoscere un profondo rinnovamento urbanistico e architettonico. L'edificio cultuale fu occupato, sino a un secolo fa circa, dalla chiesa e parrocchia di San Giorgio, sin dal X secolo adibita a diaconia destinata a opere di misericordia come assistenza e distibuzione di emolumenti ai poveri, riportata nei documenti sin dall'Anno Domini 978: il luogo di culto cristiano era coronato da un tetto a doppio spiovente e dotato di campanile, come chiaramente osservabile in numerose stampe d'epoca, che fu abbattuto alla fine del 1800 in ragione del rinnovamento generale dell'area circostante, adibita a belvedere, e gli edifici classici vennero liberati dalle sovrastrutture di età medievale che, a onor del vero, ne avevano permesso la sopravvivenza sino a quel momento. La chiesa era dotata di tre altari, dedicati a San Giorgio e a San Martino, a quest'ultimo solo dal XVII secolo, a San Lorenzo Patrono di Tivoli e San Domenico, la cui confraternita finanziò la realizzazione del ciclo di affreschi nella Chiesa di San Giovanni Evangelista presso l'Ospedale, e a San Francesco d'Assisi e San Matteo Apostolo: affreschi e stucchi un tempo presenti sono odiernamente perduti, probabilmente anche a causa dell'elevato tasso d'umidità del luogo, ubicato prospicientemente alla rigogliosa e riccamente irrorata gola dove sorge il parco della Villa Gregoriana.





Acropoli Tiburtina, Tempio Tondo e Rettangolare- Ipotesi ricostruttiva a cura di Christian Doddi-Proprietari sono l'A.P.S. ArcheoTibur e l'autore-E' vietata ogni duplicazione, parziale o totale, non autorizzata - ArcheoTibur 2019 - 2020, Tutti i Diritti Riservati©️




Fonti bibliografiche:


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- Servio Mario Onorato, in Commentarii Aeneidos Libros IV, CCCCXLV;

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- Publio Virgilio Marone, Eneide;

- Quinto Orazio Flacco, Carmina;

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- Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, Divinarum institutionum Libri VII;

- Rodolfo Lanciani, Rovine e scavi di Roma antica (titolo originale: The Ruins and Excavations of Ancient Rome: a Companion Book for Students and Travelers, London, Macmillan, 1897), Roma, Quasar, 1985;

- Cairoli Fulvio Giuliani, Forma Italiae – Tibur Pars Prima, De Luca edizioni, Roma, 1970;

- Pietro Tacchi Venturi, Storia delle Religioni, UTET, 1954;

- Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Universale Scientifica Boringhieri, 1976;

- Henri - Charles Puech “Storia delle Religioni – Il Mondo Classsico”, Universale Laterza, 1978;

- Franco Sciarretta, Guida a Tivoli, Tiburis Artistica Edizioni 2001;

- Annales di ArcheoTibur Volume 0, Quickebook edizioni, Tivoli 2018 – 2019;

- George Dumézil,

"La Religione Romana Arcaica", BUR Biblioteca Universale Rizzoli

"Feste Romane", edizioni Il Melangolo, Genova, 1989:

- Robert Graves, I Miti Greci;

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- (A cura di) Unsiger, Vaticinium Sybillae, 1870;

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- Jacques Paul Migne, Opera Dubia et Spuria, 1849;

- (A cura di di) Alberti Milioli, Notarii Regini Liber de temporibus et etatibus et Cronica Imperatorum, ed. O. Holder - Egger, MGH, Scriptores (in Folio), SS, XXXI, 1903, pp. 572-668;




1Leggendaria crestomazia di responsi oracoli vergati in lingua greca custoditi presso il Tempio di Giove Capitolino, trasferiti successivamente in quello di Apollo Palatino per volere di Ottaviano Augusto. Contenenti in origine norme rituali atte alla procuratio dei prodigia manifestatisi, questi testi si riempirono di numerosi oracoli ellenici attribuiti alle varie Sibille soprattutto durante gli ultimi secoli della Res Publica allorchè il mondo romano si aprì definitivamente all'influenza greca: si continuò, a ogni modo, ad utilizzarli con la medesima funzione, ovverosia incentrata sull'espiazione e sulla procuratio di prodigia terrifici. La storia romana narra che fossero stati offerti al Rex Lucio Tarquinio il Superbo (... - 495 a.C., regnò dal 535 al 509, anno in cui fu esiliato dall'Urbe) dalla Sibilla Cumana (o da quella Eritrea) e che fossero inizialmente in numero di nove: il Re considerò costo troppo elevato, così la Profetessa ne bruciò tre prendendo commiato. Tornò tempo dopo, riformulando la medesima proposta con i sei restanti: al secondo rifiuto del Sovrano, la quale la derise e la prese per stolta a causa della stramba proposta, ne diede alle fiamme ulteriori tre andando via nuovamente. Fece visita al Re una terza volta ,proponendo gli ultimi al prezzo iniziale dei nove: il Re, basito per le proposte della misteriosa donna, iniziò a percepire inquietudine e convocò gli Augures, chiedendo loro consiglio: dopo aver interpretato i segni, questi risposero che egli aveva respinto un dono inviatogli dagli Dei e che ne sarebbero derivate terribili sciagure se non avesse accettato di pagare il prezzo stabilito dalla profetessa, acquistando i restanti oracoli rimasti. Finalmente il Sovrano, persuaso, accettò, con la Sibilla che consegnò i libri raccomandando di averne massima cura; fatto ciò, svanì nel nulla così come era giunta.


"I responsi Sibillini che, come prima abbiamo detto, è incerto da quale Sibilla siano stati scritti, sebbene Virgilio li attribuisca alla Cumana, Varrone, invece, all'Eritrea. Ma consta che sotto il regno di Tarquinio una donna, di nome Amaltea, abbia offerto al re stesso nove libri, nei quali erano scritti i fati e i rimedi di Roma, ed abbia preteso per questi libri trecento filippi, che allora erano preziose monete auree. Costei respinta, dopo averne bruciato tre, ritornò un altro giorno e chiese altrettanto, ed egualmente il terzo giorno, dopo averne bruciati altri tre, ritornò con gli ultimi tre e ricevette quanto aveva chiesto, poiché il re era stato impressionato da questa stessa vicenda, cioè dal fatto che il prezzo restava immutato. Allora la donna non apparve all'improvviso. Quei libri si conservavano nel tempio di Apollo, né soltanto quelli, ma anche quelli dei Marci e della ninfa Vegoe che aveva scritto presso gli Etruschi i libri fulgurales: per cui aggiunse solo tuas sortes arcanaque fata. E ciò riferisce il poeta."


(Servius Grammaticus, in Vergilii Aeneida)




"La deporrò i tuoi oracoli e i segreti dei Destini annunziati al mio popolo e ti sceglierò dei Sacerdoti e te li consacrerò, o Benefica"


(Enea alla Sibilla Cumana, dopo che essa aveva profetizzata al Principe Troiano il futuro di grandezza al quale sarebbero assurti i suoi eredi – Eneide)



I sacri testi furono affidati alla cura di due Patrizi denonimati Duumviri Sacri Faciundis: si narra che Tarquinio ne fece gettare uno in mare, Marcus Atilius, cucito in una pelle bovina al pari d'un parricida, il quale fu accusato di tradimento da parte di uno degli assistenti: che si trattasse d'aver divulgato i segreti dei testi, i quali non dovevano essere diffusi, o di una calunnia infamante creata ad arte dall'assistente al fine di ottenere per sè l'ambita posizione non possiamo saperlo. In seguito alla caduta dei Re la Repubblica assunse il controllo dei Libri, nominando come guardiani uomini illustri esonerati da ogni altro dovere civile e militare, mantenendo la tradizione di porre al loro fianco degli assistenti che fungessero anche da sorveglianti; l'istituzione divenne successivamente un autentico collegium annoverante quindici membri di cui cinque scelti tra il popolo. Il loro compito consisteva nel consultare i libri su richiesta espressa del Senato, al fine d'evitare la collera Divina a seguito di scelte sconsiderate: essi erano conservati in uno scrigno litico posto in una camera ipogea al di sotto delle fondazioni dell'Aedes Iovis Optimi Maximi Capitolini. Infaustamente bruciarono a seguito di un incendio occorso nell'83 a.C. e si tentò di recupernarne la sapienza attraverso una ricerca frammentaria presso altri santuari, templi e luoghi di culto e questa nuova raccolta venne traslata nel Tempio di Apollo Palatino grazie all'interessamento diretto del Primo Imperatore di Roma, Augusto, come ebbe modo di narrarci Svetonio:


"[Augusto, divenuto pontefice massimo,] radunò tutte le profezie greche e latine che [...] erano tramandate tra il popolo, circa duemila, e le fece bruciare. Conservò solo i libri sibillini e, dopo un'attenta selezione, li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino."


(Svetonio, Augustus, XXXI)


Augusto stesso, a ogni modo, espresse tuttavia una diffidenza genuinamente romana nei riguardi dell'attività profetica incontrollata: divenuto Pontifex Maximus, ordinò che venisse raccolto tutto ciò che circolava in materia di scritti oracolari greci o latini: oltre duemila libri vennero dati alle fiamme, risparmiando solamente i Libri Sibillini i quali subirono, a ogni modo, un'accurata selezione dei contenuti interni. Essi rimasero saldamente al loro posto sino al V secolo, dopo di che se ne perse ogni traccia: circa il colpevole dietro la loro sparizione, Rutilio Namaziano nel suo poema De Reditu suo accusò apertamente il generale Stilicone per averli dati alle fiamme nell'anno 408.

2"Si dice Sibilla ogni fanciulla che accoglie la Divinità nel suo petto", Servio Mario Onorato, in Commentarii Aeneidos Libros IV, CCCCXLV.

3 La Ierodulia, dal greco ἱερόν, "tempio" e δουλία "servitù o dipendenza" rappresentava la condizione di dipendenza e subordinazione a una struttura templare e al suo clero: gli edifici cultuali del mondo antico disponevano di questo particolare "personale" di ambo i sessi fungente sia da supporto per le attività propriamente rituali (come la predisposizione degli arredi sacri, la manutenzione, la macellazione degli animali, la cura dei sacrifici) che nella gestione delle proprietà appartenenti al tempio: erano fondamentalmente schiavi donati ex voto dal loro padrone alla Divinità, rinunciando così a esercitare su di loro qualunque diritto a seguito di manumissio, ovveorsia l'atto del diritto romano attraverso il quale si liberava uno schiavo dalla sua condizione di servitù. Nei santuari di Ἀφροδίτη / Aphrodite – Venere e altre Dee legate ad ambiti quali amore ed eros, come ad esempio le mediorientali Ishtar, Inanna e Astarte, è altamente probabile, seppur non comprovabile con assoluta certezza, che la ierodulia prevedesse anche servizi di prostituzione sacra o cultuale: nel Vicino Oriente Antico, soprattutto nell Terra di Sumer, non è assolutamente escludibile che la Ierodula / Sacerdotessa della Dea, durante particolari festività a essa legate e celebranti il rinnovamento delle forze generatrici di vita, si unisse carnalmente al Sovrano rappresentando essa stessa un'ipostasi della Divinità, in un rituale prodromo al garantire il perpetrarsi dell'equilibrio biologico tra micro, meso e macrocosmo.

4 Sarà proprio questa caratteristica intrinseca che renderà possibile la trasposizione tout cort della figure delle Sibille nella religione cristiana, quali annunciatrici della nascita del Cristo.

5 Figlio di Γῆ – Gea, sorto dal fango fertile della Terra a seguito del Diluvio Universale che aveva spazzato via l'intero genere umano eccezion fatta per Δευκαλίων – Deucalione e Πύρρα – Pirra. Era un drago, o serpente, d'inumane dimensioni e morì a seguito di un terribile combattimento contro Apollo, il quale lo uccise e ne prese il posto quale guardiano e nume oracolare nel Santuario di Delfi, dando il suo nome alla sacerdotessa che di lì in futuro avrebbe vaticinato presso il sacro luogo, la Πυθία – Pitia, ovverosia la "Pitonessa". Si sostiene che Apollo abbia deciso di uccidere il Serpe quale vendetta perpetrata per amore della madre, Λατώ – Latona, la quale prima della nascita del Dio era stata lungamente tormentata da Pitone sin sull'isola di Delo. Il dragone risiedeva in una grotta nei pressi di una sorgente e quando vide il Dio appropinquarsi bellicosamente, s'attorcigliò attorno a un lauro: quando Apollo ne estinse la vita con i suoi mortiferi darsi, a cagione dell'impresa compiuta si guadagnò il titolo di Pitico, con il quale era grandemente onorato: ogni quattro anni, inoltre, si tenevano i i Pithya, i Giochi Pitici, nella pianura Crissea presso Delfi , che consistevano inizialmente in una gara musicale a cui via via si aggiunsero competizioni equestri e gare ginniche prevedenti in palio per il vincitore una corona d'alloro, simbolo del Dio. Pitone ebbe prole, un figlio di nome Aix.

6Dal greco antico, significante "ombelico", e rappresentante simbolicamente il centro della Terra. Con tale termine s'identificava una pietra o un oggetto dall'elevato valore cultuale e religioso. Secondo il Mito l'omphalos del Santuario di Apollo Delfico, l'edificio religioso più importante di tutto mondo ellenico, era stato ivi posto dopo che Ζεύς - Zeus aveva liberato due aquile, al fine di determinare esattamente il "cuore" del Creato, ed esse volando in direzioni opposte si erano incontrate esattamente al di sopra dell'altopiano delfico. Con il medesimo vocabolo ci si riferiva anche al masso fatto ingoiare da Ῥέα – Rhea al consorte Κρόνος – Kronos al posto del loro figlio Zeus: successivamente quest'ultimo diede da bere a suo padre del veleno al fine di liberare i fratelli, precedentemente fagocitati Re dei Titani per timore di essere spodestato dal suo trono, e questi dapprima vomitò la pietra e poi le altre Divinità: il Sacro Ombelico giunse così a Delfi, assumendo la valenza tutt'oggi riconosciutale e divenendo il simbolo del collegamento tra il Mondo Umano e Divino. Una copia marmorea dell'omphalos è conservata presso il museo di Delfi, decorata con cordoni intrecciati in bassorilievo.

7Leggendaria profetessa appartenente al ciclo omerico dell'Iliade, principessa di Ilio figlia di Re Πρίαμος - Priamo ed Ἑκάβη - Ecuba, sacerdotessa del tempio di Apollo di cui rifiutò le amorose attenzioni, nonostante egli le avesse concesso la preveggenza ma, ricevuto il dono, la fanciulla rifiutò di concedersi e il Dio, adirato, le sputò sulle labbra condannandola a restare per sempre inascoltata, qualunque fosse stato il responso dei suoi oracoli. Fu proprio ciò a causare la rovina della città, poichè il tragico vaticinio della profetessa non trovò alcuno disposto a prestarvi fede. Sin da bambina aveva predetto che suo fratello Πάρις - Paride sarebbe stato causa della distruzione di Ilio, senza che i genitori le credessero, versione confermata dal fratello Αἴσακος – Esaco esperto nell'Oniromanzia: Paride fu dunque abbandonato sul monte Ida e quando da adulto tornò in città per partecipare, fu riconosciuto da Cassandra durante la competizione, la quale chiese a padre e fratelli di ucciderlo al fine di scongiurare il tragico fato della città. La sua richiesta scatenò la reazione opposta, con il fratello che venne reintegrato nella famiglia e restituito al suo rango di principe: profetizzò sciagure anche quando il fratello partì per raggiungere Sparta, predicendo il rapimento di Έλενα - Elena e la successiva caduta di Troia.

8Lucius Caecilius Firmianus Lattantius (Africa, 250 – Gallie, post 317), scrittore, retore e apolegeta romano di fede cristiana, ritenuto una delle menti più brillanti e influenti dei suoi tempi. Di famiglia pagana, allievo di Arnobius a Sicca Veneria (odierna Le Kef, in Tunisia), grazie alla sua fama fu convocato nel 290 dall'Imperatore Diocleziano (284 – 305), su consiglio dello stesso Arnobius, presso Nicomedia in Bitinia, all'epoca capitale della parte orientale dell'Impero e residenza dell'Imperatore stesso, in qualità di Magister di Retorica. Nel 303, a causa dell'inasprirsi delle tensioni persecutorie contro i cristiani, religione alla quale si era convertito, fu costretto ad abbandonare il suo ufficio; abbandò la Bitinia nel 306, tornandovi 5 anni dopo solo a seguito dell'Editto di Tolleranza di Galerio (305 - 311); nel 317 Costantino I (306 – 337) lo chiamò a Treviri, in Gallia, come precettore del figlio Crispo, dove morì qualche tempo dopo. Il suo stile elegante e il suo vezzo d'articolare periodo molto ricercati gli fece guadagnare, nel Rinascimento, il titolo di "Cicerone Cristiano" da parte di uomini illustri come Angelo Poliziano e Pico della Mirandola; le sue opere giunte a noi sono De Opicifio Dei ("L'Opera di Dio"), De Ira Dei ("L'Ira di Dio"), De Mortibus Persecutorum ("La Morte dei Persecutori") e Divinarum institutionum Libri VII o Divinae institutiones ("Istituzioni Divine").

9 Ultima della navata sinistra, fu posta in relazione dal Pecci, nel 1752, con un pagamento a Benvenuto di Giovanni datato al 18 maggio 1483 per il disegno di una figura ritraente tale soggetto; fu oggeto di restauro tra il 1864 e il 1865. Rappresentazione raffinata e longilinea, con un atteggiamento tenedente a una decorosa monumentalità, nel classico gusto dell'artista; la profetessa è ammantata di un appariscente panneggio, con veli svolazzanti ai lati e un copricapo appuntito; la dinamicità dei veli è rallentata dalla simmetria, la quale valorizza ed esalta la quieta statuarietà di Albunea. Nella tabella legata a un cherubino in alto a destra si legge:


"Nascetur Christus in Bethlehem, annunciabitur in Nazareth regnante tauro pacifico fundatore quietis. o felix Mater cuius ubera illum lactabunt"


la cui traduzione risulta essere:


"Cristo nascerà a Betlemme e sarà annunciato a Nazareth, sotto il regno del toro pacifico fautore della pace. O madre felice i cui seni lo allatteranno"

10 Filippo Barbieri o Philippus de Barberiis (1426 – 1487), inquisitore e storico appartenente all'Ordine dei Domenicani , nativo di Siracusa, autore di 2 o 3 cronache in prosa latina.

11 Ino è una figura appartenente alla mitologia greca, donna mortale trasformata in Divinità. Figlia di Κάδμος - Cadmo e Αρμονία - Armonia, seconda moglie di Ἀθάμας - Adamante, Re Beota figlio Αἴολος – Eolo e di Ἐναρέτη – Enarete, la quale divenne madre di Λέαρχος - Learco e Μελικέρτης - Melicerte. Il marito Atamante aveva avuto da Νεφέλη - Nefele, prima moglie di nozze, due figli, Φρίξος - Frisso ed Ἕλλη - Elle: Ino li detestava così profondamente che persuase con l'inganno le donne del paese a porre nel forno i semi utili alla successiva stagione di semina, così quando accadde che non vennero seminati, il reame precipitò in una profonda e drammatica carestia. Re Adamante, perplesso, decise d'inviare messaggeri presso l'Oracolo di Delfi al fine di comprendere cosa avesse scatenato la collera divina e come potervi porre rimedio, ignaro che la sua ambasceria era già stata corrotta dalla moglie Ino, desiderosa di non far trapelare lo stratagemma perpetrato: il falso responso prevedeva il sacrificio di Frisso sull'altare di Ζεύς - Zeus, così che il popolo spinto dalla fame si ribellò e pretese a gran voce l'obbedienza al vaticinio delfico. Il Sovrano fu costretto ad acconsentire e i due figli furono condotti all'altare sacrificale, pronti per esser immolati al Re degli Dei: Frisso ed Elle, poco prima che la mortifera cerimonia avesse inizio, supplicarono l'aiuto della loro madre Nefele, la quale li ascoltò e inviò presso di loro un Ariete dal Vello d'Oro, sulla cui groppa fuggirono volando via dal luogo della loro esecuzione. A seguito della morte di sua sorella Σεμέλη - Semele, madre di Διώνυσος - Dionysos, Ino persuase il marito Atamante ad allevare il Dio in fasce, frutto dell'unione della defunta sorella con Zeus, e fu allora che Ἥρα - Hera, resa furiosa dall'ennesimo tradimento del marito e dall'atto sacrilego nei suoi riguardi posto in essere dal Re Beota, instillò in quest'ultimo una disumana follia che gli fece scambiare mogli e figli per dei cervi: li assalì violentemente, uccidendo Learco scagliandolo contro uno scoglio, mentre Ino pose fine alla vita di Melicerte immergendolo in un calderone ricolmo di olio bollente, gettandosi successivamente in mare nei pressi della roccia molare di Μέγαρα - Megara portando assieme a sè il corpo straziato del figlio. Ἀφροδίτη - Aphrodite, mossa a pietà per la triste sorte del suo pronipote Melicerte, scongiurò Ποσειδῶν - Poseidone di fargli salva la vita e così l'Εννοσίγαιο -Enosictono (letteralmente "Lo Scuotiterra") accolse la richiesta, privandoli delle caduche spoglie mortali e mutandoli in Divinità Marine: Ino divenne Λευκοθέα - Leucotea, la Bianca Dea del Mare, mentre Melicerte assurse a Παλαίμων – Palemone, Dio dei Porti identificato dai Romani in Portumnus. Una seconda versione del Mito, assai meno popolare e conosciuta ma riportata da Diodoro Siculo, il quale però non scrisse a riguardo di Ino, narra di una ninfa di nome Alia che si uccise gettandosi in mare a cagione della violenza subita dai suoi stessi figli, assumendo successivamente anch'essa il nome di Leucotea.

12 Λευκοθέα – Leucotea, la "La Dea che scorre sulla spuma marina" o "La Bianca Dea (del Mare)", era invocata dai marinai in preda ai pericoli dei flutti e l'esempio più famoso di ciò lo abbiamo nell'Ὀδύσσεια - Odissea, quando Ὅμηρος - Omero scrisse che ella sorse dagli abissi per donare un velo divino a Ὀδυσσεύς - Odisseo, naufrago e in balìa di sferzanti venti; la particolarià di questa figura risiede nell'esser priva di qualunque genealogia Divina, fatto alquanto anomalo per un personaggio appartenente al filone mitologico ellenico, poichè dalle molteplici tradizioni riportate ebbe esistenza mortale prima d'assurgere al rango di Dea. Molteplici tradizioni, per lo più di tipo vernacolare, esistono al riguardo della sorte che InoLeucotea ebbe a incontrare dopo il suicidio: alcuni ritengono che fu trasportatasul dorso di un delfino sino alla spiagge dell'istmo di Κόρινθος - Corinto dove il Re Σίσυφος - Sisifo istituì i Giochi Istmici e delle celebrazioni annuali in suo onore, mentre nella vicina Megaride la tradizione narra che le onde trasportarono il suo corpo esanime sulla battigia, ove venne seppellito da due vergini; sull'Isola di ῥοδον - Rodi, da dove Diodoro Siculo scrisse, divenne Dea subito successiamente il suo suicidio in mare. Di un suo luogo di adorazione terrestre abbiamo menzione in Ἀλκμάν – Alcmane di Sardi, il quale nel VII secolo a.C. riporta la notizia di un Santuario a lei dedicato; culto, templi e monumenti di Leucotea si estendevano su tutta l'Ellade continentale, alle isole Egee, alle coste del Maro Nero e sino in Etruria: da un punto di vista squisitamente archeologico la più antica attestazione risulta essere una stele marmorea datata al III secolo a.C. rinvenuta a Λάρισα - Larissa, oggigiorno consevata presso all'Archaeological and Byzantine Myseum of Larissa di Volos. Identificata dai Romani nella Mater Matuta, come ebbe a scrivere Marco Tullio Cicerone, il collegamento tra queste due Divinità è spiegato chiaramente nelle Metamorphōses di Publio Ovidio Nasone, il quale scrisse circa l'usanza romana di recare in braccio al tempio di Mater Matuta, in occasione dei Matralia (Festività in onore di Mater Matuta, l'11 giugno), non i propri figli ma quelli dei fratelli.

13 Una delle opere più importanti di Marcus Terentius Varro (Reate, odierna Rieti, 116 a.C. - Roma, 27 a.C., agronomo, militare, grammatico e letterato romano), composta tra il 59 – 59 e il 46 a.C., oggi perduta seppur ricostruibile in parte grazie alle numerose citazioni presenti nel De Civitate Dei Contra Paganos di Sant'Agostino di Ippona: altre nozioni dell'opera, seppur in forme minori, sono giunte a noi anche grazie ad altri autori quali Censorino, Aulo Gellio, Plinio il Vecchio, Macrobio, Prisciano, Servio e Nonio. Le Antiquitates erano suddivise in 41 libri, dei quali i primi 25 erano incentrati sulle Res Humanae ("Questioni Umane") e gli ultimi 16 sulle Res Divinae ("Questioni Divine") e consistevano fondamentalmente in un ampio e dettagliato resoconto della cronistoria cultuale e istituzionale di Roma e della sua Religio. I primi 25 libri rappresentano la sezione sulla quale possediamo meno nozioni: al primo libro, di carattere introduttivo, seguivano 4 sezioni da 6 libri ciascuna incentrate su De Hominibus ("Gli Abitanti dell'Italia"), De Locis ("Sui Luoghi"), De Temporibus ("Sui Tempi") e De Rebus ("Sulle Cose"); per quanto concerne invece le Res Divinae, Varrone introdusse il concetto della teologia frazionata in tre parti, ovverosia teologia mitica, naturale e civile. La prima è propria dei poeti, ricolma di elementi leggendari o fantastici, la seconda appartiene ai filosofi (questa particolare sfaccettatura divenne in special modo influente attraverso la mediazione agostiniana) mentre la terza "stabilisce quali dei bisogna adorare pubblicamente e quali sacrifici si debbano loro offrire". I 16 libri, dedicati a Gaio Giulio Cesare quale Pontifex Maximus, a seguito di un primo libro d'introduzione sui generis, erano articolati in cinque triadi: dal 2 al 4 De Hominibus, incentrati sui sacerdozi, dal 5 al 7 De Locis, ai luoghi di culto, dall' 8 al 10 De Temporibus, al calendario delle feste religiose, dall'11 al 13 De Sacris, ai riti, mentre i libri dal 14 al 16 De Dis, agli Dei: quest'ultima triade si occupava in particolar modo dell'etimologia dei nomi delle varie Divinità. Il lavoro è permeato da un punto di vista puramente stoico, con Varrone che manifesta in modo chiaro la sua avversità nei confronti della teologia mitica o poetica, ritenendola responsabile d'aver inquinato il rapporto altrimenti puro tra uomini e Dei, considerando però prezioso e utile il dibattito filosofico sulla natura degli Dei insito nella teologia naturale esaltando il Rex Numa Pompilio quale esempio perfetto della Pietas antica. Nonostante non lo definisca pitagorico, essendo il Re vissuto prima di Pitagora stesso, riconosce in lui le qualità intrinseche che connoteranno successivamente la dottrina del grande sapiente greco.


"At rex sollicitus monstris oracula Fauni,
fatidici genitoris, adit lucosque sub alta
consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro
fonte sonat saevamque exhalat opaca mephitim."

"A questi mostri attonito e confuso
Il re tosto a l’oracolo di Fauno
Suo genitor ne l’alta Albunea selva
Per consiglio ricorse. È questa selva
Immensa, opaca, ove mai sempre suona
Un sacro fonte, onde mai sempre essala
Una tetra vorago"



(Publio Virgilio Marone, Eneide VII, LXXXIII)

15 Tale querelle si protrae oramai da lunghissimo tempo: è davvero poco plausibile che l'Albunea cmenzionata da Virgilio sia la Divinità Oracolare Tiburtina, in quanto tra i gorghi aniensi mancano del tutto le esalazioni mefitiche, per quanto possa essere invece geolocalizzata l'alta selva opaca, tantomeno può trattarsi dei solforosi miasmi delle acque Albule sempre insistenti sul territorio tiburtino, data la grande distanza che le separa dal territorio posto sotto l'egida del Rex Latino. E' verosimile ritenere, in questo caso, il nome Albunea come da riferirsi a una selva insistente nel territorio prospiciente Lavinium, odierna Pratica di Mare nel comune di Pomezia.

16"... decimam Tiburtem, nomine Albuneam, quae Tiburi colitur ut dea, iuxta ripas amnis Anienis, cuius in gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur, tenens in manu librum: cuius sortes Senatus in Capitolium transtulerit"


(Varrone in Lattanzio, Divinae institutiones I, VI, III)

17L'origine di queste figure è mutevole a seconda del mitografo preso in esame: ὍμηροςOmero si riferì a loro chiamandole "Figlie di Zeus", mentre altrove sono legate alla stirpe di Ωκεανός – Oceano, oppure semplici manifestazioni filiari del fiume dove esse risiedevano: a ogni modo furono figure squisitamente legate al panorama immaginifico dell'antica Grecia, ove ogni corso d'acqua era presieduto da Naiade, le quali furono al centro di molteplici narrazioni eziologiche o utilizzate al fine di spiegare l'accadimento di fenomeni soprannaturali, divenendo figure di centrale importanza.

18Le Potemeidi o Potamidi venivano rappresentate come vergini fanciulle, in età da marito, entità benefiche che rendevano rigogliosa la natura con la loro influenza, mortali ma dotate di lunghissima vita. Solitamente erano identificate con il nome dei corsi d'acqua ove risiedevano, come le Pactolides dal fiume Pactolus , le Acheloides dal fiume Acheloo, le Anigrides e le Ismenides, seppur non è raro che possedessero nomi propri e distinti dalla loro dimora. Fondamentalmente si riteneva che ogni torrente, ruscello o fiume fosse dotato della propria Potamide e di altre (non è ben chiaro se le due entità vadano distinte o siano semplicemente le medesima manifestazione, appellata in modo differente) ninfe definite Fluviales: persino le acque paludose ne erano provviste così come i fiumi irroranti le infere dimore di Ade, come esemplicato nell'espressione "Nymphae infernale Paludis e Avernales", la quale tradotta risulta "Paludosa Avernales, le ninfe infernali.": molte di queste ninfe erano dotate del dono della Veggenza, che trasmettevano agli uomini da loro scelti. Il loro ciclo vitale fu stimato, secondo Πλούταρχος – Plutarco, in 9720 anni, mentre il poeta greco antico Ἡσίοδος – Esiodo (Ascra, VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) sostenne che nel mondo sono presenti ben tremila ninfe e che la loro esistenza può protrarsi per diverse migliaia di anni: si riteneva fossero particolarmente benevole con le giovani ragazze, alle quali rimuovevano delicatamente le lentiggini, mentre potevano mostrare un atteggiamento aggressivo e pericoloso nei confronti degli uomini che si fossero addentrati incautamente nei loro territori acquatici, a volte aggrendoli e trascinandoli sul fondo delle loro dimore, causandone la morte; si credeva altresì che trasportassero acqua per i loro genitori fluviali, così come veniva citato nell'espressione: "Nell'ora solitaria di mezzogiorno le naiadi sedevano con la loro brocca d'acqua alla sorgente, inviando da esso il ruscello gorgogliante". Generalmente di inclinazione generosa e conciliante, la loro caratteristica principale risiedeva nell'esser in grado di donare la capacità della profezia a coloro i quali avessero bevuto dalle loro acque dietro consenso, così come potevano benedire il fortunato con il talento nell'Ars Poetica. Il loro elemento naturale, l'acqua, era alla base di ogni principio generativo e creativo e per tale ragione le Potemeidi erano onorate e venerate allo stesso modo di grandi Divinità come Διώνυσος – Dionysos e Δημήτηρ – Demetra. Il loro culto fu diffuso soprattutto tra il popolo e i contadini, i quali le consideravano entità benefiche protettrici della salute e le onoravano con offerte di carattere agreste quali latte, miele, olio, frutta e fiori, talvolta con sacrifici di una capra o un agnello, ma mai con del vino: generalmente non possedevano luoghi di culto propriamente detti, come templi o santuari, ma erano onorate presso aree naturali particolarmente belle o amene.

19Figlio di della coppia di Titani Ωκεανός – Oceano e Τηθύς – Thetys, il primo tra i Ποταμοί – Potamoi (i 100 fiumi figli dei sopracitati Titani) e la più importante tra le Divinità acquatiche dell'antica Ellade, era percepito in forma di toro al pari di altre entità similari. Compare durante le Dodekathlos di Eracle, quando questi aspirava alla nozze con Δηϊάνειρα - Deianira figlia di Οἰνεύς - Eneo Sovrano degli Etoli: il Dio del Fiume e l'Eroe lottarono aspramente, con il primo che mutò più volte la sua forma dapprima in serpente, poi in toro, in un drago viscido e iridescente e infine in un uomo bucranico. In questa foggia Eracle riuscì a strappargli via un corno e Acheloo si dichiarò sconfitto, concedendogli il permesso di sposare Deainira, chiedendo indietrò però il corno strappato via, che scambiò con uno della capra nutrice di Zeus, Ἀμάλθεια – Amaltea, il quale divenne la cornucopia: dalle gocce di sangue versato a causa della mutilazione sorsero le ΣειρῆνεςSirene, denominate infatti con il patronimico Acheloides (per quanto si ritiene anche che le generò assieme a Sterope o con la Musa della Tragedia Μελπομένη - Melpomene). Le arpie non furono la sua unica progenie, dato che suoi figli furono anche Ippomadante ed Oreste, avuti da Perimede figlia di Αἴολος – Eolo, la fonte Pirene di Corinto, la Castalia di Delfi, la Dirce di Tebe, e Καλλιρρόη – Calliroe sposa di Alcmeone: le acque dolci furono poste sotto la sua sconfinata protezione, tanto che Virgilio si riferì a lui come Acheloia Pocula. Fu massimamente venerato sin dall'antichità anche per via della sua vicinanza con l'importante centro oracolare pre- greco di Δωδώνη - Dodona, dove in seguito fu venerato Zeus Molossòs e Naiòs, e a ogni reponso era implicito l'obbligo di sacrificare anche al Dio Fluviale che, per tale ragione, era invocato durante i giuramenti, nelle preghiere e nei sacrifici. La portata delle sue acque creò più di qualche problema al fine di contenerle nell'alveo, come narratoci da Στράβων – Strabone, e la pianura da esse bagnata risultava ottimamente fertile; odiernamente è identificabile con il fiume Aspropotamo, il secondo corso d'acqua più lungo della Grecia, ma il suo nome fu dato anche ad altri fiumi minori in Tessaglia e in Arcadia.

20Lerna nell'Argolide, sito di un antichissimo insediamento pre – acheo abitato sin dal periodo Neolitico il quale ha restituito preziosi manufatti della primeva civiltà dell'Ellade, distante circa 10 km dalla città di Άργος – Argo e sorgente nei pressi della mefitica palude ove dimoravano la mostruosa Ύδρα – Hydra e il crostaceo gigante Καρκινος – Karkinos, che costituirono la seconda tra le Dodekathlos.

21 Ἀρέθουσα -Arethusa, ad esempio, ninfa di sorgente, era in possesso della facoltà di spostarsi attraverso le correnti sotterranee del Peloponneso e riaffiorare in Sicilia, presso l'isola di Ὀρτυγία – Ortigia.

22 Ugo Antonielli, ispettore del Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma, quindi direttore dopo il pensionamento di Luigi Pigorini al quale oggi il sopracitato Museo è intitolato.

23 Editto di Tessalonica, il Cunctos Populos emesso il 27 febbraio del 380 d.C. per volere degli Imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II.


IMPPP. GR(ATI)IANUS, VAL(ENTINI)ANUS ET THE(O)D(OSIUS) AAA. EDICTUM AD POPULUM VRB(IS) CONSTANTINOP(OLITANAE).

Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est, ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spiritus sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere ‘nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere’, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitro sumpserimus, ultione plectendos.

DAT. III Kal. Mar. THESSAL(ONICAE) GR(ATI)ANO A. V ET THEOD(OSIO) A. I CONSS."



TRADUZIONE



«GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO AUGUSTI. EDITTO AL POPOLO DELLA CITTÀ DI COSTANTINOPOLI.

Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all'insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.

DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO"

24Fu proprio a cavallo di questi due secoli che venne prodotto il maggior numero di versioni latine dell'oracolo sibillino dei IX Soli.

25 Enrico III di Franconia detto Il Nero (28 ottobre 1016 – Bodfeld, 5 ottobre 1056), Rex Romanorum dal 1039 al 1056 e Imperatore del sacro Romano Impero dal 1046, figlio di Corrado II il Salico e Gisella di Svevia. Ad Aquisgrana, 14 aprile 1028, Corrado II lo fece incoronare Rex Romanorum dall'arcivescovo di Colonia, Pellegrino. Nell'autunno del 1038 divenne Sovrano di Borgogna, e succedette al padre l'anno successivo sul trono imperiale. Nel 1041 sottomise la Boemia, assoggettando parimenti il Regno d'Ungheria all'autorità imperiale. Svolse anche il ruolo di reggente del Ducato Carinzia dalla morte del cugino, Corrado II di Carinzia, fino al 1047. Nel 1026 prese in sposa come prima moglie Gunhild di Danimarca, figlia di Knútr inn ríki – Canuto il Grande Sovrano d'Inghilterra e Danimarca, la quale morì di malaria il 18 luglio di due anni dopo e venne seppellita nel Monastero di Limburg; il 20 novembre del 1043, a Ingelheim, Enrico contrasse il secondo matrimonio con Agnese di Poitou dalla quale ebbe sei figli e alla cui influenza si deve l'avvicinamento del Sovrano all'ordine monastico dei Cluniacensi. Nel 1046 fu costretto a scendere in Italia in occasione del Sinodo di Sutri, proprio su consiglio dei cluniacensi, al fine di sbrogliare una gravissima cristi interna al Papato generata dalla contemporanea elezione di tre Pontetici Gregorio IV, Benedetto IX e Silvestro III, ognuno supportato da tre differenti famiglie romane. Il Rex Romanorum elevò al Soglio Petrino il Vescovo di Bamberga Sutigero, il quale venne intronizzato a Roma il giorno di Natale del medesimo anno come divenendo Papa Clemente II: nello stesso giorno Enrico fu incoronato Imperatore e il Vicario di Cristo gli conferì il principatus in electione papae, ovverosia il diritto d'essere il primo a indicare il candidato per la carica pontificia. Morì il 5 ottobre del 1056 e fu seppellito nel Duomo di Spira, mentre il suo cuore è conservato presso il Palazzo Imperiale di Goslar, nella Bassa Sassonia.

26Profeta dell'Antico Testamento, figura particolarmente vicina a Dio ed Elia; sia quest'ultimo che Enoc, secondo la tradizione cattolica, sarebbero tornati in vita per annunciare l'Avvento del Signore.

27Beda il Venerabile (673 circa – 26 maggio 735), storico e monaco anglosassone, che trascorse la sua vita nel monastero benedettino di San Pietro e San Paolo a Wearmouth, oggi facente parte del territorio dell'odierna Sunderland, e a Jarrow nella Contea del Northumberland, nel nord – est dell'isola; venne sepolto nella Cattedrale di Durham, deve la sua fama alla sua opera di studioso e molteplici opere, tra le quali la più celebre è sicuramente l'Historia Ecllesiastica Gentis Anglorum (suddivisa in 5 tomi per un totale di 400 pagine narranti la cronistoria dell'Inghilterra tra eventi politici ed ecclesiastici, dal tempo della sbarco di Gaio Giulio Cesare sino al 731), che gli valse il titolo onorifico di "Padre della Storia Inglese": la sua attività letteraria fu varia e vasta, essendoci pervenuti suoi trattati sulla musica, sulla poesia e commentari biblici; è dichiarato Santo e Dottore della Chiesa Cattolica. Entrò nel monastero di Wearmouth molto giovane, all'età di 7 anni, divenendo Diacono a 19 e Sacerdote a 30; la sua educazione fu affidata agli Abati Benedictus Biscop, suo maestro e precettore, e Ceolfrid il quale fu forse colui che lo accompagnò a Jarrow nel 682. Il titolo di Venerabils gli fu associato relativamente presto, sembra già due generazioni dopo la sua morte: a tal riguardo, esiste un'interessante leggenda agiografica avente come protagonista un tale "monaco somaro", il quale volle comporre l'epitaffio in onore di Beda, ma non essendone in grado, lasciò la frase mutila tale che risultò essere "Hac sunt in fossa Bedae... ossa.". La mattina seguente, tuttavia, trovò l'il lavoro completat grazie all'intervento degli Angeli, i quali avevano colmato la lacuna inserendo il titolo di "Venerabilis": la leggenda, tuttavia, è relativamente tarda, assente nelle auctoritates delle epoche precedenti e riportata solamente dallo storico e sacerdote inglese Thomas Fuller vissuto nel XVII secolo (Northamptonshire, 1608 Londra, 16 agosto 1661), mentre il titolo onorifico di Venerabilis è attestato in Alcuino di York (Alhwin o Alchoin, in latino Albinus o Flaccus; Regno di Northumbria, 732 Tours, 19 maggio 804), Amalario di Metz (noto anche come Amalarius Symphosius, Metx – 780 – Metz, 29 aprile 850 d.C.) e Paolo Diacono (Paulus Diaconus, pseudonimo di Paul Warnefried, Cividale del Friuli, 720 circa – Montecassino, 13 aprile 799), mentre nel Concilio di Aquisgrana dell'835 fu descritto come venerabilis et modernis temporibus doctor admirabilis Beda, ovverosia "il venerabile e meraviglioso dottore dei nostri tempi Beda". Un culto locale incentrato su San Beda si era mantenuto nella città di York ed era generalmente diffuso nel nord dell'Inghilterra durante il periodo medievale, risultando però confinato al solo settentrione dell'isola e non venendo osservato nelle aree meridionali, ove invece era in voga il Rito di Sarum: variante del rito romano utilizzato in Gran Bretagna precedentemente alla Riforma Protestante, in vigore nella Cattedrale di Salisbury ("Sarum" in latino, nella parte occidentale dell'Inghilterra ma, successivamente, si diffuse in tutto il territorio, prevalentemente al sud [*1]). Beda fu profondamente versato nella letteratura patristica, anche grazie alle centinaia di volumi presenti nella biblioteca di Wearmouth e Jarrow (dai 300 ai 500, cifra che le rese una tra le più grandi dell'Inghilterra), e nei suoi scritti non è desueto trovare riferimenti ad autori classici quali Ovidio, Virgilio, Orazio, Lucrezio e Plinio il Giovane: ovviamente, com'è lecito attendersi, tali cononoscenze del mondo pagano incontrarono disapprovazione nel parere di alcuni suoi contemporanei; versato anche nel greco e, in minor misura, nell'ebraico, il suo latino era fluido, diretto e privo di artifici o vezzi linguistici. I suoi scritti spaziarono tra la grammatica, la musica, la poesia, scienza con analisi sui fenomeni natuali nel De Rerum Natura (affermò che "La terra è tonda come una palla da gioco") e sulla cronologia con il De Temporibus e De Temporum Ratione: in quest'ultimo è presente un'appendice relativa a una tabella pasquale coprente l'intervallo degli anni 532 – 1063 d.C., ergo un ciclo di 532 anni fondato sul ciclo lunare metonico di 19 anni e viene considerata una precisa estensione della tabella vergata dal monaco Scita Dionigi il Piccolo (Dyonisus Exiguus, V – VI secolo, famoso soprattutto per aver calcolato la nascita di Gesù ponendola all'anno 753 dalla fondazione di Roma e per aver introdotto il metodo di computo degli anni a partire da tale avvenimento, definendo tale tecnica "Anno Domini", ancora oggi in uso; viene considerato il fondatore della cronologia storica generale, risultando il suo sistema cronologico il più utilizzato assieme al Calendario Gregoriano del 1582), dal quale riprese anche la costumanza di dividere gli Evi prima e dopo l'avvento del Cristo. Scrisse di se stesso nell'Anno Domini 731, dunque pochi anni prima della sua morte, nel prologo dell'Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum:


"Così io, Beda, servo di Cristo e sacerdote del monastero dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, che si trova a Wearmouth e a Jarrow, con l'aiuto del Signore ho composto fino a dove ho potuto raccogliere, o dai documenti degli antichi o dalle tradizioni degli antenati o dalla mia conoscenza, questa storia ecclesiastica della Britannia, e specialmente del popolo inglese. Sono nato nel territorio del detto monastero, e all'età di sette anni i miei genitori mi affidarono alla cura del reverendissimo abate Benedetto, e in seguito a Ceolfrid, perché mi istruissero. Da quel momento ho passato tutta la mia vita all'interno del suddetto monastero, dedicando tutte le mie fatiche allo studio delle Scritture, e fra l'osservanza della disciplina monastica e del compito quotidiano di cantare in Chiesa, è sempre stato per me piacevole imparare, insegnare o scrivere. A diciannove anni fui ammesso al diaconato, a trent'anni al sacerdozio, ed entrambi li ho intrapresi nelle mani del reverendissimo Vescovo Giovanni, e sotto la disciplina dell'abate Ceolfrid. Dal momento dell'ammissione al sacerdozio al mio attuale cinquantanovesimo anno, mi sono occupato di aggiungere brevi note sulle Scritture, tratte dai lavori dei Venerabili Padri o in conformità con il significato e le interpretazioni da essi indicati, e ciò per mio uso personale e per quello dei miei confratelli."


[*1] La liturgia anglicana del The Book of Common Prayer trae origine prorpio da tale rito ed ebbe inizio nel 1078, quando Gugliemo I d'Inghilterra (Falaise, 8 novembre 1028 – Rouen, 9 settembre 1087) nominò Osmond (Sees, XI secolo -Salisbury, 3 dicembre 1099) Vescovo di Salisbury, il quale apportò alcune significative modifiche alle liturgie anglosassoni e celtice, adattando il rito romano alle costumanze anglosassoni: l'opera di Osmond si tradusse nella creazione di un nuovo messale, un breviario e altri testi liturgici.

28Equivalenti delle moderne guide da viaggio, facevano parte della letteratura periegetica (filone storiografico, in voga sin dall'epoca ellenistica, il quale partendo da un itinerario geografico enunciava notizie e nozioni di varia natura circa popoli, località e persone, per quanto possibile verificate tramite esperienze vissute dall'autore), in uso dai pellegrini che si recavano a Roma viaggiando dai luoghi più disparati. I primi manoscritti di questo genere apparvero nel XII secolo e restarono in voga fino al periodo Barocco: nonostante fossero opere pensate e concepite per un pubblico cristiano, curioso a dirsi, citavano e riportavano anche opere pagane le quali attiravano, spesso e volentieri, maggiormente l'attenzione dei fruitori. Non era raro trovare al loro interne storie fantasiose basate su situazioni reali, come la statua di Marco Aurelio confuso per Costantino o le firme apocrife poste sulle sculture dei Dioscuri di Montecavallo, erroneamente credute i nomi dei personaggi ritratti. Nel XVI secolo, con la sempre più crescente attenzione rivolta al fascino delle rovine archeologiche, la parte fantasiosa viene eliminata in favore di un dettagliato computo delle antichità presenti nella città: si narra che un turista, guidato da un abile cicerone, potesse visitare tutte le ricchezze del patrimonio storico in soli tre giorni.

29Aracoeli significa, per l'appunto, "Altare del Cielo".

30 Edizione Alberti Milioli notarii Regini Liber de temporibus et etatibus et Cronica Imperatorum, ed. O. Holder - Egger, MGH, Scriptores (in Folio), SS, XXXI, 1903, pp. 572-668.

31Un acrostico, dal tardo greco ἀκρόστιχον, composto da ἄκρον, "estremo" e στίχος, "verso", è un componimento poetico o un'altra opera linguistica in cui lettere, sillabe o parole iniziali di ciascun verso vanno a formare una frase o un nome.

32Tempio avente un portico di colonne sulla facciata e privo delle stesse sui lati: è uno stile architettonico particolarmente noto tra elleni, etruschi e romani; generalmente il numero di colonne esterne in una struttura prostila non supera le quattro, come nel caso del tempio qui preso in esame: "prostilotetrastilo", ergo avente quattro colonne sulla facciata e nessuna effettiva sui lati.

33Nel tempio greco rappresentava la base sulla quale era disposto il colonnato, formato da blocchi di pietra disposti orizzontalmente sino a formare una linea uniforme. Nell'accezione antica, quella qui presa in esame, il termine è generalmente riferito all'ultimo gradino del κρηπίδωμα – crepidoma, la piattaforma rialzata composta da gradini sulla quale veniva edificato il tempio con ciascuno di essi costituente uno degli "scalini" che consentivano l'accesso al luogo di culto.

34 La cui struttura interna risulta invisibile essendo stato sostituito il pavimento antico con uno in cemento.

35Lo spazio dinnanzi alla cella, preceduto da colonne formanti il πρόδρομος – pròdromo.